Londra, 1998: nei negozietti di culto trovare i dischi dei God Machine risultava impossibile; due anni dopo e qualche vinile di Nick Drake più tardi, mi sono rassegnato all'idea che anche solo un cd di questa band sembra introvabile. 2008: dieci anni dopo, ancora nessuna ristampa. Eppure ormai la critica mondiale ha riconosciuto il valore dell'opera di questo trio, ma le sorti del gruppo consegnate al mito restano invariate dal lontano 1994, anno di morte del bassista. Gli album sono roba da collezionisti e viene spontaneo domandarsi come mai la Universal non sembri ancora intenzionata a ristamparli. Ma cominciamo dalla storia.
Finito il liceo a San Diego, Robin Proper-Sheppard, Jimmy Fernandez, Albert Amman e Ron Austin formano i Society Line. Registrano un demo di sei tracce, atmosferico e metallico, iniziando a suonare live. Robin si trasferisce a New York; lo seguiranno tutti tranne Amman. Il trio cambia nome e si sposta a Manchester, poi negli squat a Londra, quindi ad Amsterdam e infine nella capitale inglese: nascono, dunque, i God Machine che già dagli esordi on the road si presentano come un'esperienza esistenziale totalizzante.
Inizia il tour nel '91 a Camden; un Ep per Eve, una firma con la mitica Fiction, altri due Ep e due album capolavoro.
Il sound enfatico investe sin dai primi singoli: l'apripista è "Home", un coro mistico-religioso (campione di "Le Mystère des voix bulgares", curiosamente utilizzato dai Neurosis nello stesso anno), un riff pesante come metallo hard, una batteria riverberata dall'Ade, un'ipnoticità paragonabile ai Kyuss (di stoner all'epoca non si parlava ancora, ma di Black Sabbath e Led Zeppelin sì). Strati e substrati di chitarre noise, sature come negli Helmet, effetti futuristici che sanno di arcano, e di nuovo il coro ci introduce nella "Terra Promessa". Stiamo contemplando l'imponente, severa "cattedrale di suoni" dei God Machine, ovvero un'apocalisse, teatro d'incontro tra post-punk e prog, doom e stoner, oscuri deserti post-grunge psichedelici e il dark più visionario.
Tutti i pezzi degli Ep verranno riproposti sul disco d'esordio. Nell'elitaria aristocrazia britannica Robin trova il suo habitat naturale e come un Byron maledetto, fugge le sue disgrazie in Europa e scrive poesie disperate. Un sound che è un crossover maestoso e ispirato, originale e innovativo. In bilico tra la rilettura grunge dei 70 e il post-rock nascente, con alle spalle il romanticismo dark anni 80.
Epico e apocalittico, maestosamente enfatico, Scenes From The Second Storey è il primo album capolavoro della band. "Desert Song" è la prova che questa musica è ipnotica e disperata; austera, mistica e rituale, sacra e violenta: "Let God Save God" è l'esortazione ripetuta all'infinito. La psichedelia dei Pink Floyd, il grunge e gli 80 di Ian Curtis. I Kyuss con certo alt- rock e cantautorato folk. In "Prostitute", Robin propende per inni corali e slogan alla Roger Waters e ruba un riff agli Who di "Tommy".
"Commitment" conferma il sound: potenza noise-crossover Rage Against The Machine, liricismo romantic. Per certi versi simili a ciò che diverranno i Deftones e che verrà accantonato fra il nu-metal. "Pictures Of A Bleeding Boy": due accordi acustici sussurrati come avrebbero fatto i Cure; ancora Robert Smith e il dark-punk echeggiano in "It's All Over". Proper-Sheppard sa scrivere grandi canzoni e nei testi tocca la poesia. Fondamentalmente Korn e Tool offriranno, poco dopo, una simile ricetta musicale, con esiti differenti.
"Dream Machine" usa voci distorte alla radio e un drumming pneumatico su una lugubre melodia di imperativi. "Osserva ciò che vedi, ma non dire che lo vedi". "She Said" è l'altro pezzo ultra-grunge post-hardcore: devastanti chitarre e silenzi si alternano in cadenze più o meno veloci per regalare tensione lirica e un cantato che glorifica l'impalcatura con profonda sensibilità.
Poi "Desert Song", "Home", "Temptation", uno strumentale stoner da danza macabra, "Out" e "Ego" sfoggiano un'enfasi schiacciante, "Seven", che come in altri dei momenti intimisti della band, ci propone due accordi dark, basso portante, chitarre sature come quelle che imperverseranno nei futuri Mogwai, e un cantato onirico-psichedelico. I cambi si susseguono in una composita architettura di tensione nervosa: Robin adora ripetere frasi all'infinito, inventare accenti ammalianti e sottolineare parole con effetti ipnotici che in questo caso si perdono nel jazz improvvisato di un sax.
"Purity", gloriosa e memorabile, con arpeggi di classica e violoncello, si appresta a fronteggiare una furiosa cavalcata dissonante e il "loop" vocale di Sheppard. "The Piano Song", lo dice il titolo, ci conduce a dormire con un atmosferico dark-punk strumentale. A dormire, perché è l'unico momento in cui, probabilmente, si presta la dovuta attenzione ai God Machine, a occhi chiusi e predisposti alle più impercettibili variazioni sonore; questi dischi sono la prova di quanto la musica possa rapire; come fa notare Scaruffi, "gli album dei God Machine sono spesso difficili da ascoltare e ad essi si addicono bene le istruzioni per l'uso coniate dai Kyuss di 'Welcome To Sky Valley': Ascoltate senza distrarvi".
Dopo il "successo" di "Scenes..." arriva l'Ep Home con diverse b-side. Inedite "What Time Is Love" di KLF, furia metallica circolare sotto forma di gloriosa cavalcata; "All My Colours" di Echo & The Bunnymen e "Fever" di Peggy Lee, un bel po' Badalamenti; poi, "Rain" dei Morlochs e infine "Double Dare" dei Bauhaus: minimalismo, due note di basso e una batteria martellante e cadenzata, la voce bassa indistinta dal magma sonico di chitarre noise; già nel finale marziale è evidente il sinfonismo tipico della band. Il dark è accostamento imprescindibile per gran parte della musica dei God Machine, che respira gli anni 80, anche di quell'aria Talk Talk spaziale, rarefatta eppure densa: per forza Robin (non fosse altro che per il nome) "doveva" andare a Londra. Il gruppo suona con gente del calibro di Nick Cave, Quicksand, Cop Shoot Cop e Living Colour, quindi si trasferisce a Praga e registra una parte del secondo album terminato in Inghilterra.
"Un'ultima risata in un posto di morte" apre il massacro con "Tremelo Song", maestosa e tagliente, e con la successiva "Mama" si riallaccia al primo lavoro ridefinendo quell'imponente muro di suono (molto Zeppelin) apparentemente scarno, ma saturo di distorsioni e contrappunti di feedback, subliminalmente in continuo mutamento come la migliore psichedelia.
One Last Laugh In A Place Of Dying da un lato smussa gli angoli e alleggerisce le cacofonie, dall'altro focalizza uno stile e rilascia al galoppo una vena cantautoriale profonda, dimostrando di aver accumulato abbastanza maturità e ispirazione da regalare un'opera di desolata bellezza, che rapisce e disarma; qui l'intimismo prende il sopravvento, si alternano pacate e solitarie riflessioni a violenti squarci di minacciosa rabbia repressa. Diminuisce la pesantezza formale per librare musica e parole nell'aere e schierarsi in un romantico luogo di non culto; un involontario epitaffio, un concept-album su morte e solitudine. Ironia del caso, finita la registrazione, Fernandez fulminato da un tumore non vedrà la pubblicazione e incarnerà quell'inquietante, incolmabile senso di vuoto profeticamente cantato nei versi del disco, fatalisticamente intriso di malinconica sofferenza.
La sintesi God Machine è nella seconda traccia "Alone": un basso che pompa alla ricerca della catarsi e una distorsione di chitarre a fornire il contrappunto ipnotico-melodico. La batteria schiacciante ma impalpabile sotto nuvole di piatti; impercettibili crescendo, i cambi compongono i pezzi come delle suite: Robin "siede in compagnia dei Re" sperando "di sapere cosa sono i desideri", vede una ragazza fuori che lo ammonisce "non capirai mai, quindi non ci provare" e inveisce rabbioso "So don't, don't, don't even try!".
Calma subito dopo in vista di "In Bad Dreams": un sobrio tormentone autunnale con intenso violoncello. Un acido dialogo hard di chitarre, stratificate e alienanti, apre i vortici ronzanti di "Painless": "Beh, io apro la bocca ma non sento suoni, e tu dicevi che la vita può esistere senza dolore, mi dispiace, ma non è ciò che ho scoperto". "The Love Song" è minimal Albini (più raffinato) con schizofreniche impennate (math-rock?), ritmica singhiozzante e voce metallica "Misuro i miei passi con cura, quando c'è del ghiaccio sulla strada, eppure sembra ancora così lontano...". "The Life Song" apre in preghiera, si fa minacciosa, e chiude: "E che cosa vedi, amore mio; cosa vedi quando guardi dentro, amore mio, amore mio..." La perfetta simbiosi fra testi e musica, creatività e produzione trova in questo album la sua alcova; accade nella marcia funebre di "Life Song" come nel pezzo successivo, la ballata post-rock "The Devil Song": "Stay away from me" ripetuto trenta volte; ogni volta che cambiano le parole, cambiano le note, in crescendo e diminuendo, pieni e vuoti senza sosta che trascinano fino al volontario caos finale, che implode tra noise e voci radio-disturbate, compresso e freddamente logico, ma debordante e trasudante un'ispirazione che raggiunge vette superbe.
Ed è simbiosi catartica anche dopo: il gusto neoclassico forgia il folk futurista e cinematico di "The Hunter", che si risolve in cori celestiali e archi elfici. Dopo una raffica del genere, l'intermezzo strumentale "Evol" sembra Shellac che si riscalda con solo un feedback di chitarra. Ma ancora ballate post in "The Train Song", che tesse acide armonie su "...e Dio, voglio andare dove va il Sole" e poi su un assolo-incantatore sospira "ma lei è così fredda..." e ancora "The Flower Song" sospesa nel vuoto a esplorare i desideri, che si domanda "Sarò per sempre da solo a contemplare il cielo, o imparerò a volare?". Sembra impossibile dopo tale enfasi, originalità ed urgenza espressiva, che nella scaletta si possa crescere di intensità, eppure la stessa sequenza è un crescendo liberatorio e "Boy By The Roadside" è il racconto clou del disco: lo zenith della poetica di Sheppard, che finisce per gridare senza parole, accompagnato da una dolce armonica a bocca. Dopodiché "The Sunday Song" non è che uno scherzo strumentale ipnotico - tre note di basso e tastierina - e serve giusto a non lasciare il vuoto e la bocca asciutta dopo tanta grandezza. Stavolta ci si addormenta davvero.
Un altro capolavoro, profetico poema della presenza-assenza, il testamento definitivo di una band storica, uno dei gruppi più ispirati e originali dei 90.
Morto il bassista nel 1994 per emorragia cerebrale, i God Machine non esistono più. Un anno dopo Robin formerà l'etichetta indie Flower Shop Recordings (Elevate, Oil Seed Rape, Swervedriver, Copenhagen), e successivamente i Sophia.
Austin, anch'egli trasferitosi a Londra, scrive, dirige e produce film.
Nel 2000 Sheppard incide un disco a nome The May Queens con Graham Miles, James Elkington (Elevate) e Dan Mulligan (Oil Seed Rape), già membri dei Sophia. Esperienza poco fortunata, un divertimento teso verso il punk e il più classico rock'n'roll, privo della profondità e della compiutezza degli altri due progetti. "Tonite" somiglia ai Sophia, mentre "Falling" o "Changes" sono punk'n'roll come nei primi Rem. Poi ecco "Theme For The May Queens n. 1 e 2": la prima una fragorosa galoppata hard-rock un po' fuori fuoco; la seconda un discorso a parte, garage-surf che si fa ascoltare con piacere e fa coppia col cantato malato di "Rollin". "If You Want It" è troppo commerciale. "Like A Record" potrebbe essere Evan Dando. Anche "Fench" non è male, purtroppo però il risultato complessivo non è compatto, ma frammentato e adolescenziale.
Tutt'altro pianeta abitano i Sophia, desolata e suggestiva espressione del dolore esistenziale e del vuoto sentimentale nati dall'esperienza God Machine. Di questi ultimi viene abbandonata la tensione nervosa e metallica per concentrarsi su un più classico cantautorato indie-folk che deve molto ai 90, ma affonda le radici nell'intimismo di Neil Young e Leonard Cohen.
Pur non essendo retorica, la densa scrittura di Sheppard risulta meno poetica di quanto non fosse in precedenza. I testi scorrono sulle tracce come un fiume; difficilmente feriscono, anche se talvolta lasciano il segno. Le melodie, d'altro canto, sono spesso killer, e una volta ascoltate non le dimenticherete. Dove God Machine strizzava l'occhio all'Inghilterra, Sophia attinge da country e tradizione americana.
Nel debutto Fixed Water non c'è più l'impeto minaccioso ed elettrico, ma restano intatte maestosità ed enfasi. C'è la leggerezza country-pop di "Are You Happy Now" o "Another Friend". Ci sono perle esemplari nella loro essenzialità (voce e chitarra acustica) come "Is It Any Wonder", "Last Night I Had A Dream" e "The Death Of A Salesman", con quel timido falsetto da pelle d'oca à-la Morrissey. "I Can't Believe..." sfoggia delicati arrangiamenti che ricordano Pajo e i suoi Aerial M. Un po' troppo omogeneo, l'album rivela come Sheppard abbia momentaneamente esaurito la rabbia caratteristica della sua prima produzione.
Lo stesso si ripete su The Infinite Circle, che però trasuda un'ispirazione notevole. Si apre con "Directionless" fra intarsi acustici, piano (Pullman?), controcanti sussurrati e "Sto perdendo la mia direzione". "If Only" è lentissima e struggente. L'atmosfera in "I'd Rather" ci ripropone le reiterazioni vocali e strumentali alla God Machine (nell'arpeggio iniziale e nel ritornello) che torneranno in mente più di una volta. Sorprende il pezzo "Every Day" per il refrain da classifica eccessivamente pop. La stessa severità di sempre, in Sophia è condita differentemente e costruisce semplici, ma monumentali strutture ("Woman"). La pur commerciale "Sometimes" pare quasi far impennare le sorti del disco. L'acustica magnetica e la voce sofferta, sussurrata, distorta, supplicano con un'intensità che non invidia niente al meglio di Sheppard: "Non riesci a vedere cosa mi stai facendo? Oh, a volte non credo che riuscirò mai a dormire".
Non tutti gli episodi colpiscono allo stesso modo, ma resta comunque un disco dolcissimo, di una tristezza palpabile. "Within Without" per un attimo spezza la malinconia con un finale ritmico alla Who. Subito dopo si presenterà "The River Song", che già dal titolo addita la matrice God Machine: l'acustica incalzante e ipnotica concede uno squarcio di rumore elettrico; il pezzo, ipoteticamente, è degno di "One Last Laugh...".
Nel complesso l'unica critica è alla eccessiva conformità del materiale, che rischia di annoiare essendo composto quasi per intero da lente ballate acustico-melodiche. Comunque un album terribilmente romantico, delicatamente vellutato, austeramente semplice. Robin da icona metafisica è diventato un serio cantautore. E anche se lo spettro God Machine pesa sulle sue spalle, la visione che la sua musica lascia trapelare è positivamente indirizzata verso una crescente espressività e promette un brillante futuro.
De Nachten esce come raccolta di materiale live. Ci sono quattro inediti che calcano il lato epico-estetico della band ("Ships In The Sand"), grazie all'ensemble di dieci musicisti. Poi tre classici tra cui "The River Song", e infine la cover di "Jealous Guy" di John Lennon. Fra gli inediti merita una menzione "Bad Man", che parte con un piano secco e funereo alla Nick Cave, e poi abbraccia un falsetto malato da murder ballad psichedelica.
De Nachten si fa apprezzare per la maggiore varietà rispetto ai primi due dischi dei Sophia.
Passata a una major, la band cambia rotta. "Oh My Love", l'apertura di People Are Like Seasons, è hyper-pop, una power-ballad da Mtv: melodia vocale distorta, basso che pompa alla God Machine, ritmica che incalza, un'acustica e un'elettrica abrasiva, un ritornello micidiale con controcanto sognante. Non so quanto ciò possa rendere felici i fan di Sheppard, abituati alla estenuante ricerca dei suoi primi album, ma il pezzo è indubbiamente bello. "Swept Back" aggiunge un beat freddo e malinconico alla Malcolm Middleton, "Fool", "I Left You", "Another Trauma" tornano alle sonorità Sophia.
A questo punto "Desert Song n.2" ci fa incrociare le dita in memoria di God Machine, ed è una piacevole sorpresa intrisa di nostalgia ed elettricità compressa. "Darkness" è figlia degli anni 80, a metà fra Matt Johnson e il Trent Reznor più orecchiabile. Alcune scelte appaiono un po' semplicistiche, come "If A Change Is Gonna Come", che inizia come un garage-rock e diventa una power-ballad; oppure "Holidays Are Nice", che parte bene con echi psichedelici Beatles-Floyd e si perde in un mieloso ritornello natalizio.
Complessivamente se quest'album propone nuovi registri e brilla per diversità di sfumature, è anche vero che è molto meno focalizzato dei precedenti e talvolta carente di ispirazione.
Lo stesso anno esce, in edizione limitata di 3000 copie, Collections: One, un favoloso cofanetto di inediti, confezionato con cura e gusto. "Genius" assaggia l'universo appartato degli Arab Strap, e proprio la ex-voce femminile del gruppo canta nella cover dei Pet Shop Boys "You Only Tell Me...". Ancora elettronica in "Airports", i fiati in "Easy", "If You Want A Home" è inusuale, sembra calcare un umore positivo à-la Lemonheads, "Razorblades" è classic Sophia e, infine, un'intensa "Zinc" chiude il disco, distribuito soltanto nel circuito dei concerti e dei fan.
Sempre per City Slang esce Technology Won't Save Us. La title track è enfasi cinematografica: una galoppata acustica con archi, fiati e pianoforte che scoppia in sature nuvole di distorsione. "Pace" alza il passo e spara un refrain che sa di brit-wave romantic à-la Duran Duran. "Where Are You Now" abbassa il tiro su una pop-ballad tipicamente Sophia. "Big City Riot" accresce la disperazione sussurrando un cantato sofferto. "Twilight at The Moscow" ha suggestioni orientali con tromba e violini che intessono una delle atmosfere più d'impatto del disco, reminiscente di Calexico.
"Birds" colpisce per la freschezza e i sobri fiati. "Lost" riparte dove "Pace" aveva lasciato, "Weightless", invece, ricorda un po' la dolcezza paranoica Arab Strap (anche per la presenza di ossessive acustiche e beatbox); simile l'inizio di "Cherry Trees", con un cantato appena perverso e l'aggiunta di basso e soniche elettriche alla Afghan Whigs a pompare la cadenza. L'ultima "Theme For The May Queens 3" riallaccia il discorso lasciato in sospeso dall'omonima band parallela: una scarna corsa strumentale punk-grunge.
Nell'edizione con cd-bonus, è presente "Bastards", stonata e biascicata nello stile paranoico disperato di Will Oldham; infine "I Left You", "Oh My Love", "I'd Rather" e "Pace" in versioni minimali doppia voce e chitarra acustica.
Le canzoni sono in pratica quasi tutte belle e perfettamente eseguite, ma l'impressione generale è che Robin non abbia tirato fuori il meglio di sé, e che questi numeri siano soltanto piacevoli divertissement, semplici esercizi per affilare la tecnica e mettere a fuoco il sound. Ascoltando queste tracce non si incontra la visceralità tipica della prima produzione di Sheppard, perciò, per quanto l'album sia piacevole e riuscito dal punto di vista della confezione del suono, si può solo sperare che l'ispirazione torni a solleticarlo adesso che il mondo gli punta gli occhi addosso, attendendo che vengano alla luce nuovi capolavori di questo visionario cantautore consegnato alle ali del mito.
Proper-Sheppard sembra voler recuperare l’anima più intimamente acustica dei Sophia con il successivo There Are No Goodbyes (2009), un disco intriso del romanticismo doloroso degli addii, l’ultima carezza al chiudersi delle porte di un treno.
Enfatizzata dalla batteria di Jeff Townsin, la title track introduce l’album con il piglio melodico di Greg Dulli, aprendo la strada a classiche ballate alla Joseph Arthur come “Storm Clouds” e “Obvious”. Il rock a presa rapida di “A Last Dance (To Sad Eyes)” rimane un episodio isolato: quando si fa strada la spoglia nudità in chiaroscuro di “Dreaming”, il disco sembra ritrovare il vero spessore dei Sophia.
È un senso di solitudine tormentata ad avvolgere i brani, a partire dalla seduta psicanalitica di “Something”, con la voce della cantautrice scozzese Astrid Williamson a fare eco a quella di Proper-Sheppard tra archi e pianoforte. Una malinconica pedal steel intesse “Signs”, mentre il timbro dalle sfumature amare di “Leaving” scava impietoso nelle pieghe del dissolversi di una relazione.
Proper-Sheppard non tenta di nascondersi: “Ho sofferto a scrivere queste canzoni”, ammette. Il confine tra sincerità e stereotipo rischia però di farsi labile quando i suoi versi si prestano a confessioni dal sapore di diario adolescenziale come quelle di “Heartache”. Eppure, l’epilogo dai tratti cameristici di “Portugal” lascia intravedere una nota di speranza: “It’s never too late to change”.
La sensazione è che i brani del disco si fermino in più di un’occasione al livello emotivo più immediato. E quasi mai la via più facile per arrivare al cuore è anche quella capace di raggiungerlo davvero nel profondo.
Il ritorno della band, a ben sette anni da There’s No Goodbyes, ha nell’essere iconico uno dei suoi aspetti fondamentali: i suoi brani, declamatori e imponenti nella loro epica monolitica, la produzione marmorea e i refrain quasi scolpiti (“St. Tropez/The Hustle”) producono una stele immediatamente riconoscibile per i fan dei Sophia.
E qualche vecchio brivido stazzonato si può provare, anche in As We Make Our Way (Unknown Harbours), anche se nella forma “adulta” e un po’ qualunque di “Baby, Hold On”, o nell’Americana “spazzolato”, alla Greater Pacific, di “Don’t Ask” e “The Drifter”. Un po’ tutto il disco, a proposito, gioca sui cliché della malinconia e dell’irrequietezza (“I’m a drifter, babe/You caught me on the road/So why don’t you let me go”), e certamente sul piano lirico non è il più ispirato di Proper-Sheppard (anche l’esistenziale “It’s Easy To Be Lonely” non è da meno, “Resisting” sfiora l’imbarazzo).
Sul piano degli arrangiamenti, si segnala anche qui una certa “medietà”, sia nelle giovanilistiche code corali (“Resisting”, mentre “You Say It’s Alright” è una coda corale) che nei brani più di maniera (“The Drifter”, “Don’t Ask”).
Nonostante l’impressione generale di una solenne processione dai toni gravi e imperiosi, la scrittura e l’esecuzione del disco lo collocano in realtà vicino a un prodotto midstream “alt-rock” (la sconcertante “Blame”, il tentativo socio-politico “California”), in un parallelo non lusinghiero (per i Sophia) con la proposta attuale dei Low.
Il tutto riesce infine, mettendo insieme musica, testi e interpretazione, come una specie di opuscolo divulgativo di quanto il movimento di cui i Sophia hanno fatto parte vorrebbe esprimere – spiegato ai neofiti.
La novità che caratterizza Holding On / Letting Go (2020) è che unitamente alla creatività a 360° di Robin Proper-Sheppard i Sophia si presentano come vera e propria band, per la prima volta dal debutto “Fixed Water”.
Oltre al batterista Jeff Townsin e al bassista Sander Verstraete, già presenti in As We Make Our Way (Unknown Harbors) sono stati coinvolti anche il chitarrista Jesse Maes e il tastierista Bert Vliegen.
L’apporto che Proper-Sheppard può portare all'indie-pop, è subito evidente nel brano "Alive", pubblicato a marzo come anticipo. Una ballata elegiaca e sensuale, caratterizzata dal desideroso e malinconico sassofono di Terry Edwards che si distanzia diametralmente dai suoni sintetici provenienti dagli anni '80 e le chitarre distorte dell’opener "Strange Attractor". Nel corso del brano i confini tra indie pop, new wave e post-punk si confondono in un viaggio pulsante e allo stesso tempo sognante e trascendentale.
Ancora una volta il collettivo Sophia ha soddisfatto le grandi aspettative.
Contributi di Antonio Ciarletta ("People Are Like Seasons"), Gabriele Benzing ("Technology Won't Save Us", The Are No Goodbyes"), Lorenzo Righetto ("As We Make Our Way"), Cristiano Orlando ("Holding On / Letting Go").
GOD MACHINE | ||
Purity (12",Eve recordings, 1991) | ||
The Desert Song (12",Fiction, 1992) | ||
Ego (12", Fiction, 1992) | ||
Home (7" vinile argentato, cd, 12" e promo cd, Fiction, 1993) | ||
Scenes From The Second Storey (Fiction, 1993) | ||
One Last Laugh In A Place Of Dying (Fiction, 1994) | ||
THE MAY QUEENS | ||
The May Queens (The Flower Shop Recordings, 2000) | ||
SOPHIA | ||
Fixed Water (The Flower Shop Recordings, 1996) | ||
The Infinite Circle (The Flower Shop Recordings, 1998) | ||
De Nachten (Flower Shop Recordings, 2001) | ||
People Are Like Seasons (The Flower Shop Recordings/City Slang/Bang!, 2004) | ||
Collections: One (antologia, Flower Shop Recordings, 2004) | ||
Technology Won't Save Us (The Flower Shop Recordings/City Slang/Bang!, 2007) | ||
There Are No Goodbyes(City Slang, 2009) | ||
As We Make Our Way (Unknown Harbors)(The Flower Shop, 2016) | ||
Holding On / Letting Go (The Flower Shop, 2020) |
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