Ogni tanto lo ammettono. Queste dannate band figlie dei Nineties, cresciute col mito dell'indie/alternative che distrugge ogni falsità e orpello, col feticcio dello "spirito punk" buono per giustificare qualsiasi livello di sconfinamento in estetiche barocche e immaginifiche che niente hanno a che fare col credo del "less is more" e del "do-it-yourself". Ogni tanto, forse quando la stanchezza di ore di concerto, tournée sfiancanti e interviste a catena inizia a farsi sentire, a qualche musicista la confessione scappa di bocca: ebbene sì, ascoltiamo anche progressive rock! Ci ispiriamo alle band sinfoniche, cerchiamo di riprenderne le idee e lo stile!
"Mentre ultimavamo 'Frengers', ascoltavamo 'The Lamb Lies Down On Broadway' tutte le notti. Per il disco successivo, avremmo cercato di muoverci in una direzione più progressive". Parole di Jonas Bjerre, frontman dei Mew, band danese tra le più originali e interessanti del panorama post-alternative mondiale.
Armata fin dagli esordi di ambizione e coraggio, la formazione si era distinta già nei primi album per la capacità di conciliare gli opposti: chitarre spinose e sferraglianti e levigatezza dream-pop, sperimentalismi e melodia, forme cervellotiche e immediatezza. Con "Frengers", il primo disco su major, la tavolozza si era arricchita di una calzante enfasi stadium rock grazie all'apporto del produttore Rich Costey (Muse, Mars Volta, Rage Against The Machine), ma è col quarto "And The Glass Handed Kites" che la formula della band ha raggiunto la piena maturità ed è diventata capace di sorprendere gli appassionati di tutto il pianeta con la sua inedita sintesi, per la quale qualche rivista specializzata scomoderà l'epiteto "alternative prog".
Cerebrali, roboanti, ambiziosi, tortuosi - talvolta elegiaci, spesso o sempre orecchiabili. Finora è chiarissimo che cos'abbiano i brani dei Mew in comune con quelli dell'epoca d'oro prog. Ma dove sta la diversità? Non si tratta del solito new prog, magari nelle forme rinnovate di Porcupine Tree, Archive, Landberk?
Basta l'incipit della prima traccia, "Circuity Of The Wolf", per cogliere la portata della differenza. Un clangore scomposto di chitarre in collisione reciproca, tre (o più) riproposizioni scoordinate dello stesso graffiante riff math-rock che si contendono gli stessi due miseri canali stereo. Il fracasso indistinto di batteria che, prendendo a prestito il magistrale trucchetto di Brian Eno in "Here Come The Warm Jets", si riorganizza in 4/4 e col basso dà struttura al caos. Altro che caramellosità neo-progressiva: quando finalmente pianoforte riverberato e cori di sfondo aprono allo slancio melodico di "Chinaberry Tree", l'ascoltatore è già bell'e frastornato dal poderoso assalto noise-rock.
È una scelta stilistica radicale, quella dei Mew, che non cerca di "aggiornare" la continuity psichedelia-prog-neoprog alle sonorità alternative, ma parte da queste ultime per avvicinarle allo spirito che animava le invenzioni di King Crimson, Yes, Genesis.
Potrebbe mai, una band neoprog, chiedere a un guru dell'indie-rock più intransigente come J Mascis dei Dinosaur Jr. di presenziare in un proprio brano? È ciò che - sfruttando una conoscenza nata per caso anni prima, aiutando il cantante semidisperso a Copenhagen senza bagagli a comprare dei vestiti - i Mew fanno in "Why Are You Looking Grave?". Su un gorgo chitarristico pressoché shoegaze, il pezzo alterna il timbro rauco di Mascis alle schiarite vocali di Jonas Bjerre: una costruzione "meteorologica" della composizione che si evolve poi in un gioco di crescendo e stop 'n' go dalle evidenti affinità col soft/loud di Godspeed You Black Emperor!, Mogwai, Explosions in the Sky e Sigur Rós.
Gli islandesi Sigur Rós e l'inconfondibile falsetto del loro leader Jónsi risultano uno dei due poli fondamentali anche per inquadrare la vocalità di Bjerre (l'altro - guarda un po' - è Jon Anderson degli Yes). Dotato di un'estensione tra le più ampie del rock (B2-G5, paragonabile a Jon Bon Jovi), Bjerre sceglie di non puntare su aggressività e potenza bensì su grazia e armoniosità, prediligendo soprattutto sulle note alte una resa flautata e cristallina. Come i Sigur Rós, i Mew esordiscono nel 1997: evitando di aprire tediose discussioni di uova e galline, può essere più significativo considerare questa coincidenza come prova del forte legame che intercorre tra Danimarca e Islanda anche musicalmente, oltre che storicamente ed economicamente.
Lo studiato contrasto tra ruvidezza e leggiadria è al cuore della ricetta dei Mew. Dunque è tutto qui? Il quadrittico "Fox Club"/"Apocalypto"/"Special"/"The Zookeper's Boy" svela al meglio l'altra faccia della novità stilistica rappresentata dai danesi. Si tratta dei quattro brani più connessi dell'album, quelli in cui maggiormente è percepibile l'influsso di "The Lamb". Le canzoni scorrono l'una nell'altra con giochi di accelerazioni, rallentamenti, ritmi e arrangiamenti che si sovrappongono o passano al minimo comune denominatore tra pezzi consecutivi. I Mew sono, al pari di Tool, Meshuggah e pochissime altre formazioni loro contemporanee, i maestri assoluti dell'incastro ritmico. Con una fondamentale differenza rispetto ai loro omologhi metallari: quello dei Mew è e vuole essere pop. Il riff di "Apocalypto" è un funambolico zig-zag che parte in 10/8 e richiede un paio di beat fuori battuta per innestarsi nell'esplosivo ritornello, ma il pezzo riesce a essere trascinante e melodico dall'inizio alla fine. "Lineare" non è certo l'espressione più adatta a descrivere una costruzione tanto spigolosamente tortuosa, ma l'effetto è davvero quello di un flusso naturale, alieno ma inevitabile, di temi e tempi. Come in un film di Nolan, la costruzione è iper-segmentata, eppure la narrazione possiede un'organicità che rende il mind-screw non solo ipnotico e avvincente, ma anche scorrevole, e apparentemente perfino necessario.
Dove sta il segreto dell'impareggiabile macchina ritmica della band? La successiva "Special" ne mette a nudo il motore. Che, di nuovo, è fatto di contrasti ben orchestrati. E porta i nomi di due dei componenti della band: il batterista e percussionista Silas Utke Graae Jørgensen e il chitarrista Bo Madsen. Dopo il secco ingresso terzinato, il primo orchestra per il brano un 4/4 che solo in prima impressione suona rettilineo - basta infatti giungere alla fine della quarta battuta cantata per reimbattersi nello stesso spiazzante filler terzinato che apriva il pezzo. Senza far perdere il tempo né aggiungere ottavi, il trucco determina un efficace disorientamento ritmico: si è trattato di un rallentamento o di un'accelerazione? La seconda strofa ripete il gioco della prima, ma il pre-chorus irrompe quando l'ascoltatore è ancora in buona misura privo di bussola. E porta lo smarrimento metrico a tutto un altro livello. Che razza di labirinto è il riff di Bo Madsen? È un torrente di scudisciate multi-ritmiche, proteiformi e imprendibili, e più che col plettro pare suonato con la carta vetrata. Annoto la costruzione solo per i più geek: 5/8 + 6/8 + 3/8 + 1/8. Somma: 15/8. La batteria, che batte ogni due (e ogni tanto per soprammercato ci infila il suo buon filler terzinato), arriva a fine riff sfasata di 1/8 rispetto all'inizio. E mica si può riprendere la strofa con naturalezza, sfalsati di mezzo beat! Ecco pronta dunque la seconda esposizione di riff, questa volta indietro di un ottavo rispetto alla batteria: con tutti gli accenti spostati, a conti fatti si tratta di un altro riff (ma vattene ad accorgere al primo ascolto: non ti sei ancora ripreso dai primi trucchetti della strofa...): 15+15=30. Chitarra e batteria tornano in pari, sposando due dei più magistrali espedienti ritmici della storia della musica leggera: il tempo "a somma pari" dei Pentangle in "Light Flight" e la reinvenzione della strofa attraverso lo slittamento del beat di batteria in "Just What I Needed" dei Cars.
Conviene invece rinunciare in partenza a tener traccia dei cambi di tempo che Madsen inanella nell'intro di "The Zookeeper's Boy": c'è più math in quei venti secondi di poliritmo ?-contro-quattro che nell'intera carriera dei Don Caballero. Vale la pena invece di soffermarsi sulla funzione architettonica che, qui e in altri brani, caratterizza la chitarra. Due i tratti fondamentali: il ruolo assieme ritmico e melodico dei suoi serpeggiamenti e il carattere al tempo stesso asciutto e "panoramico" del suo timbro. Se il primo aspetto si colloca in evidente continuità con le intuizioni di grandi del progressive come Robert Fripp, Steve Howe e Alex Lifeson - riprendendo in particolar modo da quest'ultimo l'uso delle corde vuote per conferire più spazialità al suono, il secondo deve molto al già citato Rich Costey, produttore del precedente album della band (così come del successivo "No More Stories..."). La magniloquenza del sound chitarristico nasce da uno stratagemma di studio già sperimentato con altre band: il segnale proveniente dall'effettistica dello strumento viene ripartito attraverso una splitter box su ben quattro amplificatori, la cui posizione nello spazio è stata calibrata rispetto al microfono attraverso rumor bianco in modo da non produrre phasing su di esso. All'atto pratico, è come se il suono di quattro chitarre all'unisono, proveniente da direzioni diverse, si fondesse esattamente nel punto in cui avviene la registrazione. Madsen, che farà tesoro della tecnica anche per "And The Glass Handed Kites" e tutti gli album a venire, può così mantenere un timbro secco - centellinando distorsioni e riverberi - senza rinunciare in alcun modo alla grandeur.
Restando in tema di protagonisti del suono, ci sono altri nomi il cui apporto è ben percepibile nell'alchimia del disco. Uno è senz'altro quello del produttore, Michael Beinhorn, già membro (con Bill Laswell) degli avant-jazzari newyorkesi Material, co-autore di "Future Shock" di Herbie Hancock e - soprattutto - architetto del suono per band-chiave della generazione alternative come Hole ("Celebrity Skin"), Soungarden ("Superunknown"), Marilyn Manson, Korn. L'idea dei Mew per "And The Glass Handed Kites" era sì quella di un album assai seventies nelle ambizioni, ma anche di un'opera dal clima cupo e contemporaneo. Il tocco di Beinhorn era quello che cercavano, e anche se pochissimo ci è mancato perché il disco fosse autoprodotto (l'"ok" di Beinhorn è arrivato, dopo mesi di silenzio, solo un giorno prima che la band entrasse in sala di registrazione!), il suo contributo si è rivelato essenziale non solo per il bilanciamento sonoro ma anche per la rifinitura compositiva dei pezzi. Difficile d'altronde che non fosse così: la registrazione del disco ha richiesto ben cinque mesi di permanenza nello studio personale di Beinhorn a Los Angeles! Di proprietà di Beinhorn sono anche molti dei synth d'annata che dominano sezioni importanti di composizioni come "A Dark Design", "Saviours Of Jazz Ballet", "An Envoy To The Open Fields": pezzi che pur non lesinando alcunché in fatto di peculiarità ritmiche (divertitevi a capirci qualcosa del metro di "An Envoy To The Open Fields"!) risultano più compassati e atmosferici dei precedenti, e introducono una seconda metà del disco più giocata su sfumature e lente transizioni all'interno dei singoli brani.
"An Envoy To The Open Fields" segna anche uno degli episodi in cui più risalta il basso di Johan Wohlert. Sorta di Mike Rutherford della formazione danese, il suo stile svetta in generale assai meno di quello degli altri componenti. Eppure le sue linee pulsanti, spesso l'unico elemento compositivamente limpido di brani tanto intricati, rappresentano un fulcro ritmico e melodico determinante per l'efficacia pop della band. "And The Glass Handed Kites" sarà però l'ultimo disco registrato da Wohlert come componente a pieno titolo: la scelta di mettere la famiglia davanti alla frenesia della vita da tour lo spingerà ad abbandonare i Mew prima della registrazione del successivo "No More Stories...", e sarà solo grazie all'insistenza di Beinhorn (produttore anche di "+/-", sesto album della band) che Wohlert tornerà a incidere coi compagni.
Da menzionare anche due altri collaboratori ricorrenti: Damon Tutunjian e Bo Rande. Il primo, chitarrista dei quasi-shoegazer bostoniani Swirlies, è stato produttore del primo Lp dei Mew, grande influenza sul loro stile degli esordi ed è qui responsabile della seconda chitarra in "Apocalypso". Il secondo, trombettista danese coinvolto come sessionman in numerosi progetti locali (su tutti il capolavoro della nuova coralità "Parades", a firma Efterklang), suona il flicorno in "Chinaberry Tree", "Why Are You Looking So Grave?" e la tromba nelle conclusive "White Lips Kissed" e "Louise Louisa".
Le ultime due tracce, accomunate dal tono sonnolento e dalla durata sopra ai sei minuti, forniscono dal punto di vista tematico un'occasione importante per riflettere sui testi del disco. Tre le caratteristiche salienti di "White Lips Kissed" da questo punto di vista: il riferimento ai sogni, la narrazione per situazioni sconnesse e l'accento sulle relazioni personali. L'io lirico supplica la persona amata di aiutarlo a "risvegliarsi" da un incubo, ed elenca i tratti disfunzionali del legame sentimentale, probabile causa dell'incubo stesso. Spiegherà l'autore e cantante Jonas Bjerre che i suoi testi, raramente autobiografici, hanno spesso in "And The Glass Handed Kites" preso spunto dal mondo onirico, e specialmente dalle sensazioni lasciate dai sogni al momento del risveglio. Il suo soffrire frequentemente (almeno al momento della realizzazione dell'album) di paralisi ipnagogica ha senz'altro contribuito al carattere inquieto e talvolta negativo delle atmosfere evocate.
Tutti e tre gli elementi citati ritornano in "Louise Louisa", che costituisce il brano più lungo del disco, grazie all'imponente e dinamica sezione strumentale centrale. L'aggancio ai sogni è qui più blando ("I had such a night...."), ma fin dal titolo è evidente l'accento posto sull'aspetto relazionale. Come molti altri pezzi nella produzione della band, la canzone cita esplicitamente un nome di persona - un espediente che per ammissione dello stesso Bjerre ha come scopo di rendere "concreti" personaggi che sono unicamente creazioni letterarie, o al più coacervati di caratteristiche di più conoscenti. Tenendo fede a un impegno preso a inizio carriera (abbandonato però in tempi recenti), Bjerre evita sistematicamente il ricorso alla parola "amore", e attraverso immagini indipendenti suggerisce la paura che il protagonista ha tanto della solitudine quanto del futuro e delle sue incertezze, e la sua dipendenza da "Louise" come ancora di solidità e garanzia di fiducia in ciò che verrà. Non è tuttavia questa l'unica possibile lettura del testo: qualche fan la vorrebbe riferita a un letale incidente automobilistico...
Come ha chiarito Bjerre in occasione di interviste, l'ambiguità interpretativa dei brani è un fattore se non ricercato, almeno ben visto dalla band, che in alcune occasioni ha direttamente rifiutato di fornire una chiave di lettura univoca di alcuni testi particolarmente criptici. D'altra parte, è sempre Bjerre ad affermare che spesso le parole delle sue canzoni non sono incentrate su un significato esplicito, ma proprio attraverso brandelli di immagini e situazioni cercano di trasporre emozioni e riflessioni che anche per l'autore si situano a livello subliminale.
Con "Louise Louisa" l'album è terminato, ma chi ne ascolterà la versione digitale da una delle tante piattaforme di streaming troverà al suo interno altri due pezzi: "Forever And Ever" e "Shiroi Kuchibiruno Izanai". Si tratta di bonus track incluse nell'edizione giapponese del disco, la seconda delle quali non è altro che una traduzione di "White Lips Kissed". L'attenzione al mercato nipponico non deve stupire: il panorama giapponese, oltre a essere amatissimo dalla band anche grazie ai retaggi otaku di alcuni membri, è da molto tempo assai recettivo alle proposte musicali di stampo progressive pop, e ha da qualche anno dato vita a progetti capaci di ottenere una discreta esposizione internazionale. Gesu No Kiwami Otome e Jyocho, i più nerboruti Lite e Ling Tosite Sigure o gli evocativi Jizue possiedono tutti un connubio di inventiva e ipercinetismo che, se non rimanda esplicitamente allo stile dei Mew, quantomeno si colloca facilmente in un territorio comune.
L'area geografica in cui è invece direttamente percepibile l'influenza dei Mew è, prevedibilmente, quella scandinava. Tra le formazioni che in maniera più evidente hanno ripreso le intuizioni della band, svettano in particolar modo i norvegesi 22, autori in "Flux" (2010) di un pop/metal alquanto tamarro ma senza alcun dubbio indebitato verso Meshuggah e Mew, i loro concittadini e più sobri Mirán. I migliori del lotto sono però di gran lunga i travolgenti Agent Fresco, islandesi, che nei loro due album hanno irrobustito ed espanso la formula della band avvicinandola tanto al post-rock atmosferico quanto al metallo propriamente detto.
Complessa, stratificata, multi-sfaccettata; ricca di rimandi ad altri stili; ambiziosa, cerebrale... Eppure, inguaribilmente pop. Questa è la musica dei Mew, che solo pochi mesi dopo l'uscita del successivo album "No More Stories..." il chitarrista Bo Madsen avrebbe descritto, quasi sdegnato, come "assolutamente non prog". Certo, come no. Non ci fossero la confessione del suo degno compare Jonas Bjerre e tutte le caratteristiche citate sopra, sarebbero più che sufficienti il titolo chilometrico della nuova fatica della band, nonché il suo funambolico singolo di lancio "Introducing Palace Players" (con tanto di video più progressivo che mai) a incriminare Madsen per falsa testimonianza.
11/08/2019