Se un semplice ossimoro bastasse a decifrare la musica, allora il quinto disco della cantautrice norvegese Susanne Sundfør sarebbe un cristallo bollente.
La glaciale atmosfera di "The Silicon Veil", mista a violini e rintocchi d'arpa, in bilico tra sperimentazione e classiche piano ballad pop, nasconde infatti un'anima scapestrata e scottante, come il cuore selvaggio delle terre ghiacciate da cui proviene. Che l'arido terreno dei paesi più freddi del pianeta sia particolarmente fertile, quando si parli di arte sonora, non è certo una novità: ce lo ricordano i Röyksopp e i Flunk, conterranei della Sundfør, o gli islandesi Bjork, Sigur Ròs, Mùm e via dicendo. Tra nomi così altisonanti, però, questa giovane cantante avanza tutt'altro che timidamente. A due anni dall'ottimo "The Brothel" e a uno dal lavoro orchestrale "A Night At Salle Pleyel", dopo i primi due dischi iniziali, un po' ovattati e in sordina, "The Silicon Veil" è la lampante conferma della maturità artistica della Sunførd, che meriterebbe un più ampio riconoscimento internazionale, posizionandosi non solo tra gli universi più interessanti del pop norvegese, ma dell'alt-pop contemporaneo in generale. In questo fulgido risultato è a dir poco fondamentale l'apporto del multi-strumentista Lars Horntveth dei Jaga Jazzist, fedele compagno artistico della Sundfør già nel suo album rivelazione del 2010.
Le romanticherie spettrali delle liriche, le scorribande vertiginose di un'ugola che si presta a celestiali virtuosismi nel registro alto, à-la Regina Spektor, non smettono mai di sorprendere attraverso un tunnel d'introspezione cosmica lungo quarantaquattro minuti, tra incubi claustrofobici e fantasie liberatorie. Il punto di arrivo è un delizioso ricamo armonico, algido e complesso allo stesso tempo, sempre pronto a imboccare la strada più difficile e a scartare la soluzione melodica più scontata. Come nei vortici dell'elfo islandese Bjork, il pop si libera da sovra-strutture canoniche per inseguire solo, all'apparenza, il flusso emotivo. In bilico tra le influenze delle frontgirl dei già citati Röyksopp e Flunk, e i riferimenti, meno immediati, a personalità del calibro di Cat Stevens e David Sylvian, l'identità della Sundfør si delinea tuttavia marcatamente. Il cantato parla infatti di morte, di solitudine, di esistenzialismo: eppure, lo fa con il piglio esuberante e conturbante di un disadattato sociale consapevole e fiero della sua condizione di emarginazione.
Momenti di luce pura sono l'impero elettronico di "White Foxes", l'inno alla voce umana di "Diamonds" e la serafica insonnia di "Rome". Un discorso a parte merita invece la title track: "The Silicon Veil", il cui video è piacevolmente disturbante, è un delicatissimo crescendo, un castello di carte che, dimenticando subito le accennate note dell'arpa, arriva a sfiorare il sole, perdendosi tra le altezze siderali di un ottimo synth-pop. Da ascoltare.
28/12/2012