Facile dir male dei GoGo Penguin. Facile anche dirne bene, però. La loro formula, al confine fra jazz, minimalismo e Intelligent dance music, è capace di sposare accessibilità e compostezza, brio e regolarità, leggerezza e qualità atmosferiche. Per qualcuno, una garanzia di eleganza e fantasia, per altri niente più niente meno che muzak trita e inespressiva, rivestita di una patina jazzy giusto per distinguerla da tanta fuffa pseudo-new age.
Dalle nostre parti il loro nome non è notissimo, e forse dunque nemmeno troppo divisivo. D'altra parte, qui in Italia il nu jazz non fa sfaceli - anche se dalle parti di Brescia e Milano qualche organizzatore di eventi ha iniziato a interessarsi al filone. A livello internazionale, però, il genere ha una sua risonanza, e con quasi cinquecentomila ascoltatori Spotify mensili il terzetto britannico è senz'altro il nome più rappresentativo come riscontro di pubblico. Per molti sarà inevitabile, dunque, approcciarsi al settimo disco della band con un'opinione già piuttosto strutturata riguardo alla caratura della proposta.
Conviene chiarirlo subito: "Necessary Fictions" assieme scompiglia e conferma le aspettative di appassionati e detrattori. Non fa un singolo passo indietro rispetto agli elementi più polarizzanti della ricetta: suono levigatissimo, gran dispiego di pianoforte einaudiano, occasionali aperture elettroniche, molto spazio per i ghirigori batteristici stile Squarepusher e nessuno - con consueto orrore dei puristi jazz - per l'improvvisazione. Eppure, rispetto ai dischi immediatamente precedenti, porta senz'altro una brezza nuova. Due anni fa "Everything Is Going To Be Ok" era stato il primo album senza Rob Turner alla batteria, e il nuovo arrivato Jon Scott era sembrato molto indaffarato a mostrarsi in linea col predecessore. Le tracce assicuravano il dovuto apporto di ritmiche funamboliche e drumming più leggero dell'aria, ma mancavano slanci personali, e l'ipotetico valore aggiunto della sostituzione stentava a notarsi.
Qui invece - e basta la primissima traccia, "Umbra", per rendersene conto - l'alchimia si riaccende e la macchina torna a spingere verso orizzonti intraprendenti. In "Fallowfield Loops" Scott piazza giù uno schema broken beat che è instabile e robusto come niente messo a punto in precedenza dalla band. "What We Are And What We Are Meant To" ha una costruzione che è puro soft/loud, ma anziché le chitarre ascensionali degli Explosions In The Sky, a guidare attraverso gli oltre cinque minuti di climax e cambi atmosferici sono le inedite intersezioni jazz/dubstep, più un ostinato di piano che farebbe la sua figura in una hit progressive trance firmata Robert Miles.
02/06/2025