Un torero bambino, che posa agghindato di tutto punto, nello sguardo una nobile imperscrutabilità. Una ragazza-fumetto, i capelli rossi a incorniciarne il pallido viso, immersa nell’oscurità con il suo piccolo panda. Una farfalla e un uovo, due uova, cinque uova, sovrapposti, compongono il volto di una sinistra creatura, che sorride. Un angioletto stilizzato, in picchiata. Un canto di purezza androgina, che si libra in complesse, eppur candidamente familiari melodie, mentre a suo contraltare infuria un baccanale celebrato da una Telecaster affilata come una lama, che affonda i suoi dissonanti fendenti in spiazzanti controtempo, da un basso che è al tempo stesso granitico appoggio e dinamitarda destabilizzazione, e da una furia creatrice percussiva indomita e mai succube degli eventi, quanto piuttosto indirizzatrice di umori e delle altrui prestazioni.
Tanto intrinsecamente limitato (e limitante) quanto sostanzialmente imprescindibile, come può porsi lo sguardo divulgativo/critico di fronte a un’anomalia, così “altra” dal sentire comune da riuscire sempre a sfuggire alle catalogazioni naturalmente necessarie alla sua divulgazione? Concretamente: come spiegare all’ascoltatore l’universo Mew, così aperto a molteplici contaminazioni, ma al tempo stesso così graniticamente e fatalmente autoreferenziale?
Sicuramente esiste la via della minuziosa analisi tecnico-estetica, che è poi ciò che questo scritto, dal prossimo paragrafo, spera di portare a termine. Ma c’è anche la strada dello slancio, dell’intuizione più pura, quella che non deve procedere per la razionalizzazione della materia, ma riesce comunque a coglierne l’essenza, anche più in profondità. Ed è così che si può far affidamento alle chiavi di lettura iconografiche lasciateci dagli stessi autori nelle copertine o nel logo della band: fragili, tenere, infantili, aggraziate, esse simboleggiano al meglio la musica che rappresentano. Oppure, ci si può, semplicemente, abbandonare alla complessa estasi sonica prodotta da questi quattro danesi, immaginifica e sufficiente a sé stessa come pochissime altre negli ultimi vent’anni di musica pop.
C’è dell’indie in Danimarca
Copenaghen, 1991. Nell’immaginario del musico/cine-filo medio, un paese che non ha comunque molto da offrire come la Danimarca ancora non aveva sfornato il manifesto cinematografico Dogma 95 (per quanto il suo autore più celebrato, Lars Von Trier, avesse già prodotto tre lungometraggi) e la febbre eurodance, a cui la patria di Amleto avrebbe contribuito con validi act quali Whigfield (e altri meno validi, come gli Aqua), e che presto avrebbe contagiato tutto il Continente, stava appena iniziando a diffondersi. Insomma, una terra di nessuno, con tutte le aridità del caso, ma anche le eccitanti possibilità che una simile situazione può offrire.
È questo il contesto in cui muovono i primi passi i tre liceali protagonisti di questa storia, tutti classe ’76: Jonas Bjerre (voce e chitarra ritmica), Bo Madsen (chitarra solista) e Jonah Wohlert (basso) si conoscono ancora adolescenti nel corso della realizzazione di un bizzarro corto per un progetto scolastico, che li vede imberbi protagonisti.
La scintilla scocca presto, con la scoperta delle comuni inclinazioni, e, nel giro di qualche anno, i Mew divengono realtà, grazie all’ingresso in formazione, nel 1995, di Silas Graae, batterista tanto giovane (classe ’79!) quanto talentuoso.
Dopo pochi mesi il quartetto incide un demotape di sei canzoni, alcune delle quali confluiranno poi nell’album di debutto. Il materiale è ancora molto grezzo, tanto da risultare molto più a fuoco l’estetica fumettistica dell’artwork - che verrà ripresa quasi integralmente nell’album di debutto - rispetto alle canzoni stesse.
Bisogna attendere il gennaio 1997 per avere nuovamente notizie dei nostri, ma la pazienza per gli ancora pochi fan è stata ben riposta: esce per l’etichetta sostanzialmente auto-fondata Exlibris Musik il primo singolo assoluto dei Mew, “I Should Have Been A Tsin-Tsi (For You)” (con annesso videoclip diretto nientemeno che da un giovane Nicolas Winding Refn), scheggia indie-pop vagamente orientaleggiante, forse scarna melodicamente, ma già foriera di una serie di piccoli espedienti mirabili e sconosciuti alla grande maggioranza delle giovani proposte emergenti; strutturalmente, infatti, la canzone inizia con i canonici verse-chorus (che è, però, in 6/4 e non in 4), ma poi le successive due strofe sono strumentali, la prima percorsa da chitarre sfrigolanti, la seconda da un divertente solo di synth. Il risultato è che il ritornello, proprio perché unica linea vocale più volte ripresa, si eleva a una sorta di mantra dell’assurdo.
Nell’aprile dello stesso anno viene rilasciato il corrispettivo album di debutto, A Triumph For Man. Negli anni a venire, il quartetto sorprendentemente non mancherà di citare spesso formazioni di indie-rock americano quali Pixies o Dinosaur Jr. come fondamentali ispiratori delle proprie gesta. Al di là della “posa indie”, che sembra essere lo scotto da pagare per chiunque voglia ottenere un minimo di visibilità presso certi tipi di utenza e di giornalisti, è effettivamente innegabile come in questo primo disco l’estetica alternativa imperante tra fine anni 80 e inizio 90, sia inglese (jangle-pop, shoegaze) che americana (alt rock, lo-fi), funga da perno attorno a cui muovono gli umori di tutti i brani. Pur nell’acerbità di una proposta creata da ragazzi poco più (o poco meno) che ventenni, già quest’opera prima cova in sé i semi di un ensemble molto estroso, pronto a spingersi al di là degli usuali schemi del pop alla prima occasione utile: basti ascoltare l’andamento in 7/8 di “Panda” (secondo singolo estratto), o l’oscuro arrangiamento di viola che contribuisce a creare un’atmosfera da madrigale nella mybloodyvalentiniana “Snowflake” (il fiore all’occhiello del disco), oppure ancora i bizzarri accenti e gli svolazzi di tromba presenti su “Wheels Over Me”, inusitati se concepiti per una veloce canzone à-la Smiths come questa.
In definitiva, si parla di un buon debutto, ancora piuttosto lontano dai fasti che seguiranno, in cui però si riesce a fare buon viso a cattivo gioco, tradotto: si riesce a creare un efficace mood introverso giocando sulla bassa fedeltà, dettata più dalle scarse risorse economiche a disposizione, che non dalle reali inclinazioni artistiche.
La ruota comincia lentamente a girare, tant’è vero che nell’anno successivo i Mew partecipano al festival più importante della Danimarca (nonché uno dei più famosi in Europa), ovvero il Roskilde, sebbene siano ancora distanti dalle grandiose esibizioni che sapranno regalare nelle loro sei future partecipazioni.
Allo scoccare del Nuovo Millennio, la band rilascia il suo secondo album in studio, Half Of The World Is Watching Me, con lo stesso team produttivo del precedente. Si tratta di un disco molto sui generis, dal momento che la gran parte della sua scaletta è composta da canzoni che verranno poi re-interpretate per la “rinascita londinese” nel successivo Frengers. Le riproposizioni, come vedremo, saranno talmente migliorate dal punto di vista della qualità della produzione, delle dinamiche strumentali e della profondità di suono, da far sembrare questo sophomore poco più che un demotape, comunque ottimo, data l’eccellente qualità delle canzoni presenti.
Al fan più accanito è comunque consigliato dare un ascolto generale, anche solo per curiosità, e per constatare come lo spettro del progressive stesse iniziando ad aleggiare sul gruppo nella versione embrionale di “156”. Tra gli inediti, si segnala la bella melodia spensierata di “Mica”, terzo singolo estratto.
Assecondando le ambizioni sempre più grandi e legittime di un gruppo che ha compreso di avere un grosso potenziale artistico, ma anche commerciale, il 2001 si rivelerà anno di grandi cambiamenti: innanzitutto, entrerà stabilmente nella line-up live il tastierista Nick Watts, dagli inglesi Headswim, per arricchire il suono anche dal vivo, e, soprattutto, sarà firmato il primo, prestigioso, contratto internazionale, per la Epic Music Uk, sussidiaria della Sony.
Da qui in avanti le cose svolteranno definitivamente.
Don’t you just love goodbyes?
La frenetica attività che precede il “grande salto”: è probabilmente questo il momento preferito da ogni musicista che abbia avuto la fortuna di trovarsi in una band che presto o tardi questo salto lo abbia effettivamente compiuto. Sapere di avere il destino dalla propria parte, e assecondarlo: così si può spiegare la stagione 2002-2003 dei danesi, fatta di un tour in quella Scandinavia futura foriera di fedeli seguaci, a sostegno della band svedese Kent, e del rilascio di quattro singoli, che andranno a promuovere il terzo disco della band, pubblicato nel marzo del 2003: Frengers.
A scanso di equivoci, si sta parlando di un capolavoro, capace di cristallizzare parecchi umori presenti nel pop e nel rock più o meno alternativi a cavallo tra fine anni Novanta e inizio del nuovo Millennio, eppure costituendo di fatto un unicum splendente per originalità e innovazione. Un satellite in grado di fagocitare dream-pop, emocore, progressive, alt-rock, post-punk, eppure di rimanere implacabilmente nella stratosfera, incurante delle umane vicende. L’attinenza con la realtà musicale circostante, combinata con un’eguale estraneità alla stessa, costituisce una contraddizione che non si ripeterà più con questa forza nella carriera dei Mew.
Ma d’altronde tutta la musica dei Mew vive di enormi contraddizioni, impossibili da risolvere se non in coatta coabitazione: quale folle degenerato potrebbe pensare di stuprare una dolce ninnananna con un tiro funky chitarra-basso-batteria di una violenza tale da fare imbarazzare dei Red Hot Chili Peppers qualsiasi (o viceversa?), come succede in “Snow Brigade”? Se poi ci si mette a sviscerare quel che succede in “Am I Wry? No”, primo singolo e brano-cardine della poetica della band, si rischia di perdere il senno. Non mi credete? Già vi posso immaginare, attaccate il pezzo nel vostro stereo e non credete alle vostre orecchie: i più bei 55 secondi di intro strumentale della vostra vita o quasi, eh? Che arpeggi cristallini, questi sì che hanno imparato la lezione della scuola emo americana, quale romanticismo in queste chitarre! Sì, ma dove hanno messo gli accenti quei pazzi alla sezione ritmica? Non ci avete manco fatto caso, vero? D’altro canto, è partito a cantare Bjerre, e il suo falsetto vi ha già spezzato il cuore. Lo so, lo so, è successo anche a me. E mi è successo anche di rimanere talmente inghiottito in questo vortice da non accorgermi di tutta la miriade di sottigliezze strutturali e tecniche che impreziosiscono il brano, ma tanto i nostri paladini hanno già pensato anche al fatto che potessimo abituarci e, bontà loro, a tre quarti di canzone cambiano completamente le carte in tavola, con un oscuro e particolarmente sghembo (questa la successione di accordi: FA/DO#/FA#/SIB/RE#/SOL#/DO#/FA#) ostinato finale di chitarra acustica, piano ed impenetrabili versi (“A diamond ring/ But you can’t find it/ Cold is the night”). Un casino, insomma. Eppure la canzone ha il dono di stamparsi in testa già al primo ascolto, come il più molesto dei motivetti. E tutto questo, senza neanche il bisogno di un vero e proprio ritornello! Si parlava di contraddizioni, no?
Ad ogni modo, tutto il disco è pieno di trovate che farebbero la carriera di intere band: nell’altro singolone, “156”, strofe dal forte sapore crimsoniano accumulano la loro tensione in un bridge alternato tra 6/4 e 7/4, per sfociare nel ritornello power-pop più malinconico e sublime che possiate immaginare (come non commuoversi cantando i “Don’t you just love goodbyes?”). “She Came Home For Christmas” (secondo singolo estratto e presente già nel primo disco, sebbene in forma molto più grezza) e “Simmetry” sono due ballate sontuose, dominate dal pianoforte: mentre la prima, raccontando con la premurosità di una carezza la storia di un abbandono, sembra quasi anticipare, con ancora più grazia, i momenti più dolci degli Arcade Fire, la seconda è al tempo stesso trasognata e ieratica, forte di una melodia alla Genesis cantata a due voci da Bjerre con una ragazzina, e costituisce sicuramente uno dei momenti più intensi dell’intera opera.
In chiusura di un album molto scorrevole, perfetto alternarsi di pezzi veloci, lenti e di altri non ben incasellabili (“Behind The Drapes”), giunge il definitivo suggello consacratore, ovvero la sinfonica “Comforting Sounds”. Su di un canovaccio che per molti versi può ricordare il dream-pop orchestrale dei Mercury Rev di “Deserter’s Songs”, questa canzone extralarge riesce a esprimere sentimenti di disagio profondo e di desiderio di condivisione delle proprie sofferenze (“Into your house/ Why don’t we share our solitude?/ Nothing is pure anymore but solitude”), sino a raggiungere una catarsi di insostenibile purezza nei vocalizzi del chilometrico tema finale. Trattasi di un crescendo di Big Music di un’evocatività tale da insegnare ai Sigur Ros come si sarebbe dovuto fare il loro mestiere, senza risultare tediosi e pedanti.
Forte di una produzione ricca di dettagli e stratificazioni, finalmente all’altezza delle composizioni contenute, Frengers si pone come album tanto paradigmatico e per certi versi anticipatore dell’indie-rock del Terzo Millennio quanto a tutt’oggi criminalmente sottovalutato dalla critica internazionale. Volendo proprio azzardare un paragone, si potrebbe trovare qualche analogia con il capolavoro degli inglesi My Vitriol, “Finelines”, del 2001, sia per coordinate stilistiche (sebbene quest’ultimo disco suoni più “pesante” e shoegaze) e per capacità catalizzatrici degli umori dell’epoca, sia per la scarsa considerazione presso l’intellighenzia musicofila anglosassone. Completamente diverso sarà però l’esito per le rispettive carriere: mentre dagli sfortunati My Vitriol si attende ancora un seguito, per i Mew la parte più esaltante del percorso non è che appena cominciata.
Sono contorto? Sì! O “Come imparai ad amare il progressive e a smettere di preoccuparmi”
Nel 2003 esplode la proficua storia d’amore tra i Mew e la Danimarca: ai Danish Music Awards i quattro si esibiscono in una suggestiva “Snow Brigade”, con tanto di finta neve sparata dal vento sui loro visi, e sono tra i nomi di punta nel prestigioso Roskilde festival. Ha avvio anche la liaison con l’Indonesia, stupefacente terra di sodali fan negli anni a venire, e il loro nome inizia a comparire nelle riviste specializzate della Gran Bretagna.
Nel 2005 la band torna in Scandinavia, ma stavolta come spalla addirittura dei Rem (pare che sia stato lo stesso Stipe a richiederli con entusiasmo). Un vero e proprio trionfo. Ma non è certo il momento di dormire sugli allori, anzi, bisogna cavalcare l’onda: esce pertanto, nel settembre 2005, Mew And The Glass Handed Kites, l’album più amato dai fan della formazione danese.
“Non giudicare un libro dalla copertina”, recita l’adagio, e in controtendenza con i consigli di inizio monografia, mai come in questo caso è bene fidarsi: a dispetto della pacchiana matrioska dei loro volti che campeggia sulla sleeve del disco, Bjerre e soci si spingono ancora più in là di quanto non avessero fatto in Frengers, sia in termini di ambizione compositiva che di grandeur. Infatti, le quattordici canzoni che compongono il disco sono legate in un continuum sonoro di 54 minuti, capace di spaziare tra i cambi d’umore a questo punto già tipici della band, lambendone gli estremi con spiazzante versatilità, in più di un’occasione tramite pezzi di considerevole durata.
Per farla breve, le suggestioni progressive rock, già in serbo nel precedente lavoro, qui si fanno palesi, a sostegno di una tracklist dai toni mai così drammatici e cupi prima d’ora. Ma, siccome si sta pur sempre parlando dei Mew, alla produzione c’è Michael Beinhorn, già con Marilyn Manson, Korn, Prodigy, e mai come ora chitarra e basso hanno suonato così ruvidi, sporchi, a un passo dal grunge. L’ambizione è sempre molto alta, e cercare di far coesistere mondi così differenti tra loro costituisce, almeno a livello teorico, impresa molto ardua. Eppure, bisogna ammetterlo, all’interno dell’opera ci sono dei momenti che riescono addirittura a superare, per evocatività e finezza tecnica, i già meravigliosi fasti di Frengers: su tutti si staglia sin dai primi ascolti la tripletta di singoli “Apocalypso”-“Special”-“Zookeeper’s Boy”, non a caso piazzate in sequenza in mezzo alla scaletta, a evidenziarne il ruolo di cuore pulsante dell’album.
Nel primo di questi brani sale in cattedra il vero mattatore del disco, ovvero il chitarrista Bo Madsen. Il suo stile nervoso e frastagliato, ostinatamente in controtempo ritmico e praticamente mai davvero “solista”, nell’accezione comunemente intesa per questo termine, trova qui un fulgido esempio di efficacia: l’abrasivo riff iniziale è il motore da cui si sviluppa tutto il resto del brano, dettandone l’atmosfera contorta, ma solenne, come diviene poi evidente nel liberatorio ritornello da arena rock. “Special” è forse la canzone più conosciuta dell’intero repertorio dei danesi, ed è in effetti davvero difficile resistere alla presa di un motivo pop perfettamente congegnato, nonostante, di nuovo, ci si trovi di fronte a una deviazione continua dalle regole base del pop stesso (con un po’ di elasticità mentale, si può dire che qui dentro ci siano quattro ritornelli). In un certo senso, il decimo singolo della band è la canzone che i Radiohead post-“Kid A” non sono riusciti a scrivere: intricata, oscura, indie, perversamente immediata. L’ultimo tassello di questa trilogia, “Zookeeper’s Boy”, è il momento più alto dell’intera scaletta: come un meraviglioso affresco barocco, le armonizzazioni vocali dei ritornelli lasciano a bocca aperta, e sembrano mostrare la via agli M83 della futura “Skin Of The Night”, mentre la base strumentale pennella, con una maturità impressionante, i soliti, imprevedibili cambi ritmici e strutturali.
Altri due highlight di questo And The Glass Handed Kites sono le due ballatone finali: “White Lips Kissed”, dolente e romantica, è l’apice banksiano del disco, con quei sontuosi tappeti di mellotron, mentre “Louise Louisa” è, al contrario, molto americana, quasi alt-country, pur dilatandosi per oltre sette minuti di durata, raggiungendo lo zenit drammatico nelle implorazioni finali, rotte dall’emozione (“Stay with me/ Don’t want to be alone”).
Pur soffrendo di qualche lungaggine e alcune trovate superflue (su tutte le due collaborazioni con J Mascis dei Dinosaur Jr., la cui voce mal si sposa con le atmosfere sognanti create dal quartetto) che lo collocano complessivamente un gradino sotto al precedente Frengers, l’album è il magniloquente manifesto dei Mew di metà Millennio, l’unica “indie rock stadium band” al mondo, come loro stessi amano definirsi, e ne amplifica ulteriormente il successo, in patria e al di fuori: raggiunge la seconda posizione nelle chart della Danimarca, e si piazza al quarto posto sia in Norvegia che in Finlandia.
Ai Danish Music Award del 2006, poi, i nostri fanno incetta di premi e persino gli U2 si sperticano nelle lodi nei loro confronti. Un traguardo di tutto rispetto, per dei non anglofoni. Tutto sembra andare a gonfie vele, ma nell’aprile dello stesso anno, Johan Wolhert, lo storico bassista e figura fondamentale nel nucleo dei fondatori, lascia il gruppo, assecondando il personale desiderio di dedicarsi maggiormente alla cura del figlioletto nato da poco.
Ma quella che sembra essere una brutta tegola per un gruppo di grandi amici, prima ancora che compagni di lavoro, si tramuterà ben presto nella miglior benedizione possibile, se non per la band stessa, privata di una personalità di spirito, di sicuro per l’affezionatissimo pubblico.
In un altro mondo
Dopo aver raccolto i frutti di quanto seminato con And The Glass Handed Kites per tutto il 2006, il terzetto di superstiti compie la più classica delle “chiusure in studio per scrivere musica”, isolandosi dal resto del mondo a registrare, tra i mitici Electric Lady Studios di New York e Copenaghen, il quinto disco, quello della definitiva consacrazione.
A ben quattro anni di distanza dal predecessore, forti di un’attesa divenuta a questo punto davvero considerevole, i Mew licenziano, nell’agosto del 2009, il loro capolavoro assoluto, compimento di una stagione creativa straordinaria: No More Stories Are Told Today I'm Sorry They Washed Away // No More Stories The World Is Grey I'm Tired Let's Wash Away, che vede anche il ritorno in cabina di regia di Rich Costey, dopo la fortunata parentesi di Frengers.
Spesso dischi oppure opere d’arte in generale assurgono allo status di pietre angolari di un’intera disciplina anche per la loro rilevanza e la loro centralità nel contesto storico di riferimento, non (sol)tanto in termini di popolarità, ma soprattutto per la capacità degli stessi di farsi portatori dello spirito del proprio tempo, cogliendone gli umori e sublimandoli nella creazione artistica. Ecco, ciò che rende No More Stories… un disco eccelso è esattamente il contrario, ovvero la sua totale estraneità a qualsivoglia corrente estetica imperante nel suo tempo, già di suo parecchio instabile, considerano che si sta parlando di un anno crocevia per la musica pop come il 2009. Troppo tecnico per ascriversi al post-punk revival o alla nuova scuola synth-pop, non abbastanza epico come poteva essere il debutto dei White Lies, né tantomeno schizoide come il nu rave, distante come non mai anche dal rock alternativo americano, grazie a un cambio drastico nelle atmosfere, in questo caso molto più tenui e rarefatte, ad assecondare la vena sempre più intimista di Jonas Bjerre.
Lo spettro degli arrangiamenti viene poi notevolmente ampliato, grazie a un uso preponderante di tastiere e sintetizzatori, e all’integrazione nel comparto percussivo di drum machines, marimba, xilofoni… Non a caso, perso un bassista dal suono titanico come Wolhert, viene fuori con prepotenza ancora maggiore l’estro batteristico di Silaas “The Magic Car” (questo il soprannome affibbiatogli dai suoi compari, e a cui viene dedicata l’omonima canzone, bellissima carezza dagli efebici e mirabili intrecci vocali). Le chiacchiere stanno a zero: si sta probabilmente parlando del miglior batterista della sua generazione, e l’assurdo lavoro destabilizzante operato tra charleston e tom nella perfetta pop song “Beach”, i controtempi spaesanti della già stortissima “Introducing Palace Players”, capolavoro math-pop tra gli highlight dell’intera esperienza Mew, o l’andamento tra 4/4 e 5/4 dell’introduttiva “New Terrain” (soltanto uno degli innumerevoli casi di tempistica dispari qui presenti) sono qui per dimostrarlo.
Mai come in questo disco, tutto è al posto in cui dovrebbe essere; persino il lunghissimo titolo, ovvero il mantra cantato in quell’incanto fiabesco che è “Hawaii Dream”, si rivela indicatore perfetto di quella meravigliosa componente infantilistica, che sconfina nello stupore più magico, da sempre presente nei Mew, ma qui eretta a colonna portante di un lavoro ora gioioso, ora oscuro, ora commovente.
Non è un caso se la voce di Bjerre e la chitarra di Madsen, già tendenti a simili territori, compiono un’ulteriore avvicinamento alle poetiche di Jon Anderson e Steve Howe, rispettivamente voce e chitarra dei leggendari Yes, ovvero i rappresentanti più genuinamente mistici e ultraterreni dell’intero progressive rock. Si prenda come esempio di ciò l’epico singolo “Repeterbeater”, tutto chitarre scattanti e arditi salti vocali, se si pensa che questo paragone sia eccessivamente azzardato, per non parlare della mini-suite “Cartoons and Macramè Wounds”, che si dipana per sette minuti tra tempi dispari, elaborate sovrapposizioni vocali, e una sezione proto-ambient parente strettissima degli “I get up… I get down…” di “Close To The Edge”. Non si tragga, banalmente, da quella che è una chiara influenza una supposizione di sterile imitazione di una band pilastro del rock anni Settanta, in quanto per tutto l’album, e a maggior ragione nel manifesto d’estetica “Cartoons And Macramè Wounds”, il songwriting di stampo Mew si impone con la fermezza di chi ha raggiunto la totale fiducia nei propri mezzi, al punto tale da consentire alla band una versatilità stilistica ancora più spericolata che in passato: è così che alle onnipresenti fascinazioni prog e dream-pop si mescolano in un vorticoso calderone elementi synth pop (“Tricks Of The Trade”), darkwave (“Vaccine”) o etnici (“Hawaii”), sophisti pop (presenti nell’epica malinconia di “Sometimes Life Isn’t Easy”).
In questo album ci si trova anche a constatare la sublimazione degli eterni conflitti di cui la band si è sempre cibata nel creare la propria opera: No More Stories… è infatti disco fortemente pop, ma talmente intricato da richiedere moltissimi ascolti per poterne venire a capo, o di moltissime parole per poterlo descriverlo esaustivamente, senza però riuscire a coglierne pienamente l’essenza, così pura da essere incredibilmente semplice, proprio come la magia alla base delle migliori fiabe.
Come in tutte le migliori storie, è l’irrisolvibile fascino del mistero ciò che stimola la curiosità, e così sembra essere la natura di questo capolavoro del 2009: apparentemente accessibile, eppure imperscrutabile, come i solidi che si aggirano per i boschi nell’evocativo videoclip di “Introducing Palace Players”, e che mai rivelano la loro vera natura.
And I’d rather be a satellite
A coronamento di un exploit artistico di tale abbagliante bellezza e unicità, arrivano i più grossi riscontri mai ottenuti sinora, sia in termini nazionali che internazionali: No More Stories… schizza al primo posto nelle classifiche danesi, al secondo in quelle norvegesi e finlandesi, e compare molto spesso in recensioni per lo più ottime (e come potrebbe essere altrimenti?) su riviste e webzine musicali di tutta Europa e, finalmente, pure degli Stati Uniti. Anche il lungo tour promozionale saprà regalare molte soddisfazioni ai nostri: tra le altre esperienze, faranno da apertura a Nine Inch Nails e Pixies, e suoneranno per la prima volta in Messico e in Corea del Sud.
A questo punto inizia un periodo di pausa piuttosto lungo, caratterizzato dall’uscita dell’antologia Eggs Are Funny nel 2010 e dall’estinguersi degli obblighi contrattuali verso la Sony, sopraggiunto nel 2011. Si dovrà, tuttavia, attendere sino al 2013 affinché la band si distacchi completamente dalla prestigiosa casa discografica, per proseguire ancora più strenuamente la via dell’indipendenza artistica, dal momento che il disco successivo verrà distribuito e prodotto in completa autonomia.
È anche per questo motivo, nonché a causa dell’inaspettato ritorno del bassista Johan Wolhert in formazione, che bisognerà attendere ben sei anni, cioè fino al 27 aprile 2015, per ascoltare la nuova fatica discografica targata Mew, + -.
La suggestione matematica dal titolo sembra estendersi all’album stesso, dal momento che ci troviamo di fronte a un tentativo di quadratura della formula del gruppo: dieci tracce, un numero piuttosto canonico, e, più nella sostanza, una decisa virata strutturale, dall’imprevedibilità e interscambiabilità giovanili dei vari elementi di una canzone a un’adesione più rigida allo schema verse-chorus-middle eight, sono le caratteristiche che per prime saltano all’orecchio nell’ascolto di “Plus Minus”. Il che non costituisce, di per sé, un male, tant’è vero che una delle migliori prove qui dentro contenute è proprio una delle più convenzionali, cioè il plumbeo singolo “Water Slides”, una sorta di risposta Mew all’r’n’b romantico di The Weeknd.
Il problema è che il disco nel suo complesso tende a offrire sensazioni di stanchezza e di appannamento ispirativo, assolutamente inedite fino a questo punto della nostra storia, e che sembrano essere conseguenza, piuttosto che causa, della normalizzazione attuata. Anche le finezze tecniche vengono ridotte, probabilmente nella ricerca di un approdo di maturità definitivo, ma il prodotto finale è eccessivamente levigato, melenso e, a tratti, pure prevedibile. Tutto ciò può essere imputabile alla lunghissima gestazione di disco e a una lavorazione sullo stesso cervelloticamente protratta a tal punto da far perdere lucidità e vigore a materiale che, va precisato, del tutto pessimo non lo è affatto, anzi.
Basti considerare la bontà delle oniriche atmosfere create dalle avvolgenti nubi di tastiere (superbamente prodotte dagli stessi Mew con l’aiuto di Michael Beinhorn) in “Cross The River On Your Own” (la canzone che i Pink Floyd post-Waters avrebbero voluto essere anche solo lontanamente in grado di saper scrivere) o ancora di più nel riuscito esperimento funkeggiante di “Making Friends”, all’interno del quale scappa pure l’efficace autocitazione di “Introducing Palace Players”, nell’elettrica sincopata delle strofe.
Per il resto, purtroppo, una buona parte di tracce in scaletta soffre di melodie poco ficcanti e lungaggini eccessive (la metà delle canzoni supera i sei minuti di durata), ma ci sono almeno due perle presenti anche questa volta, quelle cioè in cui i Mew fanno davvero i Mew: una di queste è la dinamitarda “Witness”, tre minuti appena di durata e impetuosi incastri tra chitarre distorte, batteria al fulmicotone, imponente basso in sedicesimi e ritornelli da cantare a squarciagola, come non si udivano dai tempi di And The Glass Handed Kites. La seconda è la traccia d’apertura e primo singolo dell’album, che ben aveva fatto sperare noi estimatori, ovvero la maestosa “Satellites”. Qui si sta parlando davvero di un capolavoro, dell’ennesimo, ormai: l’ermetico testo, quasi un susseguirsi di immagini tratte da un ipotetico film di formazione (“I wanna breath in the sunlight beam/ I wanna be with a girl like she/ Swimming fast/ Hone in on the buzz in ways you could not/ know my own electricity”), accompagna la canzone con celestiali arpeggi di arpa, continui mini-assolo vagamente jazzati di Silas e alcune fra le più riuscite melodie vocali dell’intera carriera di Bjerre verso lo status di possibile canzone-simbolo dell’intera ars poetica della band, anche grazie al liberatorio desiderio di evasione totale espresso nei ritornelli (“And I’d rather be a satellite/ And I’m picking the phone”).
+ -, sebbene altalenante, consolida ulteriormente il successo già sin qui ottenuto dai Mew, che affrontano il conseguente tour promozionale a partire dal maggio 2015. Tutto sembra svolgersi per il meglio, se non fosse che nell’estate un fulmine a ciel sereno piomba sui sostenitori della band: attraverso uno striminzito comunicato stampa, si viene a sapere che Bo Madsen, lo storico e fondamentale chitarrista, non farà più parte dei Mew. Così, senza aggiungere altro. Nessuna informazione su difficoltà o impellenze familiari, divergenze artistiche, problemi di salute di sorta. Solo queste pochissime parole e la repentina sostituzione di Bo con un turnista. Non ci è dato, né è nostro interesse, in fin dei conti, sapere quale razza di screzi deve essersi raggiunta tra i componenti, quel che più preoccupa è però ipotizzare un futuro senza un elemento così importante nell’economia del gruppo. È vero che la natura introversa della band non ha mai reso particolarmente chiare le dinamiche creative all’interno della stessa, però riesce difficile credere che il contributo di Madsen alla scrittura dei pezzi non fosse quasi sullo stesso piano rispetto a quello di Jonas Bjerre, non fosse altro per i sempre preziosi arrangiamenti chitarristici messi in campo.
Quel che è certo è che i Mew non hanno al momento alcuna intenzione di sciogliersi e, chissà che, ridotti a terzetto, i nostri non sappiano di nuovo compattarsi come fecero ai tempi di No More Stories… e rimediare a un’ultima prova non sempre ispirata con il sigillo ultimo su una carriera folgorante, vissuta per almeno un decennio su livelli compositivi altissimi e, per quanto intrinsecamente non destinata a una diffusione capillare, data la complessità della proposta, in qualche modo pure foriera di un certo sentire progressive pop che sta diffondendosi da qualche anno a questa parte tra Giappone (dove la preparazione tecnica media dei gruppi pop rock attuali è elevatissima ed è forse l’ unico paese al mondo in cui il genere riesca ancora a smuovere le masse) e mondo anglosassone (Alt-j, Everything Everything in Inghilterra, i recentissimi Crying in America).
Tuttavia, fosse pure fisiologicamente spentasi la sacra fiamma dell’ispirazione per i danesi, non avremmo certo nulla di cui lamentarci: non basterebbe far altro che riascoltare le loro creazioni passate e sentirsi come i giovani protagonisti di molte serie animate giapponesi tra metà anni Novanta e nuovo Millennio. Vulnerabili, pieni di insicurezze, eppure, in qualche maniera, eroi, destinati a imprese straordinarie.
La band si ripresenta nel 2017 con un concept interamente basato sulle vicende di un uomo perso nella ciclicità del tempo, nella follia del vivere quotidiano, e alla continua ricerca di una serenità emotiva da raggiungere senza ricorre a eccessive manie di grandezza e sogni impossibili, dunque restando umilmente in contatto con se stesso, magari provando al contempo a dare un senso al triste e indecifrabile mondo che lo circonda. Il settimo lavoro della loro carriera si intitola Visuals, e per di più è anche il primo album senza lo storico chitarrista Bo Madsen.
Il tema imperante dell’opera appare limpido e chiaro fin dalle battute iniziali di “Nothingness and No Regrets”: “I don’t know what makes it grow/I know that seasons come and seasons go/Oh man, I don’t think I can/And you found it in your heart/And you don’t wanna see it pulled apart/Oh man, I don’t understand/In our polyester death/There is nothingness and no regrets/Oh I’m thinking of numbers/What’s your number?/What’s in a number?/Two numbers true”, con il consueto crescendo estatico collettivo a scaldare il cuore. Le tastiere di Søren Møller e il basso di Johan Wohlert giocano un ruolo fondamentale, conferendo all’insieme suggestione e fluidità.
Visuals è un album zeppo di contrasti cromatici, un‘opera luminosissima che mostra ancora una volta la capacità dei danesi nel riuscire a creare incastri armoniosi, e nel sapere fornire sempre e comunque un climax a suo modo unico, in cui tutto è dannatamente curato e allo stesso tempo mutevole. Il loro stile è ampiamente collaudato, e nel disco spunta finanche un sax da repertorio (“Twist Quest”), mentre differenti melodie tracciano sentieri sognanti con i favolosi Anni Ottanta vagamente nel mirino (“85 Videos”). Non mancano inoltre momenti di quietudine, e maggiore riflessione, con la notte a portar consiglio (“I'm sworn to secrecy/But I need the light/Or else I'd never come clean/Now that your hands are/You keep your head low/Quietly, it's you/Tonight, you look beautiful”).