Norvegia, terra fredda e incontaminata, la cui vita è scandita da pause interminabili e inverni severi. Oltre a questi stereotipi, però, è più interessante citare i talenti emersi dalle sue lande sperdute: dai miti dream-pop Bel Canto ai guru elettro-pop Royksopp, fino a sensazioni di nicchia quali Flunk, White Birch e Alog. Non è ben chiaro quale sia il fattore che spinge tantissimi giovani norvegesi a intraprendere la carriera da musicisti, tuttavia è palese che l'ispirazione da quelle parti è decisamente sopra la media.
In questo calderone entra di diritto anche la bionda Susanne Aartun Sundfør (19 marzo 1986). Dotata di un canto cristallino, sposato a un brillante talento compositivo, che riversa in eleganti architetture digitali e ariosi arrangiamenti orchestrali, la musa nordica di Ten Love Songs ha all'attivo una carriera ormai consolidata, che l'ha vista piazzare tre album su cinque al numero 1 delle classifiche norvegesi, senza tuttavia riuscire ancora a sfondare fuori dai confini nazionali, malgrado il peana quasi unanime della critica internazionale. Eppure, alla sua forbita poliedricità di ricercatrice sonora si abbina un istintivo (buon) gusto pop, che si traduce in ritornelli accattivanti e rapinose aperture melodiche. Insomma, tutto ciò che alla più celebrata Bjork non riesce più da svariati anni a questa parte.
And you sing hallelujah
and you show me all the glory
("Resign")
Walls come tumbling downNipote del linguista Kjell Aartun, nata e cresciuta a Haugesund, in un idillio di mare e natura, la ragazza norvegese conduce un'infanzia e un'adolescenza tranquille. Fra lezioni di piano e di canto e i dischi del padre (le leggende synth-pop
a-ha e
Cat Stevens), la sua sensibilità si forma in un inconsapevole processo di maturazione sia umana che artistica.
Dopo aver frequentato una scuola superiore musicale, decide di provare a comporre per hobby. E finisce presto per scoprire di avere tra le mani un potenziale esplosivo. Fin dal primo colpo: la
piano-ballad "Walls" (2006), che proietta il suo faccino acerbo al n.3 della classifica norvegese dei singoli, con la complicità della lungimirante
label Your Favourite Music. Chi la conosce solo per le sue ultime prove, a forte matrice elettronica, resterà stupito al cospetto di quell'acerbo intrico di struggimenti acustici alla
Carole King. Eppure, a ben vedere, il fascino c'era già, e si poteva cogliere tutto.
A preparare la strada a quell'exploit erano state un paio di scorribande live: un tour di spalla al cantautore inglese Tom McRae e qualche
performance al fianco dei
Madrugada, con tanto di interpretazione in duetto della loro "Lift Me". Il successo di "Walls" era la tanto attesa risposta alle speranze. Eppure, per Susanne, sarebbero dovuti passare ancora degli anni prima di poter decidere di fare della musica il proprio mestiere di vita.
Non è neanche l'album d'esordio, il grimaldello definitivo. Anche se le classifiche, in patria, si confermano molto ricettive: pubblicato il 19 marzo 2007,
Susanne Sundfør resterà per 23 settimane nella top 40 degli album più venduti in Norvegia.
L'ombra più lunga è sempre quella della riccioluta Carole King, con il suo corredo di malinconie autunnali a mezzo pianoforte, ma non solo lontani i territori di
Regina Spektor (specie nelle armonie vocali) e della
Joni Mitchell più confidenziale. Il folk-pop acustico si conferma la cifra stilistica di una Sundfør ancora molto lontana dai barocchismi orchestrali che avrebbero connotato la sua seconda parte di carriera. Come se il suo talento fosse ancora troppo timido per lasciarsi andare ed esplodere completamente.
Niente elettronica, dunque, e pochi arrangiamenti d'archi ad accompagnare i suoi idilli piano-voce, supportati da una band e da qualche
backing vocal sullo sfondo. Oltre al recupero della fortunata "Walls", è soprattutto il nuovo singolo "I Resign", posto in apertura di scaletta, a trascinare il disco con il suo caldo impasto piano-voce attorno a una linea melodica sinuosa e a un testo giocato sul tema peccato/redenzione ("And you sing hallelujah/ and you show me all the glory/ You embrace our eternity/ then you tell me that I'm not a sinner"), che riportano alla mente la
Tori Amos degli esordi, quella che ingaggiava epiche dispute religiose avvinghiata al suo Bosendorfer.
La vocazione a un impianto orchestrale più avvolgente si può già scorgere tra le volute d'archi di "Dear John", dove la sua ugola riesce finalmente a spiegarsi in tutta la sua estensione, nell'incalzante
novelty folk-prog di "The Dance";, vicina al romanticismo
naif di
Kate Bush, e tra le spericolate acrobazie vocali di "Day Of The Titans", dove fa capolino anche qualche timido inserto elettronico. Ma a dominare è un tono più sommesso: elegante negli arpeggi fiabeschi di chitarra acustica in "Gravity" e nel tormentato giro di note al piano di "Moments", quasi classicheggiante nell'austera partitura di "Torn To Pieces" e nel breve commiato di "After You Left" (che contiene una traccia fantasma a seguito di vari minuti di silenzio: la versione strumentale di "The Dance").
Il vero acuto del disco è però il duetto con Odd Martin Skålnes sulle note di una struggente "Morocco".
Susanne Sundfør passa quasi inosservato nel resto d'Europa, ma in patria consolida la reputazione della sua ventunenne autrice, che viene anche insignita a fine anno con un prestigioso Spellemannprisen (il grammy norvegese) come Best Female Performance. Ancor più che per il premio, però, Susanne fa parlare di sé con il suo intervento sul palco, in cui solleva dubbi sull'opportunità del riconoscimento, sottolineando che il suo lavoro la rappresenta come artista
in primis - e solo secondariamente come donna - e sostenendo come sia ormai arcaico mantenere simili categorie.
La fanciulla norvegese, insomma, ha carattere. E non teme neanche di apparire presuntuosa dichiarando di non voler essere accostata a nomi ingombranti come
Kate Bush e
Bjork, con la quale avrà anche un'esperienza di lavoro come corista: "Non le ascolto praticamente mai, perché dovrei rifarmi a loro?", replicherà all'ennesima domanda sul tema.
Infilate nel curriculum una cover di
Bob Dylan ("Masters Of War") e una curiosa collaborazione in patria (il brano "Ingen Vinner Frem til Den Evige Ro", all'interno dell'album "Sorgen og Gleden" firmato dalla principessa Mette-Marit), la cantautrice di Haugesund dà alle stampe
Take One, raccolta live dei brani del debutto (ad eccezione di "Morocco") in versione più minimale, per piano e voce o chitarra acustica e voce. Il titolo allude alla modalità di realizzazione del disco, registrato in una sola sessione.
Solo dopo aver realizzato "The Brothel" ho capito che avrei dedicato alla musica tutta la mia vita, è stata la prima volta che ho sentito di aver davvero trovato un sound.
(Susanne Sundfør)
Romanzo di una prostituta
Dopo due prove un po' ovattate e in sordina, come l'esordio omonimo del 2007 e il live successivo, la nascita del terzo album
The Brothel segna nella carriera di Susanne un punto di svolta cruciale. Presa la decisione di fare della musica un mestiere di vita, arriva la possibilità di registrare il disco con il supporto di uno stuolo di professionisti, un profondo cambiamento rispetto al lavoro domestico delle due precedenti opere. Assoldato
Lars Horntveth (storico componente dei
Jaga Jazzist) in sede di produzione e composizione, l'album fiorisce dalle mani e dalla mente della Sundfør con un'intensità espressiva raggelante.
Paragonabile in questo senso all'esordio di
Soap&Skin di due anni prima,
The Brothel è un contenitore di emozioni esplosivo, non un'opera cantautorale in senso stretto, quanto piuttosto una raccolta di canzoni diverse l'una dall'altra, contraddistinte da una forte impronta caratteriale. La voce sale in cattedra: un'ugola capace di coprire cromature fra le più inusuali, che ricorda a tratti il lirismo incantato della sua conterranea Anja Øyen Vister, cantante dei già citati Flunk.
La musica svolta ormai decisamente dalle parti di una forma-canzone trasfigurata, soprattutto grazie all'uso dell'elettronica. Variando lo stile dallo schema della ballata pianistica ombrosa, fino all'electro-pop martellante, le dieci tracce - altrettanti capitoli di un
concept, di una narrazione lineare basata sulla vita di una prostituta - toccano vette di assoluta passionalità. Dove docili note di tastiera sono l'unico decoro alle linee vocali (gli splendori dream-pop della
title-track, oltre che la finale "Father Father" e "O Master") un'atmosfera rarefatta si impossessa della scena, miscelando perizia e trasporto istintivo con naturalezza.
L'alternanza di tonalità permette all'opera di non cedere mai il passo alla distrazione, proponendo staffilate metalliche industrial-pop ("Lilith"), orge
electro (il
beat prepotente di "It's All Gone Tomorrow", l'ariosità malsana di melodie traviate in "Lullaby" e "Turkish Delight") e nenie dark dalla deliziosa ambiguità (lo strumentale "As I Walked Out One Evening", i timpani tuonanti in "Knight Of Noir").
Elettronica e orchestra, gorgheggi fatati e dissonanze, strutture cantautorali e un'apparente caoticità dei controcanti si intrecciano in canzoni ariose e mai prevedibili. Affascinante e seducente musa nordica, la Sundfør di
The Brothel rompe ogni
cliché compositivo e mette insieme un disco sorprendente, del tutto estraneo a schemi e categorie. Lasciando da parte la misura, riversando tutta se stessa, anima compresa, in un terzo album che sarà difficile dimenticare.
In Norvegia è un trionfo: l'album conquista il n.1 in classifica e diventa il secondo
bestseller dell'anno, con 40.000 copie vendute. Un'infatuazione nazionale, insomma, suggellata dalle parole entusiastiche del critico Eirik Kydland di Dagbladet: "Tanti giovani artisti pop piangeranno ascoltando questo disco, tanto è bello e artisticamente distante molte leghe da loro".
Il dado è tratto. Susanne ora non è più una talentuosa improvvisatrice al piano, ma una cantautrice professionale: "Solo dopo aver realizzato 'The Brothel' ho capito che avrei dedicato alla musica tutta la mia vita, perché è stata la prima volta che ho sentito di aver davvero trovato un sound".
Forte dello straripante successo ottenuto in patria, Sundfør si concede un lusso sperimentale, pubblicando un album interamente strumentale, registrato con un team di tastieristi da lei appositamente selezionati, in occasione della venticinquesima edizione dell'Oslo Jazz Festival. Tra questi, anche il tastierista jazz Christian Wallumrød e alcuni membri dei Jaga Jazzist.
A Night At Salle Pleyel (2011) è di fatto un'unica suite strumentale divisa in sei movimenti ed eseguita con sintetizzatori Blofeld. Il titolo, a quanto sembra, fa riferimento a una notte alticcia di Susanne in quel di Parigi, presso la sala per concerti Salle Pleyel. Il canone è quello della musica colta contemporanea, in particolare quella elettroacustica, ma affiorano anche elementi nu jazz e ambient nonché riferimenti a Bach.
Tecnicamente si tratta di un altro live - la suite è stata suonata e incisa il 28 agosto 2011 al Sentrum Scene di Oslo - ma le reazioni del pubblico non sono state registrate, fornendo così al suono una resa da studio.
Raffinato anche l'
artwork del
designer norvegese Magnus Voll Mathiassen, che nel 2012 gli è valso il premio "Grafill Visuelt".
Tanti giovani artisti pop piangeranno ascoltando le sue canzoni, tanto sono belle e artisticamente distanti molte leghe da loro.
(Eirik Kydland, "Dagbladet")
Oltre il velo
L'inizio del decennio Dieci è ricco di collaborazioni per Susanne, che si improvvisa componente della band Hypertext nel 2010, si concede ai conterranei Real Ones per il singolo "Sister To All" e dona i suoi vocalizzi a Nils Petter Molvær per la sua "Baboon Moon" (dall'album omonimo del 2011). Ma a rilanciare le sue quotazioni oltre i confini nazionali è soprattutto la chiamata dei francesi
M83, che la invitano a prestare la sua voce nello splendido tema principale del film "Oblivion" di Joseph Kosinski, con Tom Cruise.
Reduce da un intenso 2011, che la vede impegnata anche in un vasto tour, Sundfør torna a un solo anno di distanza con
The Silicone Veil. Prezioso, ancora una volta, l'apporto del multi-strumentista Lars Horntveth dei Jaga Jazzist, che asseconda l'evoluzione verso universi sonori sempre più complessi. Rispetto al processore, si riducono le componenti jazz e acustica, mentre cresce quella elettronica. Ai suoni sintetici si aggiungono però quelli degli strumenti "classici" - archi, arpa, pianoforte e ottoni - per un mix di sofisticata eleganza.
Se
Brothel mostrava un'anima flebile con canzoni sussurrate in un mare di silenzio,
The Silicone Veil rappresenta un urlo liberatore, un volo iniziatico, un'opera che svela appieno tutte le potenzialità del cammino precoce di Susanne. Quello che non è cambiato è l'elemento principale della musica proposta: la voce. Fra le ugole più cristalline e policromatiche del panorama indipendente, capace di scorribande vertiginose e celestiali virtuosismi nel registro alto,
à-la Regina Spektor, la ragazza norvegese mette a frutto ciò che la natura le ha donato cucendosi addosso canzoni che valorizzano le sue corde vocali. Non si ha a che fare con un'esposizione fine a se stessa, né tantomeno con mielosi soliloqui vocali, bensì con una dimostrazione di piena maturazione compositiva.
Ispirata alle opere soliste di muse
dark d'altri tempi (basti ricordare
Diamanda Galas), Susanne attinge da varie fonti per un risultato di difficile decifrazione. Nonostante la sua voce non sia esattamente quella di una
dark lady, le atmosfere sono tutt'altro che salvifiche o solari, anzi, in tracce come "Rome", "White Foxes" o "When", il contrasto fra l'apparente malinconia delle melodie e l'esplosività colorata del cantato crea un forte disagio. L'efficacia di tale scelta - miscelare due registri emotivi all'interno delle canzoni - permette all'artista di interscambiare le partiture classiche a lei care, come nella splendida "Stop (Don't Push The Bottom)" o nello strumentale "Meditation In An Emergency", e l'uso dell'elettronica (le quasi
pop song "Among Us" e "Rome") in un connubio che in sole dieci tracce seduce senza vie di mezzo. Avendo così tante cartucce nel suo arsenale, infatti, la ragazza può permettersi di spaziare dal melodrammatico, con un piano-voce flebile e tagliente ("Can You Feel The Thunder"), al tono angelico, con l'accompagnamento di sola arpa e poco più (la
title track).
Il punto di arrivo è un delizioso ricamo armonico, algido e complesso allo stesso tempo, sempre pronto a imboccare la strada più difficile e a scartare la soluzione melodica più scontata. Come nei vortici dell'elfo islandese Bjork, il pop si libera da sovra-strutture canoniche per inseguire solo, all'apparenza, il flusso emotivo. Le vette celestiali di "The Silicone Veil", in bilico tra sperimentazione e classiche
piano ballad, nascondono un'anima scapestrata e scottante, come il cuore selvaggio delle terre ghiacciate da cui proviene. Un delicatissimo crescendo, un castello di carte che, dimenticando subito le note dell'arpa, arriva a sfiorare il sole, perdendosi tra le altezze siderali di un ottimo synth-pop. Contribuirà al suo successo anche il videoclip, piacevolmente disturbante, così come quello dell'altro singolo "Among Us", allucinazione psych-pop scandita dall'asse basso-synth e frondata da sprazzi di archi, con la voce di Susanne ossessivamente sovraincisa, a narrare le gesta di un serial killer ("He peeled off every vein I had / 'Til there was nothing left").
Momenti di luce pura sono l'impero elettronico di "White Foxes", costruito sul dialogo tra le linee di piano e le pulsazioni dei synth, con un
hook alla Dave Gahan ("You gave me my very first gun"), la serafica insonnia di "Rome", appena increspata dai synth e da mirati inserti d'archi, l'elettro-pop disturbato di "Your Prelude", dove scale di piano impazzite cercano di aprirsi un varco tra muraglie di synth, e l'iniziale "Diamonds", che parte
a cappella e deflagra in un vortice di
electronics, percussioni e sovraincisioni vocali, per poi stemperarsi nella soavità dell'arpa.
Anche i testi si fanno sempre più complessi, fin dal titolo - riferito al sottile confine che separa le persone, ma anche la vita e la morte. La stessa Sundfør ha sintetizzato le tematiche dell'album in quattro parole: apocalisse, morte, amore e neve. Le romanticherie spettrali delle liriche non smettono mai di sorprendere, attraverso un tunnel d'introspezione cosmica lungo 44 minuti, tra incubi claustrofobici e fantasie liberatorie. Come quella di "Can You Feel The Thunder", che inscena la fine di un matador ("I saw him fall/ to the white sand/ in Pamplona/ there was a matador... Kneel to the angels in high heels").
Sospeso tra le fiamme dell'inferno e le sconfinate lande del paradiso,
The Silicone Veil genera una potenza espressiva capace di sconvolgere gli equilibri emotivi, consacrando un'artista di levatura superiore. Anche in questo caso il successo commerciale nella terra natia non tarda ad arrivare: il disco raggiunge più volte il n.1 e resta per 47 settimane nella Top 40 degli album più venduti in Norvegia.
Il trionfale 2012 della Sundfør si conclude con un paio di altre collaborazioni di spicco - quella con i connazionali
Röyksopp ai quali presta la voce nel bel singolo "Running To The Sea" (di loro, invece, si proclamerà "una grande fan"), e quella insieme a Kleerup, con il quale firma il funky-synth-pop "
Let Me In" - oltre che con la prestigiosa passerella del concerto del Premio Nobel per la Pace. Un anno dopo, il suo intero catalogo viene ristampato in Gran Bretagna, conquistando positivi riscontri di critica.
Ho sempre scritto di getto. In 'Ten Love Songs', invece, per la prima volta ho dovuto razionalizzare il processo compositivo, come se stessi componendo un puzzle o svolgendo equazioni matematiche.
(Not) silly love songs
È così una grande attesa ad accompagnare l'uscita di
Ten Love Songs (2015), il nuovo capitolo discografico, annunciato all'insegna di un forte
appeal pop e quindi con tutte le carte in regola per il definitivo sbarco sul mercato mondiale, incluso un uso sapiente dell'elettronica, divenuta ormai componente integrante dello splendore del suo
sound. Senza dimenticare le radici di scrittrice (folk)pop, è proprio su questo solco che Susanne ha voluto puntare, proponendo una cascata di synth, al punto di sfiorare in certi frangenti perfino l'euro-pop di
Lady Gaga (la sgraziata pomposità di "Kamikaze").
L'obiettivo è dunque quello di ricavare forza e impatto dall'uso massiccio di strumenti non acustici, cercando di non snaturare l'essenza celestiale e leggiadra della sua musica, ricalcando in parte spunti già battuti da artisti come
The Knife o
Annie. Ovviamente in tutto ciò si stagliano le straordinarie capacità vocali di Susanne, la quale riesce a mescolare registri interpretativi come solo le grandissime sanno fare, adattandosi in modo perfetto alle vesti di
chanteuse electro-pop solenne.
Un disco che ha richiesto anche un cambiamento nel processo compositivo. Come la stessa Susanne ha raccontato in un'intervista, infatti, mentre in precedenza si limitava a riversare senza freni idee sul pentagramma, in questo caso, per la prima volta, ha dovuto razionalizzare il processo come se stesse componendo un puzzle o svolgendo equazioni matematiche. Sebbene in alcuni passaggi si abbia l'impressione di un certo sfilacciamento, non mancano alcuni elementi a tentare di raccordare il tutto, a cominciare da un onnipresente organo e da riusciti trucchi sonori, come quello di far sì che
intro e
outro di ogni brano si leghino tra loro (per somiglianza o per contrasto) con ciò che le circonda.
Prendendo i singoli episodi, pare che la formula funzioni alla grande, a cominciare dai pezzi più d'impatto, come il primo singolo "Fade Away", griffato da una ritmica martellante e da un assolo di tastiera, e l'iper-orchestrata dance di "Delirious", annegata in un vortice di dissonanze (elettronica, archi), sovraincisioni e controcanti, ma con un ritornello decisamente orecchiabile.
Si passa da ballate scheletriche, eppure commoventi, come "Darlings" e "Silencer" - sorrette da un piano o poco altro - all'assalto pop di "Kamikaze", chiuso però con un clavicembalo, come a non voler recidere quel debito con la classica saldato anche dall'assolo di organo in pieno climax elettronico di "Accelerate" (con qualche rimando alla "Toccata e Fuga in Re minore" di Bach), fino a giungere ai dieci minuti sinfonici di "Memorial", con una prima fase per organo, synth, acustica e archi che prepara il terreno alla tenerezza del ritornello, prima che l'orchestra torni a esplodere.
Questi saliscendi emotivi danno sì brio all'album, ma non regalano la sensazione di compattezza che possedevano i due predecessori, conducendo l'ascoltatore verso un ottovolante di suoni piacevole ma a volte un po' disomogeneo. Proseguendo, si incontrano i pregevoli incastri
electro-pop di "Insects" - una marcetta robotica trascinante - passando per la dolcezza dell'organo di "Trust Me" e la solennità trasognata di "Slowly", prodotta insieme ai Röyksopp per una versione aggiornata del miglior synth-pop di marca scandinava.
Nonostante la varietà di spunti e la ricchezza degli ingredienti, non c'è niente fuori posto in
Ten Love Songs, anzi, l'album risplende di una lucentezza sonora, di un gusto melodico sempre lineare e mai ridondante. Un disco che può ugualmente catturare gli appassionati di musica elettronica come gli habitué del pop mainstream. Una decina di canzoni universali, mai banali o di cattivo gusto, nelle quali sarà facile scorgere le potenzialità sconfinate del talento della Sundfør anche a chi la sta ascoltando per la prima volta.
A distanza di soli due anni, la cantautrice norvegese Susanne Sundfor, forte anche di un'accresciuta popolarità al di fuori del proprio paese, torna con
Music For People in Trouble ed è fin dalle prime note una riscoperta delle origini. Se il suo precedessore sorprende tutti con una decisa virata synth-pop, la sua attuale attenzione è spostata verso l'essenzialità e il minimalismo.
La chiave di lettura di questo album, indipendentemente dallo strumento-cardine di una canzone, sia esso uno scarno
pattern di chitarra (“Reincarnation”) o un piano suonato in punta di piedi (la bella e intensa “Good Luck Bad Luck”), è l'acredine derivante dal contrasto fra il solenne e lo scheletrico. Già un pezzo come “The Sound Of War” mette in note questi concetti, dove se da una parte l'impianto strumentale è quanto di più essenziale si possa trovare, dall'altra abbiamo la voce chiara, limpida e leggiadra che in certi frangenti ha dentro di sé qualcosa di forte e imponente, donando al pezzo un qualcosa di inspiegabilmente stentoreo grazie anche alla coda dal sapore dark-ambient.
Nonostante la bella sensazione rilasciata da queste atmosfere l'album, visibilmente un'opera ambiziosa, risulta monco e poco sviluppato, quasi abortito anche grazie ad una durata troppo affrettata. Ed è dunque sugli episodi che la qualità generale si alza tantissimo, dove se le tracce già citate svettano sul resto, la fantastica “Undercover” ha ovviamente il predominio, mentre pezzi come “Bedtime Story” e “No One Believes In Love Anymore” gli stanno leggermente indietro in termini di efficacia e bellezza.
Come già sottolineato per il predecessore, la Sundfør pare aver perso una coerenza di fondo che le potrebbe permettere di rilasciare un album con il quale davvero spaccare il mercato in due, infatti se gli episodi anche qui promuovono quasi del tutto il disco, il complesso è sfilacciato e senza un tema sonoro che lo contraddistingua. Non per questo però possiamo ignorare la bellezza del vocal-pop “The Golden Age” tutto svolazzi di synth e vocalizzi o la chiusura momentale di “Mountaineers” con la collaborazione di
John Grant. Siamo dunque di fronte ad un'opera che recupera in parte le origini della musicista nativa di Haugesund, spingendo molto sulla commistione fra un vocal-pop sussurrato e certe trame folk sperimentate con i primi due album, mettendo quasi inspiegabilmente da parte i synth tanto ben accolti di pezzi come “
Delirious”.
Si sorride dunque a metà ed è davvero un peccato perché le potenzialità di questa ragazza sono sconfinate quanto la bellezza della sua voce, qualsiasi sia il registro vocale con cui si misuri.
Dopo aver pubblicato nel 2019 un live che ripercorre le gesta del suo ultimo album, nel 2023 Susanne si ripresenta al pubblico con un nuovo lavoro intitolato
blómi, un antico idioma norvegese che significa letteralmente sbocciare. La talentuosa artista norvegese, nei sei anni che l'hanno separata dal suo ultimo lavoro in studio, ha vissuto la grande gioia di diventare mamma, un fatto che l'ha profondamente catturata e coinvolta, tanto da innescare la voglia di analizzare, anche a livello storico, tale condizione, che proprio nella tradizione proveniente dalla sua terra trova alcune sfaccettature particolari.
L’approccio stilistico ricalca essenzialmente il canovaccio già gustato nel precedente
Music For People In Trouble, prevedendo alcune piccole variazioni sul tema che si lasciano gradire con piacere.
La sua voce cristallina, esemplare in ogni aspetto, modulata e rigorosa nelle scale più basse, limpida e imponente nei valori più acuti, volteggia nei dieci brani in scaletta come una vivace farfalla, tra suoni candidi eretti prettamente su pianoforte e chitarra classica.
In questo, la
title track è l’esempio della raffinatezza che marca ogni cellula del Lp; note di pianoforte e svolazzi di sassofono riempiono l’atmosfera su un testo che l’artista dedica a sua figlia, quasi una lettera d’istruzioni che una mamma dona alla propria bambina, d’avviso sugli ostacoli del presente, ma rassicurante su ciò che proporrà il futuro.
Il sistema matrilineare è un fondamento che sostiene l’intero lavoro di scrittura annunciato dalla Sundfør, un processo di antropologia sociale da sempre ben radicato nella storica cultura norvegese.
Episodi come “rūnā”, con intense e possenti parti corali utilizzate per corroborare considerazioni sulla rinascita dopo fasi di rovinoso dolore, il soul-jazz di “fare thee well”, il dolce misticismo di “alyosha”, con videoclip che riprende alcune scene dal suo matrimonio, e le oniriche tessiture di “nāttsǫngr”, si sciolgono con dolcezza e purezza sconfinate, laddove la citata vocalità di Susanne afferra le redini della situazione con insuperabile maestria.
I titoli dei brani in scaletta sono tutti formulati in un’antica lingua norvegese, ma ciò non spaventi, perché i testi sono sviluppati nella più accessibile lingua inglese, ad eccezione di “sānnu yārru lī”, recitata in tedesco su tematiche che richiamano i sentimenti più sinceri legandoli ad alcune dinamiche che caratterizzano la coltivazione della terra. È un brano significativo, che si distanzia diametralmente da quasi tutti i restanti, per un particolare utilizzo delle percussioni e degli inserti elettronici a corredo, con flauti che spezzano progressivamente lo svolgimento, regalando un accattivante e visionario guado sul percorso. Ma non è il solo.
Anche i due brani che aprono e chiudono il disco, “orð vǫlu” e “orð hjartans”, come accennato in precedenza entrambi interpretati da Eline Vistven - musicista e soprattutto rinomata terapeuta – segnano una linea di demarcazione evidente con il resto della track list, con oscure trame elettroniche di fondo che soprattutto nell’episodio conclusivo, tra bordoni e sinistri intrecci elettronici, si allontanano in modo netto da tutta la ribalta restante. Se vogliamo anche “Ashera’s Song”, che riprende gli ancestrali temi materni richiamati pocanzi, conserva nelle sue infingarde sonorità quell’alone tenebroso, ove la sontuosa voce di Susanne non fa altro che acuire le sensazioni di seducente e latente disagio.
In attesa dei nuovi capitoli del suo romanzo musicale, Susanne Sundfør può legittimamente aspirare a un posto nel gotha del cantautorato pop internazionale. Considerate la qualità della sua musica e le sue emozionanti esibizioni live nel Nord Europa, ma anche la mole impressionante di recensioni positive ottenute fuori dai confini nazionali (Italia compresa), appare solo una questione di tempo la fine dell'innaturale autarchia toccata in sorte alla sua produzione.
Contributi di Rossella De Falco, Cristiano Orlando ("blómi")