Last Night A Mixtape Saved My Life

Soft/loud

Tempeste strumentali. Tensione montante, densità che tormenta, improvvise schiarite e momenti di quiete. Ombra. Luce. Pianissimo e fortissimo che si inseguono e scontrano. Molti appassionati sono abituati ad associare sensazioni del genere alla musica di Godspeed You! Black Emperor, Mogwai, Explosions In The Sky, Mono, Sigur Rós. E a un termine: “post-rock”. Per qualcuno, quest’espressione è diventata perfino sinonima con lo stile musicale sopra descritto, una successione di impennate e diradamenti chitarristici di impianto fortemente emotivo che altri hanno battezzato in modo beffardo crescendo-core.
Un'altra etichetta, meno diffusa ma ancor più descrittiva, è soft/loud. Oltre a indicare le band di cui sopra, il binomio ben si adatta a una folta schiera di discepoli, amatissima presso una nutrita fanbase ma quasi rimossa dalle colonne delle principali testate dedicate alla musica indipendente. È alla galassia di questi “altri” adepti del soft/loud che questa playlist guarda: per scelta, lascia da parte i numi tutelari che sono ben noti anche al grosso dei cultori “generalisti” e prova ad addentrarsi un po’ di più a fondo in un panorama che, in ormai circa vent'anni, si è fatto assai plurale.

Storia del genere (sbagliato)

Prima di iniziare l’esplorazione, però, qualche spiegazione riguardo al titolo, che cerca di prendere le distanze dall’identificazione col post-rock, ritenendola fuorviante. Le origini del termine “post-rock”, infatti, erano legate a tutt’altri orizzonti musicali. Quando, nel 1994, il giornalista di The Wire Simon Reynolds coniò l’etichetta, intendeva riferirsi a band molto lontane dal sound cinematico dei cinque artisti citati in apertura. Recita il suo articolo (oggi reperibile nell’antologia “Hip-hop-rock 1995-2008”, edita da Isbn): “Di recente […] un pugno di artisti britannici, galvanizzati dai progressi di generi elettronici come techno e hip-hop quanto dalla libera improvvisazione e dall’avanguardia, si sono avventurati in territori ancora inesplorati […]. La lista dei futuristi comprende Disco Inferno, Seefeel, Insides, Bark Psychosis, Main, Papa Sprain, Stereolab, Pram e Moonshake, oltre a profetici artisti come Kevin Martin (Ice/Techno Animal/God/EAR) e Mick Harris (Scorn/Lull), ex-batterista dei Napalm Death”. E poi prosegue definendo “post-rock” l’utilizzo di strumenti rock a scopi non rock, unito all’impiego diffuso di campionatore, sequencer e interfacce midi.
È evidente che ci sia qualcosa di stonato. I punti di contatto fra la lista di Reynolds e quella che apre il nostro articolo sono davvero scarsi: di quest’ultima, una sola band è britannica e la sua musica ha gran poco a che fare sia con “techno e hip-hop”, che con diavolerie digitali assortite. Al centro della sua formula, come di quella di gran parte delle altre band, stanno le chitarre, e il loro utilizzo, pur dilatato e fortemente votato alla dinamica, sembra senz’altro rientrare nei canoni rock.

Perché, allora, “post-rock”? Per comprenderlo occorre seguire le tracce dell’espressione negli anni successivi all’articolo di Reynolds. Già negli anni Novanta, una parte della critica indipendente si appropria dell’etichetta e inizia a estenderne il campo di utilizzo, includendo prima di tutto formazioni statunitensi (soprattutto dalle scene post-hardcore di Louisville e Chicago: Slint, June of 44, Gastr Del Sol, Tortoise; ma anche Cul De Sac, Labradford) e poi, retroattivamente, altri nomi britannici: su tutti, gli ultimi struggenti album dei Talk Talk di Mark Hollis.
Sul finire degli anni Novanta, a ridosso dell’uscita dei primi lavori dei Mogwai, il termine abbraccia ormai una varietà di stili piuttosto ampia, solo parzialmente legata alla definizione originale di Reynolds. Con la cristallizzazione di una formula ben individuata e la possibilità per il filone di allargarsi a un pubblico più vasto, anche l’etichetta è pronta per il suo “grande salto”. Come illustra il giornalista Jack Chuter nel suo saggio “Storm Static Sleep”, “ciò che prima era un’osservazione accademica di un processo della musica britannica e americana iniziò a attrarre una nuova ondata di band, molte delle quali prendeva il modello fragoroso/quieto degli Slint e lo distendeva attraverso paesaggi di classica minimalista, drone, shoegaze”. La transizione è inesorabile: “Così come nessun ascoltatore di post-rock riassocerebbe più la parola ‘Mogwai’ alle strane creature pelosette dei ‘Gremlins’ di Spielberg, così il post-rock iniziò a far piazza pulita delle sue origini concettuali”. Tempo qualche anno, “post-rock” è Mogwai, GY!BE, Explosions In The Sky, Sigur Rós, Mono (e, almeno per noi italiani, anche Giardini di Mirò). Il resto, solo un ricordo o una curiosità.

“Morte” e rinascita

E poi? Beh, e poi basta. Per gran parte della critica indipendente, quella che aveva dato origine all’etichetta e l’aveva trasformata in un termine onnicomprensivo capace di catturare lo Zeitgeist di una fase degli anni Novanta, a valle di quel pugno di artisti il filone perde di interesse. Non è che di band non se ne formino più - al contrario! ne nascono decine all’anno - ma il vento è cambiato. “Fearless. - The Making Of Post-Rock”, ampio testo del 2017 di Jeanette Leech, si ferma proprio ai nomi di quelle formazioni chiave. “Post rock e oltre”, di Eddy Cilia e Stefano Isidoro Bianchi, nemmeno ci arriva (a sua discolpa, va notato che l’anno di uscita è il 1999).
Il filone è sempre più seguito e sempre più riconoscibile: lunghi brani strumentali dai titoli immaginifici e interminabili, musiche fortemente evocative e perfino “paesaggistiche” nel loro dinamismo, copertine orientate a una comune estetica di eleganza naturale e desolazione. Ma a parte della stampa musicale queste formule appaiono già trite, “derivative”. Questa espressione, particolarmente subdola perché sempre presentata come neutrale, è fra le armi preferite dalla critica alternativa quando si tratta di derubricare scene intere a meri accidenti storici. In un filone “derivativo”, l’adesione a uno stereotipo è più importante della personalità artistica e la varietà quasi scompare, rimpiazzata dall’appiattimento sul canone. Questa almeno è la favola.
Una visione alternativa è: varietà e personalità, del tutto evidenti ai fan del filone, escono dal radar valoriale della critica tuttologica ossessionata dall’"innovazione" e le fanno ritenere che sia meglio cambiare aria. Lo schema, ovviamente, si applica solo a quegli ambiti che siano esteticamente abbastanza “periferici” rispetto all’ideologia indie/alternative da non meritare di per sé un’attenzione irriducibile: “derivative” possono essere la “coda lunga” del post-rock o le attuali scene neoprog; certamente non l’ennesimo revival post-punk o il ritorno dignitosissimo ma musicalmente tutt’altro che sorprendente di qualche mostro sacro.

Proprio nel mentre che il soft/loud esce dal campo visivo della cultura indipendente, però, entra a contatto con altre comunità di ascoltatori. Oltre ai fan di provenienza alternative che, complici le possibilità offerte da forum e altre piattaforme digitali, colgono l’occasione per smarcarsi dal gatekeeping della critica di settore, il nuovo filone “figlio” del post-rock intriga anche giovani amanti del progressive rock, appassionati di post-hardcore e screamo, cultori del metal e delle sue frange più espanse ed estreme. Sempre più band di seconda (o forse terza?) generazione nascono dall’obiettivo esplicito di suonare “post-rock” alla maniera di GY!BE e consociati, ma lo sguardo dei nuovi musicisti è rivolto soprattutto - e non a caso - alla formula dei texani Explosions In The Sky. Mentre gli sozzesi Mogwai si rifacevano a Slint, My Bloody Valentine e God Machine e i giapponesi Mono si riproponevano di “estendere all’infinito” le code dei brani degli U2, gli Explosions In The Sky avevano in mente il sound avvolgente dei Cure e gli intrecci chitarristici dei Metallica. E, inutile dirlo, i crescendo travolgenti degli stessi Mogwai, pionieri di quel campo emozionale.
Mentre i capostipiti del soft/loud rivendicavano con orgoglio la presunta affiliazione “punk” della propria musica, le nuove leve sono molto più inclini a riconoscere le vicinanze col progressive contemporaneo e il filone decisamente attiguo del post-metal. Siti e riviste specializzati in progressive rock trattano ormai con regolarità le uscite soft/loud e il festival inglese ArcTanGent, ospitato nel Somerset dal 2013, nasce come palco dedicato specificamente al filone ma si espande presto per includere anche nomi math-rock, post-prog, post-metal, djent e (sorprendentemente, ma neanche troppo) synthwave.

Guida all’ascolto

La selezione di brani proposta testimonia questo riorientamento dei riferimenti espressivi, avviatosi attorno ai primi anni Duemila e in corso ancora oggi. La playlist si apre su artisti abbastanza chiaramente ascrivibili all’orbita GY!BE, vira gradatamente in zona Explosions In The Sky e Mogwai, e man mano abbandona i progenitori per inseguire direzioni stilistiche più eterogenee. Già attorno al quinto pezzo si fanno strada elementi elettronici e nu jazz (gli australiani Tangents, una delle inclusioni più recenti), mentre nelle tracce seguenti si va incrementando la componente melodica e muscolare (al suo apice nei dublinesi God Is An Astronaut). Dopo un passaggio per temi pressoché celtici coi nordirlandesi And So I Watch You From Afar (fra i nomi più rispettati della scena, al momento), i toni energici portano in lande decisamente elettroniche, ben rappresentate dal nuovo corso degli amatissimi 65daysofstatic e dalle romanticherie progressive electronic dei nostrani Port-Royal.
Un passaggio dolce tra indetronica e downtempo (Arms and Sleepers, Youth Pictures Of Florence Henderson) guida verso la svolta forse più sorprendente: canzoni con la voce! Un’ampia gamma di formazioni, dai francesi Mermonte ai nipponici Jyocho passando per un ventaglio di artisti statunitensi, combinano climax, illuminazioni e cambi d’atmosfera tipici del genere con strutture più vicine al pop, prendendo in prestito elementi ora dal math, ora dall’emo, e talvolta dalla nuova coralità che attorno ai Duemila percorreva l’ambito indie-pop.
Gli esiti sono, spesso e volentieri, tra i più platealmente progressivi toccati dal filone. L’ultimo, ampio sottogenere esplorato dalla compilation è quello dei suoni più duri, affini al cosiddetto post-metal e al versante più cinematico dello screamo. Si è scelto di evitare i nomi cardine come Isis, Pelican, Cult of Luna, buoni eventualmente per futuri approfondimenti ad hoc, e mantenere invece il focus su progetti borderline come Caspian, Russian Circles o Red Sparowes, a cui si aggiunge qualche spunto sui generis come i coreani Jambinai o gli svedesi Suffocate For Fuck Sake, che coi loro palesi riferimenti ai Godspeed You! Black Emperor chiudono in qualche modo il cerchio del mixtape.

Regno Unito, Giappone, Stati Uniti, Francia, Italia, Irlanda, Corea, Svezia; progressive ed emo, folk ed elettronica, math e pop, metal e minimalismo - a dispetto di chi semplicisticamente bolla il genere come copia di copia, la ricchezza del campo soft/loud è notevole, sia sul piano stilistico che su quello geografico, e include ormai fanbase diversificate. Si sarebbe peraltro potuto abbondare ulteriormente nell'assortimento: scene articolate si sono sviluppate in Polonia, Cina e Thailandia, e riguardo a quest’ultima è pure reperibile su YouTube un corto dal titolo “Post Rock A Documentary Film”, risalente al 2012. Ma la playlist era già lunga. Tre ore e venti, trentadue brani. Torrenziale e pure un filo estenuante. In piena sintonia col tema trattato.

 

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