Uniform

American Standard

2024 (Sacred Bones)
noise-rock, industrial-metal

Spesso e volentieri, in tempi recenti, l'album non è il territorio d'azione prediletto per certe formazioni di musica estrema. È in ottica live, o in formati più brevi e/o condivisi con colleghi di sfuriate, che molte band di questo tipo riescono a consumare al meglio la propria ferocia. Arriva però a volte (quest'anno lo abbiamo visto con i Thou in ambito sludge metal), sebbene tardivamente, un momento in cui un lungo processo di maturazione porta questo genere di gruppi a cristallizzare finalmente la propria ferocia in un Lp. È quello che è successo agli Uniform, intransigente formazione noise di Brooklyn (NYC), dopo ben dieci anni di attività, durante i quali ha diviso il palcoscenico con nomi quali Boris e Deafheaven. Il disco in questione è il loro quinto in proprio e si intitola "American Standard".

Il "canone americano" messo in piedi dai newyorkesi è tossico sin dalla cover, dove torreggia una gigantesca fabbrica che sbuffa i suoi fumi mortali nel cielo ingiallito dal filtro seppia. Il veleno sonico degli Uniform non è però soltanto politico, non riguarda soltanto l'America, ma anche la condizione psicologica di chi la vive e alcune delle sue estreme conseguenze. In effetti, il paesaggio opprimente presente sulla copertina può avere una doppia valenza: da un lato, l’approccio nichilista e disincantato è rivolto verso una realtà statunitense sempre più amara e controversa, ma come mai in passato il messaggio si trasforma anche nel grido disperato di un essere umano deluso, ossessionato, schiacciato da se stesso e probabilmente incapace di trovare la pace desiderata.
Tra singhiozzi, latrati e scream, nel corso delle quattro tracce che compongono l'opera, il vocalist Michael Berdan confessa con lacerante e brutale sincerità sia l'alcolismo che un disturbo alimentare, ergendosi a esempio e martire di una società sempre più nevrotica e autodistruttiva.
“A part of me, but it can’t be me. Oh God, it can’t”. Il nuovo album degli Uniform comincia così, con le urla del frontman che sputano fuori il dolore della bulimia nervosa, l’ammissione di una malattia tanto fisica quanto psicologica. Il brano, come un corpo in totale sofferenza, si arrampica attraverso ventuno minuti a cavallo tra noise-rock, attitudine post-industrial e virate di taglio sludge, in attesa di una parte conclusiva completamente fuori controllo, dove l’uptempo diventa sinonimo di puro delirio (auto)distruttivo tra lampi sintetici abbaglianti.

Tuttavia, una piccola consolazione arriva dalla letteratura, dove ogni aspetto della malattia può essere raccontato in maniera libera e trasversale. Da qui, le citazioni per B.R. Yeager (autore del cult “Negative Space”) e per Maggie Siebert (un riferimento importante per il body horror contemporaneo). Seguendo tale percorso, la musica degli Uniform cerca di trasformare l’agonia in liberazione, come accade nelle imponenti nonché inesorabili “This Not A Prayer” e “Clemency”, due eventi traumatici dai bagliori catartici.
All'inizio di "This Is Not A Prayer", tolta l'inevitabile logorrea folle di Berdan, la scena è tutta della sezione ritmica formata da Michael Blume e Brad Truax (rispettivamente alla batteria e al basso). Il primo percuote le pelli senza pietà e limiti di velocità, il secondo (scuola Interpol) fa franare sul baccano lente linguate di basso. Quando la chitarra di Ben Greenberg ricomincia a pompare rumore, è nuovamente caduta libera nei meandri più oscuri della mente e della società.

Se in "Clemency" il noise-rock diventa più fisico, con protagonista un riff che serpeggia come un vermone sotterraneo industrial-metal, l'assalto finale, intitolato "Permanent Embrace", si nutre di confusione e repentini innesti di nuova artiglieria, con un finale così apocalittico da rimembrare i primi Have A Nice Life. “American Standard” trova forse il suo apice assoluto proprio tra le note del brano conclusivo. Una spirale dai contorni malsani, ruggine post-atomica per anime tormentate.
La formazione allargata può solo accompagnare, considerando le ambizioni di una band già apprezzata e ricercata non solo negli ambienti prettamente musicali (le collaborazioni con The Body e con i succitati Boris), ma anche in quelli cinematografici (ricordiamo che due vecchi brani degli Uniform furono scelti da David Lynch per la colonna sonora della terza stagione di “Twin Peaks”).

Con "American Standard", gli Uniform hanno raggiunto senza ombra di dubbio la propria forma migliore e forse hanno inaugurato una nuova fase di una carriera che, così fosse, potrebbe presto donarci i suoi frutti migliori e, va da sé, più dolorosi. L'estate volge al termine e noi non possiamo che genufletterci nell'amaro tempio della band di New York.

01/09/2024

Tracklist

  1. American Standard
  2. This Is Not a Prayer
  3. Clemency
  4. Permanent Embrace

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