Mattia Merlini

Le ceneri del prog

Mattia Merlini, musicologo, classe 1995, ha di recente pubblicato il saggio "Le ceneri del prog", che mette in discussione molte delle convinzioni più radicate di critica e appassionati generalisti nei confronti del progressive rock. Il genere — sostiene Merlini — non è "morto" alla fine degli anni Settanta sotto i colpi del punk, per poi risorgere brevemente a metà Ottanta col neoprog di Marillion, IQ, Twelfth Night e altri. Questa leggenda può descrivere grosso modo (e peraltro in maniera assai semplicistica) le sorti di uno specifico filone, quello del rock sinfonico britannico, ma fornisce un'immagine inadeguata dell'evoluzione del genere nel suo complesso. Anzi, non solo inadeguata: anche dannosa. Legando a doppio filo l'idea di "prog" con le specifiche caratteristiche del filone sinfonico, finisce per nascondere e quasi negare l'esistenza di una ricchissima schiera di prosecutori e innovatori, che combinando influenze musicali differenti con analogo spirito esplorativo hanno condotto l'attitudine progressiva attraverso tutti i decenni successivi.
Tra i continuatori degli ideali prog, Merlini non individua solo Pallas, Pendragon, Spock's Beard, Big Big Train e similari - che anzi sono trattati da un punto di vista analitico come le formazioni meno "progressive" della risma - ma anche artisti di ambito metal, post-rock, alternative rock, elettronico e autentici eclettici come Kate Bush, Peter Gabriel, Björk, Susanne Sundfør. Adottare quest'ottica richiede però un cambio di prospettiva riguardo ai tratti distintivi, o per meglio dire i "valori fondanti" dell'estetica prog: se l'"elevamento culturale" del rock, la ricerca del virtuosismo strumentale, l'adozione di un immaginario fantasy/fantascientifico non sono più i cardini della mentalità progressiva, quali sono allora i nuovi elementi che contraddistinguono l'impostazione (post-)prog?
Consapevole della complessità dell'interrogativo, e convinto che l'autorità ultima riguardo a un genere risieda solo nella critica, ma anche e soprattutto nel "popolo" legato al genere, Merlini ha condotto la sua indagine come una ricerca sul campo, frugando negli archivi dei periodici musicali e interpellando direttamente gli appassionati attraverso un sondaggio online diffuso nelle principali community progressive del web attuale.
"Le ceneri del prog" fa il punto su motivazioni, metodi, risultati e prospettive dell'attività di studio di Merlini, offrendo analisi dettagliate e spunti per rileggere le credenze consolidate sul progressive alla luce di ambiti apparentemente distanti come il postodermismo o la synthwave. Si tratta di un saggio destinato all'ambito universitario, e la sua lettura è consigliata a chi sia a proprio agio sia col lessico dell'analisi musicale, sia con le forme argomentative tipiche di un testo di carattere accademico.
Anziché proporre una recensione di tipo consueto, abbiamo preferito raggiungere Mattia Merlini via mail, ponendogli qualche domanda da cui potesse scaturire una versione sintetica e "divulgativa", in forma di intervista, del suo testo. Buona lettura!

leceneridelprog_2Autore: Mattia Merlini
Titolo:
Le ceneri del prog — Quel che resta di un genere della popular music
Editore:
Ricordi - LIM
Pagine:
283
Prezzo:
20 €

La prima parte di "Le ceneri del prog" è dedicata a sfatare alcuni miti che tendono a monopolizzare le discussioni riguardanti la "morte" del prog attorno al '76 e la sua successiva "rinascita". Che cosa non quadra, nelle narrative prevalenti?
Essenzialmente quella della "morte del prog" è una generalizzazione che è frutto di una narrazione storiograficamente orientata dai discorsi intorno al genere che sono stati prevalenti da quel momento in poi. La critica britannica, come ha dimostrato recentemente lo studioso Chris Anderton, già da diversi anni era molto divisa su quanto il prog fosse una forma espressiva legittimamente rock, e ha così favorito la costruzione di una narrativa che vedeva il prog, decadente e inautentico, soccombere al punk, fresco, frizzante e fedele alle radici del rock. I critici militanti del punk, ovviamente, ci misero del loro per far passare tale lettura dei fatti.
Non solo ci sono ragioni molto interessanti dal punto di vista culturale e sociale che hanno permesso a questa versione dei fatti di affermarsi, ma c’è anche una questione fondamentale e più prettamente musicale che tutt’oggi porta molte persone ad avvalorarla, ovvero ciò che chiamo “stereotipo anglo-sinfonico”. Si tratta di un’immagine cristallizzata di ciò che il prog dovrebbe essere, che fa però prevalente riferimento a quello che è l’archetipo (sinfonico: con arrangiamenti pieni, influenze classiche, armonie non banali, tastiere a piede libero e tutto il resto che facilmente accostiamo ancora oggi al prog) imposto dallo scenario anglofono. Basti pensare a quanto diverse furono le scene sviluppatesi in Italia, Germania, Francia e molti altri paesi (e quanto diverso fu anche il loro destino a partire dalla metà degli anni Settanta) per capire che si tratta di un riduzionismo inopportuno, e comprendere come rimandare ai flop dei grandi idoli del prog sinfonico per legittimare l’idea di una universale “morte del prog” sia un’operazione che lascia scoperte molte carte.

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Lo stesso concetto di "progressive rock" è stato tutto meno che statico, nel corso degli anni che retrospettivamente sono più spesso associati al filone. L'aggettivo "progressive" era utilizzato, in maniera interscambiabile con altri, per descrivere qualunque cosa dai Led Zeppelin ai Greatful Dead... Eppure, nel tempo il "prog" è andato definendosi come genere determinato ed è emerso un "canone" di gruppi che per grosso modo chiunque ne costituiscono i pilastri. Come è accaduto, e soprattutto quando?
Ciò che entra o meno nel canone di un genere è deciso dai molti attori sociali che concorrono alla definizione del genere stesso (es. stampa, siti, organizzatori di eventi, etichette discografiche, studiosi, artisti e non da ultimi gli stessi appassionati). La costruzione, nella seconda metà degli anni Settanta, della narrazione “prog vs punk” di cui sopra ha contribuito fortemente a identificare da un lato i “dinosauri progressivi” (es. Yes, Genesis, ELP, Gentle Giant ecc.) e dall’altro il “rude nemico” intento a cantare rabbiose canzoni con sotto quattro sporche strimpellate di chitarra. Le cose, come sempre, sono un po’ più complesse di così, ma tutt’oggi tale canone persiste nell’immaginario collettivo. Nel tempo è andato però costruendosene un altro (si veda il seguito dell'intervista, ndr), che, giocando molto più nell’ombra, non ha goduto di altrettanta attenzione ed è quindi molto meno definito. Il prog è sempre stato multiforme (così come lo è oggi), ma ieri molto più di oggi ha subito cristallizzazioni piuttosto chiare. In ambito accademico un anno importante è il 1997, anno in cui sono state pubblicate le prime monografie completamente dedicate al prog, entrambe ad opera di autori anglofoni, che hanno da un lato aperto le danze per una serie di studi che va avanti tutt’ora, dall’altro hanno contribuito a sedimentare il canone classico. Basta leggere trafiletti da libri di un lustro più vecchi per trovare liste di nomi ben più inaspettate.

Siamo abituati ad abbinare all'espressione "progressive rock" una serie di caratteristiche riconoscibili: composizioni labirintiche, testi e intenzioni immaginifiche, risalto dato alle componenti strumentali... Nel tuo testo, fai una mossa in più e cerchi di identificare i "valori" soggiacenti a questi tratti stilistici. Quali sono, e perché considerarli è importante?
La mia opera di ricerca nella parte centrale del libro parte dal presupposto che un genere musicale non esiste se non nei discorsi di chi si interfaccia con esso, come accennavo prima. Il termine “discorsi”, che sicuramente non potrà che tornare numerose volte anche in questa chiacchierata, fa riferimento alle analisi socioculturali di Michel Foucault, che ritiene (semplificando all’osso) che in una certa misura il nostro rapporto con la realtà sia plasmato dagli scambi linguistico-culturali che abbiamo con gli altri. Nella parte centrale del libro cerco di rinvenire un “filo rosso” che possa innescare dei discorsi di legittimazione plausibili nei confronti di questo o quest’altro artista, tentando di mettere da parte i pregiudizi per scoprire quali sono le caratteristiche a cui la comunità progressive sembra dare valore. Lo scopo è poi verificare se effettivamente ci sia qualche caratteristica che possa dirsi presente in un campione abbastanza eterogeneo della musica che viene considerata, dalla comunità stessa, “progressiva”.
Fermandomi per ora a sintetizzare solo il primo di questi due passaggi, per rispondere alla tua domanda, posso anticipare che mi è parso di poter individuare le seguenti caratteristiche: eclettismo (fusione di stilemi e sonorità da tradizioni tra loro distanti), complessità (ritmica in primis, ma anche armonica e legata al virtuosismo), rottura (delle durate standard e della forma canzone), testi “profondi”, ricorso al concept-album e soprattutto una non sempre meglio specificata “attitudine progressiva”, il cui tentativo di definizione è protagonista dell’ultima parte del mio libro.

Alla luce della tua analisi, formuli en passant un'argomentazione dirompente: "Che il prog — soprattutto quello classico — sia stato associato ampiamente a suoni sinfonici e citazioni colte è del tutto contingente". In altre parole, i rimandi classici che sono alla base sia del sound che degli sviluppi compositivi dei più celebri brani prog non sarebbero affatto elementi essenziali del genere?
Sono certamente stati tali per una specifica incarnazione del prog: quella degli anni Settanta, britannica e sinfonica (che sta alla base dello stesso “stereotipo anglo-sinfonico” di cui sopra). Ciò che intendo dire con quella frase – un po’ provocatoria, me ne rendo conto – è che concepire tali tratti come una caratteristica essenziale del prog è una delle principali ragioni per cui oggi i discorsi su tale genere ci sembrano del tutto contraddittori, a maggior ragione se consideriamo il dualismo che esiste tra il neoprogressive (es. i lavori più famosi di Marillion, IQ, Pallas, Spock’s Beard, The Flower Kings, Big Big Train ecc.) e tutto il resto che viene considerato prog (che nel libro chiamo “post-progressive”). Si tratta delle due “ceneri del prog” a cui si riferisce il titolo del libro.
Molti lettori conosceranno uno dei tanti momenti cult regalatici da Richard Benson, ovvero quello in cui inveisce contro i suddetti gruppi neoprog chiedendosi come si possa definire “progressivo” qualcosa che facevano i Genesis e i Van Der Graaf Generator decenni fa. Ed è in fondo proprio questa una delle grandi contraddizioni alla base dei fraintendimenti sulla scena prog contemporanea: considerare i tratti del prog sinfonico britannico come essenziali per la definizione del genere funziona bene per comprendere le evoluzioni del genere in direzione del neoprog, ma funziona assai meno bene per rispondere alla domanda: "Ma quindi questi Porcupine Tree cosa c’entrano col prog?". Per tentare di dare una risposta a questa domanda (e altre analoghe) bisogna guardare altrove e concepire il prog in un modo molto più flessibile e inclusivo, capace di spiegare cosa tenga insieme i discorsi della comunità quando si parla di Genesis, Marillion e Porcupine Tree nella stessa frase. In questo senso, suoni sinfonici e citazioni colte sono solo uno dei modi (pur tra i più celebri, impossibile negarlo) in cui è possibile fare prog.

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Procedi nella tua escursione "oltre la soglia" sviluppando il concetto di "post-prog" e individuando una serie di filoni che sarebbero, per una ragione o per l'altra, le controparti moderne del progressive anni Settanta. Fra questi si trova il "neoprogressive", ma non soltanto: citi artisti come Kate Bush e Peter Gabriel, poi i King Crimson di "Discipline"... Ma anche formazioni come Meshuggah, AgallochSigur Rós, Anathema, Radiohead, Björk, Igorrr, Isis. Come hai individuato, tra i molti possibili (Mars Volta, Cardiacs, Mew... giusto per pescarne da ambiti il più possibile variegati), i nomi da portare come esempio?
Alcuni dei nomi che citi li ho raggruppati consultando le stesse fonti che menzionavo prima, parlando della ricerca dei valori osservati all’interno della comunità prog. Ho confrontato i nomi presenti nelle line-up dei festival dedicati con i premi di critica e pubblico, le classifiche di siti e forum di riferimento, le formazioni delle etichette e quant’altro. Poi ho interrogato direttamente il pubblico, con un sondaggio unico (a cui magari qualche lettore avrà pure preso parte) dedicato sia alla ricerca dei suddetti valori che all'individuazione dei nomi rappresentativi del genere. Ho scelto dieci brani di altrettante band, il più possibile diversificate tra quelle emerse con una certa frequenza all’interno di tali fonti, per analizzarli e vedere quanti dei valori di cui ti parlavo prima contenessero (spoiler: assai pochi). Ovviamente nella selezione svolta subentra anche un criterio soggettivo: pur cercando di variare molto, ho optato per scegliere brani su cui io stesso ritenessi di avere qualcosa di potenzialmente interessante da dire. Pezzi che si prestassero all'impiego di approcci analitici piuttosto diversificati e su cui fosse disponibile possibilmente anche materiale esterno (interviste, videoclip, vicende varie) che potesse rendere il tutto più ricco. Ma se gli Anathema o i King Crimson appaiono piuttosto chiaramente canonizzati (guadagnandosi così anche le loro paginette di analisi musicali dedicate), lo stesso non si può dire degli Agalloch o di Igorrr. Artisti come loro sono infatti trattati solo brevemente in una sezione successiva del libro, in cui parlo di quei “fenomeni di limbo” che, pur non essendo, per una ragione o per l’altra, canonizzati, sembrano produrre musica musica contenente non meno caratteristiche tipicamente autenticanti per il prog di quante ne inseriscano i gruppi canonizzati (anzi, spesso persino di più!).

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Non ti sei limitato a suggerire una continuità tra gli artisti sopra menzionati e il prog comunemente inteso. Hai anche provato a quantificare questa vicinanza, proprio alla luce di quei valori che precedentemente hai individuato come cruciali per le comunità degli ascoltatori prog. Tentando dunque una sintesi: quanto "prog" risultano essere i brani dei musicisti post-prog?
Dipende dalle lenti che si utilizzano per intendere il concetto di “prog” – che è poi forse il punto cruciale del libro. Se usiamo quelle più inclusive ed elastiche da me proposte, allora certamente i gruppi post-prog non sono meno progressivi dei loro precursori hippie (o pseudo-tali). Sono semmai proprio i gruppi appartenenti al filone neoprog a perdere qualche punto, perché basano la loro musica in massima parte sulle spoglie mortali di una singola incarnazione di quello che il prog può aspirare a essere (di nuovo, quella anglo-sinfonica), tradendo così il significato più intimo del termine “progressivo”. Per questo nell’ultima parte del libro propongo di scindere le due correnti sulla base di due modelli interpretativi del tutto contrapposti e basati su meccanismi e interessi molto diversi, dove il neoprog risulta essere la frangia più conservatrice (o quantomeno nostalgica) delle due ceneri in questione. Se invece volessimo usare la definizione “a maglie strette” derivata da tutti gli stereotipi storiografici a cui accennavo all’inizio, beh, allora probabilmente la scena progressiva contemporanea sarebbe effettivamente piuttosto desolante – seppur anche solo la vivacità della sua comunità mi sembra suggerire che non sia questa la strada da seguire.

Alcuni degli artisti post-progressivi da te analizzati sono associati all'etichetta "progressive" da buona parte degli appassionati del genere. Per altri non è così: qualcuno li comprende nel termine, qualcuno no. Li chiami artisti del "limbo" tra prog e non-prog. C'è qualche specifica caratteristica musicale che manca loro per essere riconosciuti in modo più ampio, o l'accettazione di queste musiche "di frontiera" dipende prevalentemente da dinamiche sociali?
Immagino che a questo punto molti già immagineranno la mia risposta: la seconda! La presenza di quella “progressività” che può fungere da filo rosso per tenere insieme i fenomeni musicali è sì importante, come dicevo prima, ma da sola non basta per inscrivere un artista all’interno del genere. Si tratta di una caratteristica forse necessaria, ma certamente non sufficiente a fare ciò. Viene allora da chiedersi che cosa renda più o meno probabile che avvenga tale “autenticazione”, e questa è una domanda a cui è molto difficile dare risposta. La mia ipotesi è che quante più caratteristiche tra quelle valorizzate dalla comunità prog sono evidenti nella musica di limbo in questione, tanto più probabile è che, prima o dopo, un processo di canonizzazione anche solo parziale abbia luogo.

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Il tuo testo non si pone nella prospettiva che è tipica della critica musicale, ma adotta un approccio di tipo musicologico. Qual è, alla radice, la differenza tra queste due impostazioni, e in quali aspetti emerge maggiormente nel tuo modo di procedere?
La critica musicale ha, di norma, l’obiettivo di “valutare” musica, di esprimere un giudizio di valore (si spera il più possibile ragionato e circostanziato) su un’opera musicale. Per fare ciò può spesso servirsi di strumenti di cui fa uso anche la musicologia (tant’è vero che, soprattutto nell’ambito della musica colta, spesso i musicologi sono anche critici), la quale ha però scopi molto diversi. Per esempio, il mio libro non ha alcuna intenzione di suggerire al lettore quali dischi ascoltare e quali no, e al massimo offre a volte delle panoramiche che si spera possano incuriosire chi legge e incoraggiarlo ad approfondire alcuni ambiti. Esso vuole, piuttosto, affrontare un problema complesso utilizzando le regole della ricerca scientifica – pur cercando con una certa frequenza di stemperarne i toni cercando di sfidare alcune fastidiose ortodossie dello stile accademico, senza per questo minarne il rigore. È importante specificare che la musicologia, contrariamente a quanto molti potrebbero credere, è solo in parte analisi musicale, come anche il mio libro dimostra: su oltre 250 pagine, soltanto una ventina entrano nello specifico di singoli brani. Essa è in tutto e per tutto una disciplina umanistica che cerca di relazionarsi scientificamente al proprio oggetto di studio: di dire qualcosa di ragionato e argomentato intorno alla musica, dialogando con altri campi tra loro anche molto diversi, che vanno dalla sociologia alla filosofia, passando per la storia, la filmologia, le teorie letterarie, la psicologia e chi più ne ha più ne metta – prendendo spesso in prestito da tali discipline anche molti dei suoi strumenti. Per questo ritengo che sia molto più importante di quanto si possa credere che il musicologo possieda una formazione umanistica a tutto tondo (per quanto possibile). Un musicologo che non sa suonare alcuno strumento può avere qualche limite ma essere comunque un ottimo musicologo; un musicologo che è al contempo un bravo musicista ma non è in grado di dialogare con altri campi del sapere ha mio avviso limiti ben più gravi. Io stesso ho iniziato gli studi universitari in ambito filosofico e al momento insegno filosofia e scienze umane alle superiori, e posso dire che senza quel tipo di background "Le ceneri del prog" probabilmente sarebbe rimasto un libro fantasma.

Nel quadro della musicologia della popular music, il metodo da te adottato non appare del tutto allineato ad alcune tendenze contemporanee, che relativizzano fortemente il ruolo dell'analisi musicale rispetto allo studio dei processi sociali. In che modo hai cercato di costruire la tua via "ibrida", e quali vantaggi pensi possa offrire?
Come già ti raccontavo all’inizio, la mia posizione in merito al modo in cui ci rapportiamo con la musica, e in particolare al modo in cui formiamo i generi musicali, non sposa le prospettive “essenzialiste” che ritengono, a partire da una multiforme tradizione nata addirittura con Aristotele, che i generi esistano in quanto tali, che siano in qualche modo “già dati”. Tendo a ritenere più plausibile che si tratti di costrutti sociali, come argomentato per esempio da Franco Fabbri nell’ambito dei generi musicali o da Rick Altman nel caso di quelli cinematografici. Tuttavia, come dicevi nella tua domanda, non sono radicale in questa convinzione, tanto che qualcuno direbbe che tendo a inserire nelle mie considerazioni alcune postille che rendono il mio approccio “neo-ontologico”, facendo rientrare dalla finestra qualche elemento di essenzialismo e relativizzando un po’ l’arbitrarietà dei discorsi che definiscono le questioni musicali.
Quindi, i generi sono sì partoriti e nutriti all’interno di una dimensione discorsiva, ma un confronto con la materia musicale non può essere del tutto assente. Per fare un esempio che ritengo essere piuttosto chiaro, pur nella sua assurdità, difficilmente un Vasco Rossi potrebbe essere spacciato per prog, mentre è già più credibile che ciò accada con Caparezza, per fare un nome altrettanto lontano dal canone. Questo perché comunque i discorsi della comunità si basano sulla comune ragion d’essere che è l’ascolto di musica, e non ritengo plausibile che siano quindi del tutto arbitrari (detto pure che non è necessariamente questa la posizione degli studiosi più radicali di me). Resta da chiedersi come mai un’ipotesi ci sembri più accettabile dell’altra, e un confronto con la materia musicale mi sembra in questo senso d’obbligo.
Ritengo che il principale vantaggio sia, banalmente, quello di non lasciarsi sfuggire da sotto il naso la reale ragione per cui tutti – in quanto ascoltatori e studiosi – siamo qui: la musica. C’è un rapporto bidirezionale e reciproco tra i due poli – musica e società: quest’ultima, influenzando il nostro modo di pensare, organizza e dà forma al nostro modo di intendere la musica, la quale però a sua volta informa e orienta quello stesso fattore socioculturale. Non intendo dire che quindi il genere “sia nella musica”, ma che ci sono “ragioni nella musica” per le quali alcuni discorsi (compresi quelli che formano i generi) vengono legittimati e altri no.

Un punto chiave della tua disamina conclusiva è un parallelismo tra l'approccio del progressive e alcuni elementi del postmodernismo artistico. Puoi farcene una sintesi, e mostrare come a tuo giudizio questa chiave di lettura aiuti sia a chiarire le specificità del neoprogressive all'interno del post-progressive, che a tracciare un soprendente "ponte" tra il neoprog e un genere apparentemente distantissimo come la synthwave?
Come ben sanno i miei studenti, che talvolta decidono di farsi interrogare sul postmodernismo anziché su Sartre perché sembra notevolmente più semplice e accattivante, ma poi finiscono spesso per pentirsene amaramente, il postmoderno è in realtà pieno di dialettiche e contraddizioni interne, tanto da convivere spesso persino con il suo stesso opposto: il moderno. Non posso quindi neanche sperare di fornire ai lettori una panoramica sul fenomeno che pretenda di essere chiara, concisa e coerente; mi limiterò a menzionare un aspetto che interessa particolarmente il discorso sul prog, e lo farò attraverso un esempio cinematografico. Avete presente i classici film di Quentin Tarantino? Ecco, quello è un tipico esempio di cinema postmoderno, che recupera elementi dal cinema del passato (tanto amato dal regista) rimescolandoli sapientemente, talora con la volontà di omaggiare le fonti, in altri casi con un piglio più ironico. Uno degli aspetti fondamentali del postmodernismo (anche musicale) è proprio il riciclo di elementi del passato: dal momento che la storia è finita, non possiamo fare altro che continuare a giocare con i resti delle sue spoglie mortali. L’artista, come diceva Fredric Jameson, passa dall’essere autore all’essere bibliotecario. Ritengo che entrambi i filoni di post-progressive (il neoprogressive e il calderone in cui far confluire tutti gli altri tipi di post-prog) si basino sul meccanismo postmoderno della simulazione, del riciclo appunto, ma ne facciano uso in modo molto diverso. Il neoprog, infatti, “simula” una specifica musica del passato (il prog sinfonico britannico) con intento nostalgico (e in questo è in buona parte simile alla synthwave, che fa lo stesso con certa musica elettronica degli anni Ottanta), mentre il post-prog “simula” una miriade di tipi diversi di musica, col fine di scardinare dall’interno i cliché del rock innestandovi elementi estranei – similmente a come, in origine, il prog classico era solito fare con la musica colta. Questa è però solo la punta dell’iceberg perché, come se non bastassero le contraddizioni interne al postmodernismo stesso, il prog ha mosso i suoi primi passi proprio nell’epoca di transizione tra il moderno e il postmoderno, e per questo incarna valori ascrivibili a entrambe le correnti di pensiero… e qui mi fermo, per pietà dei lettori.

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Quali le future direzioni per le tue ricerche sulla popular music in generale e il progressive in particolare?
Bene o male, rimango essenzialmente una persona appassionatamente curiosa e vorace, tanto come ascoltatore quanto come studioso. Quindi mi è davvero difficile restringere significativamente il campo di mio interesse. Una cosa che mi viene subito in mente è che in questo momento ritengo che l’Italia in particolare abbia bisogno di darsi una svegliata per quello che riguarda la ludomusicologia, ovvero la branca della musicologia che si occupa dello studio della musica per videogiochi. Nella scorsa primavera ho presentato un intervento alla plenaria della società ludomusicologica europea ed è stata la conferenza più popolata a cui mi sia capitato di partecipare. Tuttavia, del centinaio abbondante di partecipanti da tutto il mondo, ero l’unico studioso italiano che ho visto in lista. È un peccato, specialmente per un paese che ha avuto e ha tutt’ora così tanto da dire sul vicino campo della musica per film, non essere altrettanto aperto a simili prospettive. Per questo vorrei cercare di smuovere un po’ le acque! Riguardo al prog, invece, mi interessa soprattutto approfondire i suoi legami con le nuove modalità di fruizione musicale, che paiono in netto contrasto con alcuni dei valori che citavo prima. Un esempio? Il concept-album: che valore assume nell’epoca delle playlist e dello zapping musicale sui servizi di streaming? Ma anche senza andare molto lontani dai temi trattati nel mio libro: quali nuove forme di definizione, rinegoziazione e canonizzazione mettono in campo gli attori sociali immersi nella nuova realtà digitale? Sono aspetti che vorrei approfondire – e in parte sto già approfondendo – in modo più generale, ma sicuramente il prog può rappresentare un caso di studio interessante.
Gli studi sulla popular music sono relativamente giovani e il loro campo di indagine è in continua e vorticosa evoluzione, quindi c’è il costante bisogno di gettare uno sguardo attento su tali fenomeni, che rischiano altrimenti di passare in sordina – e un altro esempio che mi viene in mente in questo senso è proprio la synthwave, che citavi prima: se tutto va bene, tra un po’ uscirà un mio paper in merito e credo che sia uno dei primissimi contributi scientifici sul tema, tanto per farti intuire quanto esplorare gli innumerevoli anfratti di questa disciplina sia urgente, ma al contempo eccitante per chi ha interesse a farlo. Lasciare ai posteri l’analisi del nostro presente è sicuramente una via percorribile e per certi aspetti vantaggiosa; potercene occupare noi fin d’ora dall’interno offre prospettive forse più parziali, ma altrimenti destinate a scomparire: è un’occasione che non possiamo perdere!

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