Broken beat

Manuale per ritmi impossibili

I generi della musica da ballo, spesso, sono contraddistinti da un proprio ritmo caratteristico. È ­così per il reggaeton, il kuduro o il 2-step garage, e a ben vedere anche per stili più tradizionali come tango o polka. Altri filoni sono più variegati – sarebbe ben difficile sostenere che tutta la musica house segua uno stesso schema ritmico – ma tendenzialmente conservano uno scheletro riconoscibile. C'è però un ambito che ha messo al centro proprio l’imprevedibilità: si tratta del broken beat (per gli amici bruk – “rotto” in patois giamaicano), germogliato alla fine degli anni Novanta nell’Ovest di Londra, e da lì diffusosi nei fusi orari più svariati all’inizio del decennio successivo.

Il nome, in fin dei conti, è azzeccato: il primo elemento che balza all’attenzione negli intricati groove del bruk è il loro carattere spezzato e instabile. Al posto del comfort della cassa dritta o dei derivati del boom-bap hip-hop, con la sua inflessibile enfasi sul secondo e il quarto tempo di ogni battuta, il broken beat propone una selva di slittamenti d’accento. Una scomposizione e ricomposizione sincopata degli abituali pattern ritmici, che – pur uscendo molto raramente dal “quattro quarti” – spiazza l’ascoltatore con pause e colpi inattesi (offbeat), catapultandolo verso territori inesplorati. E peraltro diversi da brano a brano nonché, spesso e volentieri, perfino fra una battuta l’altra di uno stesso pezzo.
A rendere possibile l’esplorazione dei nuovi orizzonti sono soprattutto drum machine e sequenziatori, fra cui le prime digital audio workstation (DAW) per personal computer. La relativa accessibilità di queste tecnologie e l’expertise acquisita negli anni precedenti da produttori provenienti da una varietà di stili fanno del broken beat un terreno d’incontro per sensibilità e storie musicali diverse, che abbracciano inizialmente hip-hop, jungle, acid jazz, e si allargano poi a house music, techno, latin jazz, trip-hop, folktronica, cantautorato, glitch, dubstep, afrobeat e chi più ne ha più ne metta. Filone dichiaratamente fusion e progressivo fin dai suoi primissimi passi, il bruk è adottato come casa da musicisti e ascoltatori avventurosi pronti ad abbattere le barriere fra i generi e sperimentare complessità inedite, senza tuttavia rinunciare alla musicalità delle tracce e, in molti casi, alla loro presa sul dancefloor.

Rispetto ad altre tendenze chiave dell’elettronica britannica sorte a cavallo fra i due millenni (si pensi a drum’n’bass, trip-hop, garage, dubstep, grime…) il broken beat è oggi decisamente poco ricordato. Non ha né un pezzo-simbolo né un album fondamentale che siano universalmente noti agli appassionati dai gusti trasversali, e la sua visibilità nelle testate musicali (peraltro sempre piuttosto marginale, salvo rarissime eccezioni) si è virtualmente azzerata dopo la metà degli anni Duemila. Eppure, i segni di quei ritmi fratturati sono ovunque in un arco di stili elettronici che vanno dal post-dubstep al nu jazz, dalla deconstructed club allo Uk bass.
Forse il destino del genere è che resti un’influenza pervasiva ma sottaciuta, un eterno segreto ben celato. La scommessa di questo articolo è che non debba per forza essere così. Che, in assenza di un’occasione perfetta per la riscoperta, questo possa essere comunque un momento sufficientemente buono. Perché la musica realizzata dai protagonisti del broken beat è troppo intrigante per restare sepolta.
Riproponendosi di realizzare ciò che finora era mancato - una storia del genere che ne colga le molteplici sfaccettature - la trattazione sarà estesa e articolata. Ma non sarà necessario leggere dal capo al fine per ottenere un quadro spendibile: per consentire la fruizione su livelli di approfondimento successivi, il testo è diviso in tre parti che possono essere consultate separatamente (la scena britannica del periodo più in vista, le sue controparti internazionali, la prosecuzione dopo la perdita di visibilità). Per orientarsi fra le centinaia di artisti e dischi citati, una discografia essenziale - con tre album-chiave, altri dieci per approfondire e un'ulteriore selezione di titoli consigliati - è riportata a latere del testo principale. Una playlist introduttiva in cinquanta tracce, infine, è proposta come valida compagna per la lettura dell'articolo, del quale ricalca (salvo rare licenze) l'organizzazione.

Parte uno: West London sound

Meridiano zero

screenshot_20240425_160643modified_1Digitando “broken beat” su un motore di ricerca, gli articoli in cui ci si imbatte non sono poi molti. Recensioni e interviste in abbondanza, ma davvero poche prospettive organiche sul genere: anche scavando un poco oltre ai primi risultati, non si supera facilmente la dozzina. Pressoché tutte le ricostruzioni concordano su un quadro narrativo e geografico essenziale. Nel corso dell’articolo ci sarà modo di osservarne limiti e distorsioni, ma per intanto vale senz’altro la pena di incominciare da lì: North Kengsington, Londra, 1997. Perché, effettivamente, è da lì che tutto parte.
Kensal Road è una traversa di Ladbroke Grove, un’arteria secondaria che taglia il quartiere di North Kensington connettendo il cimitero monumentale di Kensel Green con Holland Park. Lì, all’estremità settentrionale della lunga via, intrappolato fra la ferrovia e il Grand Union Canal si trova il Saga Centre, tre piani di palazzo e un seminterrato. Proprio in quest’ultimo nel 1997 si installano Mike Slocombe e Spencer Weekes, da poco licenziatisi dal distributore musicale Global Distribution, per dare una parvenza di ufficialità al proprio desiderio di mettersi in proprio. I due hanno avviato un’etichetta, People, per la quale hanno fatto uscire un 12 pollici, e sono pronti a pubblicare il prossimo, per il quale vogliono fare anche da distributori – occupandosi di stoccaggio e trasporto, e stringendo accordi con i negozi perché prendano in consegna i dischi.

Il neonato distributore discografico si chiama Goya Music Distribution, e il nuovo 33 giri si intitola “Groove Now/New Goya”. L’artista sull’etichetta è New Sector Movements, al secolo Ian Grant, aka IG Culture. La voce è di My Linguistics, nome d’arte della cantante Kate Phillips, da allora più nota come Bémbé Ségué. Al vibrafono è accreditato Roger Beujolais, cioè Roger Downham, nome ricorrente dello swing revival e dell’acid jazz londinese da metà degli anni Ottanta.
Lo stesso IG Culture è in giro da un po’: ha collaborato all’ibrido jazz/funky/hip-hop degli Young Disciples, è stato parte del duo hip-hop Dodge City Production e ha già alle spalle produzioni a proprio nome. Ma “Groove Now” e “New Goya” hanno qualcosa che risalta, almeno col senno di poi, rispetto alle realizzazioni precedenti. Sono jazzy e groovy, ma in modo davvero personale. Sembrano zoppicare, inciampare sul proprio ritmo. Nell’apparente caduta trovano però un incalzante slancio a procedere. Andrà proprio così, visto che da quell’intuizione ritmica prenderà vita un’intera scena.

Zoom out. Nuovo zoom in. Questa volta si va più a Sud, a Richmond, di là dal Tamigi. È sempre il 1997, e il costante andirivieni di musicisti che dal 1994 affolla l’appartamento dei producer Orin Walters e Paul Dolby si è pressoché stabilizzato in una crew dagli orizzonti comuni. L’abitazione, modesta ma spaziosa, è soprannominata scherzosamente “The Attic”, e il collettivo di nove artisti si battezza Bugz In The Attic. La composizione è assai eclettica: Orin Walters (da lì a poco Afronaught) ha all’attivo anni di produzioni house e anche Scott Clifford/Cliff Scott/Psyan è nell’ambito; Paul Dolby è invece da un po’ nel giro drum’n’bass col nome Seiji, e così anche Mark Lipka (Mark Force, o G-Force), breakdancer con un background electro e hip-hop. Darren Benjamin (Daz-I-Kue) e Matt Lord (Thy Lord) sono tecnici e ingegneri del suono, Mikey Stirton è dj e si occupa dei mix, Alex Phountzi (Al Da Bubble) ha iniziato come chitarrista in una formazione funk per poi darsi alla produzione. Kaidi Tatham (Agent K), infine, è un polistrumentista dal tocco jazz, già flautista per la National Children's Wind Orchestra of Great Britain e poi tastierista del gruppo hip-hop/jazz The Herbaliser, celebrato pressoché unanimemente come prodigio musicale da chiunque ci abbia avuto a che fare (Mike Slocombe ne avrebbe dichiarato: “Lo avevo sentito suonare la tastiera ed era incredibile, e ora mi stava dicendo che in realtà il suo strumento principale era il flauto!”).
Il collettivo è unito da alcune fisse: “The Nervous Track” dei Masters At Work, la devozione verso la svolta jazz nella jungle dei 4Hero (per la cui Reinforced Records sia Mark Force che Seiji hanno pubblicato), il desiderio di fare musica “come la drum’n’bass, ma con un tempo più lento”. Ma sono soprattutto le differenze il punto di forza della crew: di esperienze musicali, di estrazione etnica, di competenze. Nel tempo pubblicano singoli, Ep e (molto più tardi, nel 2006) un album, ma è soprattutto con remix e serate che si fanno un nome. A seconda della richiesta del committente, sanno chi mettere in gioco: “Per una traccia dalle vibe davvero spacey o una cosa ambient ci sono Kaidi e Cliff, se vogliono una cosa elettronica e dura e sfacciata i nomi sono G-Force e Seiji, sulle cose più vocali e gospel entra in gioco Daz”, avrebbe spiegato Orin Walters.

r2477499516653681172832Di nuovo a North Kengsington. In cerca di spazio per un proprio studio, IG Culture si trasferisce in una parte inutilizzata del seminterrato al Saga Centre. Di lì a qualche tempo, arriveranno anche i Bugz In The Attic. Buona parte della “scena”, a ben vedere, è inizialmente formata da ricombinazioni interne fra Bugz, IG Culture, e le vocalist Bémbé Ségué ed Eska (Eska Mtungwazi). Il secondo 12 pollici a nome New Sector Movements, “My History”, esce nel 1998 sempre su People e vede accanto a IG Culture Bémbé Ségué, Kaidi Tatham, Orin Walters. Nel 1999 esce un primo (e unico) album a nome Neon Phusion: i titolari sono Phountzi, Walters e Tatham, ma nel disco compaiono anche Daz-I-Kue, Seiji, IG Culture, Bémbé Ségué, Matt Lord. Nel 2001 è il turno degli Lp di New Sector Movements (“Download This”, con Bémbé Ségué, Kaidi Tatham, Eska) e Orin Walters (“Shapin’ Fluid”, a nome Afronaught, con ospiti Tatham e Beaujolais). Non saranno raccolte che nel 2017, invece, le molte registrazioni di Tatham e IG Culture a nome Likwid Biskit, che fra il 1998 e il 2005 vedono fra gli altri collaborare Afronaught, Bémbé Ségué e, sorprendentemente ma neppure troppo, il leggendario bassista Pino Palladino.
Uscita dopo uscita, va definendosi uno stile sempre più riconoscibile e policromo. Oltre alle iconiche trasmutazioni ritmiche, i cardini del suono sono in gran parte rivolti alla fusion degli anni Settanta e alle sue propaggini rare groove. Herbie Hancock è l’idolo sia di IG che di Tatham – che in effetti il dj della Bbc Benji B avrebbe definito con un certo azzardo “L’Herbie Hancock britannico” – con una divergenza giusto sul titolo preferito: “Man-Child” per IG, “Head Hunters” per Tatham. Altri riferimenti ricorrenti sono George Duke, i brasiliani Azymuth e gli Ubiquity di Roy Ayers, caposaldo del funk e del soul/jazz (“Inizio tutto con l’idea di fare una nostra versione degli Ubiquity”, ricorda IG riguardo all’inizio della collaborazione con Bémbé Ségué per le prime cose dei New Sector Movements).
I pezzi, midtempo che spesso superano i 5 minuti di durata, sono centrati sull’elemento strumentale. Le voci, tendenzialmente, forniscono giusto un contorno di Mc'ing, variando attorno a poche parole o elementi melodici interiettivi. Oltre alle costruzioni ritmiche, di disco in disco più elaborate e mutaforma, al centro dell’attenzione sono le tastiere, che pur evitando gli assoli a gran velocità giocano su una tavolozza ampia sia dal punto di vista timbrico (Rhodes, Moog, Clavinet, ARP Odyssey, Roland Jupiter, Yamaha CS-15D…) che armonico, con grande abbondanza di accordi estesi capaci di coniugare dinamismo e sospensione. Sempre orientate al groove e alla presenza di un adeguato tiro, le composizioni si sviluppano su addizioni, sottrazioni e graduali evoluzioni, assicurando varietà ma anche affidabilità nella loro presa su un’eventuale pista.

1618389536brukupcoopflyerback2Qui si fa necessario un altro salto. Nel 2000, al 143 della centralissima Charing Cross Road, affacciati su Tottenham Court Road, fra Soho e St. Giles. L’ennesimo seminterrato. È qui che nasce il CoOp, serata ospitata una domenica ogni due dal Velvet Rooms, locale di culto di quegli anni che dal 2001 le alterna il Fwd>>, appuntamento chiave della nascente scena dubstep. Soprattutto per singoli e remix, la dimensione del dancefloor è essenziale, e gli artisti accasati al Saga Centre di frequente ultimano il giorno stesso della serata nuove tracce da testare in pista, masterizzandole su Cd-r e portandole in dono a un pubblico aperto e attratto dalle sorprese.
Fin dal nome, il CoOp è incentrato sulla dimensione comunitaria e collaborativa. I creatori sono IG e altri tre nomi importanti del giro: Demus (Dilip Harris, produttore degli Young Disciples e nome affermato delle scene acid jazz e jazz-hop), Phil Asher (producer e dj sulla piazza dai primi anni Novanta, e dal 1995 protagonista del team deep house Restless Soul) e Dego. Quest’ultimo è Dennis McFarlane, già una celebrità in ambito jungle per il suo lavoro in coppia con Marc Mac: con il nome 4Hero, i due sono dai primissimi anni Novanta pionieri della breakbeat hardcore e della drum’n’bass, che contribuiscono ad affermare discograficamente con la fondazione di Reinforced Records già nel 1989. In particolare, i 12 pollici “Darkrider” del 1992 (di Rufige Krew, ovvero Goldie) e “Journey To The Light” del 1993 (a nome 4Hero) sono tappe essenziali nello sviluppo del sound darkcore che di lì a poco sfocerà nelle prime produzioni battezzate come “drum’n’bass”.
Già nel 1994, con l’album “Parallel Universe”, i 4Hero si allontanano dal sound concitato della rave music dando vita a un filone atmospheric drum’n’bass in cui diventano essenziali tecniche avanzate di editing sonoro messe a punto dai due. Il time stretching e il pitch shifting consentono attraverso la scomposizione e il resampling dei break campionati di eludere la legge che lega Bpm e altezza dei suoni: con un lavoro produttivo certosino, diventa possibile variare il tempo di una frase ritmica senza modificare l’altezza delle percussioni, o viceversa alzare o abbassare il pitch di un elemento ritmico senza doverne accelerare o rallentare la durata.
Ma è soprattutto l’album successivo, il doppio “Two Pages” del 1998, a fare dei 4Hero un riferimento cruciale per il filone. Ulteriore rallentamento del tempo, allargamento dello spettro dei campionamenti ritmici in direzioni sempre più lontane dall’amen break, adozione di timbri acustici e schemi sonori di impronta jazz, e soprattutto un impiego sistematico di stretching, shifting e permutazioni interne dei beat: questi elementi fanno dell’avventurosa formula jazzstep del duo un faro per innumerevoli beat-breaker degli anni successivi. A ben vedere, Dego e Marc Mac non sono nell’Inghilterra di metà anni Novanta gli unici sperimentatori elettronici ad aver di fatto preconizzato le soluzioni di IG e dei Bugz: sia nei Plaid di Ed Handley e Andy Turner che nei Future Sound Of London di Garry Cobain e Brian Dougans si incontrano intuizioni molto vicine. Ma sono i protagonisti stessi della scena a evidenziare il ruolo ispiratore dei 4Hero, e la connessione è certificata dall’attività nel panorama bruk di Dego (che, nel 2004, pubblica con Tatham e Daz-I-Kue dei Bugz l’unico album mai uscito su Bitasweet, “Future Rage”, a nome DKD), e, inizialmente meno in evidenza, anche di Marc Mac.

Produttori, distributori, serate: il quadro inizia ad arricchirsi, ma mancano ancora alcuni ingredienti. Uno di questi è dato dalle etichette: oltre a People, a ridosso del 2000 sbocciano altri nomi. Nel 1997 Dego fonda 2000 Black come costola di Reinforced, e nel 1999 i Bugz creano Bitasweet Records, mentre IG inizia le pubblicazioni con la sua Main Squeeze. Neon Phusion e il primo album solista di Kaidi Tatham (“Feed The Cat”, 2002, a nome Agent K) escono su un’altra creatura di quegli anni, Laws Of Motion, poi casa di molti altri artisti del filone.
Infine, radio e stampa. Un nome imprescindibile è quello del dj radiofonico Gilles Peterson, già negli anni Ottanta voce di pirate station come Radio Invicta, nei Nineties su Jazz Fm e Kiss Fm, e dal 1998 a Bbc Radio 1 con l’appuntamento notturno “Worldwide”. Patito di nu jazz, acid jazz, future jazz (etichette col senno di poi ampiamente sovrapponibili), oltre che di hip-hop, soul, musica elettronica e world music, Peterson è da subito entusiasta dei suoni bruk ed essenziale per portarli alla conoscenza degli ascoltatori più curiosi, mantenendoli poi aggiornati sulle continue novità del filone.
Oltre alla trasmissione di Peterson e alle serate del CoOp, gli appassionati hanno altri due riferimenti chiave: le riviste Straight No Chaser e XLR8R. Fondata nel 1988 dal giornalista Paul Bradshaw, la prima è per più di un decennio un’osservatrice attentissima della musica della black diaspora, e specialmente delle sue frange più progressive. Fra anni Novanta e Duemila, Bradshaw e gli altri collaboratori seguono con coinvolgimento gli sviluppi del broken beat, visto come prosecuzione ancora più coraggiosa delle rotte fusion già intraprese in campo acid jazz e nu-soul. XLR8R nasce invece nel 1993 a Seattle, con un focus inizialmente rivolto alla musica elettronica, via via poi estesosi ad altri generi. Negli anni clou del broken beat tratta con scrupolosità gli artisti del filone grazie a un roster di giornalisti che comprende il britannico Paul Sullivan ma anche appassionati statunitensi come Tomas Palermo e Peter Nicholson, che fra il 2006 e il 2008 cura per la rivista la rubrica fissa “Broken Business – Future jazz and busted beats”.

51tgxnadydl._uf10001000_ql80__1L’ecosistema broken beat acquista una sua solidità, e per qualche anno lo stile è visto convintamente come next big thing da giornalisti e produttori. Ma, per un motivo o per l’altro, la bomba non esplode mai. Al di fuori dello show di Peterson, ben pochi disc jokey puntano sul genere (perfino nelle radio pirata). Anche nel mondo dei club i dj sono scettici: i beat sono sì stabilmente in 4/4, ma l’irregolarità degli accenti rende le tracce particolarmente difficili da mixare con efficacia. Solo i patiti e i più acclimatati jazz dancer, poi, si trovano a proprio agio su dancefloor orientati al bruk (particolarmente brillante la considerazione del giornalista e teorico dell’afrofuturismo Kodwo Eshun: “E' probabilmente l’unica forma di musica da ballo che ti faccia sentire di disporre del numero sbagliato di gambe”).
Attorno al 2003, il CoOp si sposta insieme al Fwd>> dal Velvet Rooms al Plastic People, a Shoreditch: un passo avanti in termini di qualità dell’impianto, ma anche – a detta dei seguaci dell’evento – una restrizione degli orizzonti. È Mike Slocombe di Goya Music a raccontare: “Il sound cambiò per adattarsi al club. I tempi al Velvet Rooms erano più eclettici; una volta a East London divenne molto più simile a ciò che tutti si aspettavano dal broken beat”.

Nel 2005, finalmente, i Bugz In The Attic buttano fuori un singolo pensato per il successo: è “Booty La La La”, con la cantante di origini sudafricane M’pho Skeef e Bémbé Ségué alla voce. Il pezzo, specialmente nel radio edit da meno di quattro minuti, è una bombetta song-oriented costruita su bassi sintetici e graffianti, debitamente in bilico fra venature jazzy e sfacciataggine dance-pop. Ma non buca. Entra in classifica, ma si ferma al quarantaquattresimo posto. L’anno successivo, l’atteso Lp di debutto del collettivo, “Back In The Doghouse”, esce per la sublabel di Universal V2 ed è zeppo di canzoni attorno ai tre minuti, con ritmi tutto sommato (e pure troppo, volendo) dritti, ma non entra nemmeno in top 100. Quella che era percepita come la grande occasione del genere si rivela un sostanziale flop.
Sono d’altra parte gli anni del crollo commerciale delle vendite di compact disc: dopo il picco attorno al 2000, la bolla è esplosa e molti business grandi e piccoli che erano stati possibili grazie alla continua crescita del mercato vedono sprofondare le fondamenta su cui si erano basate. Nel 2007, Goya Distributions e l’etichetta People cessano di fatto le loro attività. Nello stesso anno, la rivista Straight No Chaser arresta le sue pubblicazioni e le serate CoOp si fermano. A dieci anni dalla sua nascita, senza aver mai fatto breccia nel mainstream, il West London sound giunge al capolinea.

Allargando il cerchio

Quella ricostruita sopra è, con sufficiente dettaglio e un po’ di pulizia dal rumore di fondo, la prospettiva più facilmente documentabile riguardo alla storia del broken beat. Presenta lo stile come una scena limitata nel tempo e nello spazio, un affare di West London legato a una comunità di artisti ristretta, dinamica e coesa. È una storia con un inizio e una fine, è efficace e stimolante.
È anche una visione sbagliata, anzi, peggio: limitata. Non mente riguardo agli aspetti fondamentali: omette elementi centrifughi e dettagli che non sono tali. È perfetta per far sembrare il broken beat una gustosa curiosità priva di ricadute ad ampio raggio – ma il bruk è stato un fenomeno più esteso e interessante di così, e lo scopo di questo articolo è portare alla luce i come e i perché. Fortunatamente, scavando nel materiale sparpagliato per la Rete (interviste, rari testi a stampa, incroci di discografie, post su blog, archivio di XLR8R e quel che resta della versione web di Straight No Chaser) ampliare lo sguardo diventa possibile, incorporando altri artisti, altre nazioni, altri stili. Potendo così cogliere, infine, le implicazioni a lunga distanza: ben lungi dall’essere scomparsi dalle parti del 2007, i ritmi spezzati sono qui fra noi, e godono di ottima salute.

Un primo allargamento si ha considerando tre personaggi non britannici, che tuttavia gravitano su Londra e svolgono ruoli cruciali nella scena locale. Si tratta del tastierista neozelandese Mark De Clive-Lowe e dei producer Alex Attias, svizzero, e di Enrico Crivellaro, alias Volcov, italiano di Verona. Tutti e tre interagiscono con gli altri protagonisti di primo piano, e tutti e tre avviano etichette proprie: Antipodean Records per De Clive-Lowe, Visions Records per Attias, e la coppia Archive/Neroli per Crivellaro. Queste ultime due, in particolare, sforneranno numerose uscite significative e costituiscono a tutti gli effetti riferimenti chiave per il filone.
Procedendo nell’esplorazione, è inevitabile uscire dalla Gran Bretagna e dirigersi alla volta della Germania, del Giappone e della Svezia. I berlinesi Jazzanova (con le due label Compost e Sonar Kollektiv), il duo Kyoto Jazz Massive (fondatori di Especial Records) e i molteplici nomi della scena di Göteborg sono i nodi determinanti nella rete globale di contatti che ha Goya Distribution come hub principale. Un network parallelo ai canali principali, sviluppato sull'esempio del già allora leggendario collettivo Detroit techno Underground Resistance, che dai primi anni Duemila fa del broken beat un fenomeno ramificato e planetario, con ricche declinazioni locali.

a3968294764_651_01Nato ad Auckland nel 1974 da madre giapponese e padre neozelandese, Mark De Clive-Lowe intraprende lo studio del pianoforte a quattro anni, si appassiona all’hip-hop nella prima adolescenza, compra una drum machine Yamaha e un sequencer Roland PR-100, poi perde la testa per Miles Davis e John Coltrane. Quando nel 1998 si trasferisce a Londra, ha già alle spalle due album. Immediatamente si inserisce nella nascente community broken beat: fra lui e Kaidi Tatham, coprono il grosso delle uscite in cui serva un tastierista jazz (ovvero quasi tutte). Con Tatham, Daz-I-Kue, Matt Lord, Orin Walters e Seiji fonda gli Homecookin’, che nel 2001 pubblicano l’album “Do What U Wanna”. Moltissime collaborazioni importanti separano questa uscita dall’album “Tide’s Arising”, la prima di due pubblicazioni a suo nome su Columbia (l’altra è il remix album “Face”, del 2006). Connubio di hip-hop, jazz, ritmi afro-cubani, synth scintillanti e ritmi spezzati, “Tide’s Arising” conduce la musicalità broken beat in territori più che mai trascinanti e direzionati. Ospiti nell’album Bémbé Ségué, Kaidi Tatham e due altri neozelandesi, Joel e Nathan Haines: quest’ultimo è fra i primi ad accogliere De Clive-Lowe a Londra, portandolo nel giro di una settimana a collaborare con Goldie e, stilisticamente parlando, incontra il broken beat almeno in alcuni dei brani prodotti da Phil Asher negli album “Sound Travels” (2000) e “Squire For Hire” (2003).

Nel 2005 esce anche il primo mini-album dei Legends Of The Underground, progetto multimediale che coinvolge danza, storytelling, animazione 3D e – sul versante musicale – Mark De Clive-Lowe, Seiji, Bémbé Ségué e il producer Domu. Un esperimento particolarmente cinematico e riuscito, anche grazie al contributo del flautista Finn Peters e del chitarrista Dave Okumu. L’esperienza vedrà un sequel nel 2007; sulle figure di Domu, Peters e Okumu, invece, ci sarà modo di tornare presto. Sempre nel 2007, altri due uscite di primo piano per il tastierista (meno male che dovrebbe essere l’anno del definitivo collasso del bruk!): l’omonimo dei The Politik e “Journey 2 The Light”, nuovo album a suo nome. Il primo vede la luce su Antipodean Records ed è il frutto del sodalizio artistico con Bémbé Ségué, coadiuvato in singoli brani da Finn Peters e Daz-I-Kue. È un disco diretto e dai toni squillanti, che si allontana a più riprese dalle fratture ritmiche d’ordinanza per sposare più aggressivi beat hip-hop, storica passionae di De Clive-Lowe. “Journey 2 The Light”, invece è senz’altro il più compiuto dei molti lavori di questa fase, l'opera che raccoglie i frutti maturi di tutte le esperienze accumulate. Supportato dalla sempre versatile Bémbé Ségué, dall’astro nascente della batteria bruk Richard Spaven e dal sassofonista Jason Yarde (già coi The Politik, oggi negli Heliocentrics), oltre che dalla sua fida drum machine Akai Mpc3000, il tastierista mette a segno dieci tracce coinvolgenti, luminose e caleidoscopiche quanto l’ammaliante copertina realizzata dall’illustratore giamaicano Bernard Hoyes.
La carriera di Mark De Clive-Lowe proseguirà senza cedimenti negli anni successivi, tanto da farne oggi il principale ambasciatore del verbo broken beat presso gli appassionati nu jazz. Ma, giunti a un suo evidente apice, conviene prendersi una pausa e procedere con altri nomi.

Alex Attias è orginario di Losanna, nel cantone francofono di Vaud, ma nel 1997 si sposta a Londra. Al momento del suo arrivo in Inghilterra, ha già una fama nel nascente circolo bruk: i suoi pezzi “Dark Jazzor” e “Jazz With Altitude”, pubblicati quello stesso anno dal duo Bel Air Project, sono stati trasmessi da Gilles Peterson e notati per il carattere conturbante delle atmosfere. Attias visita il Saga Centre quando gli spazi per gli studi sono ancora in allestimento, ed è fra i primissimi a unirsi a IG Culture e gli uffici di Goya Distributions nel seminterrato di North Kensington. Coinvolto, come un po’ tutti, in molteplici collaborazioni, i suoi progetti chiave in quegli anni sono Beatless e Mustang. Il primo non è inquadrabile come broken beat, ma lo porta a lavorare con Madlib/Quasimoto in due pezzi dell’album “Life Mirrors”, pubblicato nel 2001 da Ubiquity – una label statunitense che acquisirà via via un ruolo significativo per la scena e le sue evoluzioni. L’album “Back Home”, uscito a nome “Alex Attias Presents Mustang”, vede invece luce nel 2004 per la tedesca Compost. È qui che l’approccio molto personale di Attias al bruk emerge con maggiore chiarezza: oscuro e fortemente cinematico (per non dire cinematografico), lo stile dei pezzi combina l’inventiva ritmica del West London sound con lo spirito crate-digger dell’hip-hop strumentale, e mostra uno slancio verso la grandeur che risulta completamente originale. L’artista battezzerà il suo campo d’azione prediletto con l’azzeccata espressione cinematic breaks, e nel 2002 cura per la sua etichetta Visions la compilation “The Chromatic Universe”, con pezzi prodotti da Dego, IG e sé stesso che ben esemplificano la sua impronta. Rientrato in Svizzera nel 2004, successivamente Attias conduce uno show notturno sulla radio nazionale svizzera, mantenendo le connessioni con la scena.

a2978683482_101Quando Enrico Crivellaro trasloca a Londra, alla fine degli anni Novanta, la sua etichetta Archive è già attiva, come sublabel della milanese Dipiù fondata nel 1998. In cerca di un distributore britannico, tramite conoscenze entra in contatto con Mike Slocombe di Goya – uno dei suoi riferimenti del momento: rapidamente l’affare è fatto. Negli anni successivi, l’etichetta pubblica alcuni dischi rilevanti della scena bruk, fra cui singoli di Alex Phountzi/Al Da Bubble, Dego/Cousin Cockroach, Mark Force, e i primi lavori nell’ambito di volti nuovi come Nubian Mindz e Domu. Proprio con quest’ultimo Crivellaro avvia, sotto il già rodato pseudonimo Volcov, una collaborazione: dopo alcune release a doppio nome, questa sfocia nel progetto Rima, e nell’album “This World” uscito nel 2003 per Compost. Nato dalla comune passione per la fusion di Flora Purim, del marito Airto Moreira, dei Return To Forever, “This World” cerca di rileggerne alcune caratteristiche (fra cui, dichiaratamente, “una certa ridondanza”) in base alla sensibilità dei due artisti. Si tratta di un disco fra i più variegati emersi in campo broken beat, grazie sia alla volontà di spaziare dei titolari e al loro modus operandi (alcuni brani sono curati dall’uno, altri dall’altro, certi sono creati insieme a Londra, altri ancora ottenuti rimbalzandosi i file da un lato all’altro della Manica), sia al vasto inventario di ospiti chiamati a partecipare. L’onnipresente Mark De Clive-Lowe, le vocalist Julie Dexter (già in “Download This” di New Sector Movements) e Nicola Kramer (collaboratrice ricorrente di Domu), il promettente talento future jazz Georg Levin (con un album in uscita quell’anno su Sonar Kollektiv), personaggi sui generis del giro bruk come Ian O’Brien e Colonel Red (di entrambi si dirà più avanti): ciascuno degli artisti coinvolti porta la sua musicalità e arricchisce il quadro variopinto del disco. A inizio anni Duemila, Crivellaro crea una seconda label, Neroli, e rientra in Italia: orientata a produzioni meno concettuali, l’etichetta pubblica fra le altre cose le prime uscite di Crivellaro a nome Isoul8, più legate alla deep house che al broken beat. L’album, “Balance”, arriva nel 2006 e, sebbene distante a livello stilistico dal West London sound, vede la partecipazione di figure note della scena, tra i quali Kaidi Tatham nella traccia finale. Nel frattempo, Crivellaro si è stabilito a Milano e ha avviato una serata mensile al centro sociale Pergola, dove porta a suonare un notevole campionario di personaggi di punta del panorama.

Uno sguardo a questi tre expat in terra albionica ha portato a incontrare ulteriori musicisti locali, associati alla scena ma precedentemente esclusi dall’analisi. Vale la pena dunque di guardare meglio fra gli artisti britannici, a partire proprio da quelli già menzionati.
Domu è Dominic Stanton, originario di Bedford. Esordisce su Reinforced, e adotta successivamente il suo pseudonimo più noto per contraddistinguere le produzioni di stampo broken beat. Dopo numerose tracce, nel 2001 esce su 12 pollici per 2000 Black “Save It”, che si afferma nella scena per la personalità del suo schema ritmico con clap sintetico in anticipo sul beat. Lo stesso anno arriva anche il primo album, “Up + Down”; nel 2005 invece è il turno del successivo “Return Of The Rogue”. Entrambi sono editi dalla Archive dell’amico Crivellaro. In mezzo c’era stato, fra le varie cose, “Enter The Umod” (a nome Umod) pubblicato nel 2004 per la Sonar Kollektiv dei Jazzanova. Lo stile proposto da Domu in questi album ha nel flusso e nella costruzione dei beat una componente hip-hop peculiare, particolarmente vistosa nel disco di Umod che risente degli influssi acquisiti dal musicista durante una permanenza negli States.
Nei suoi lavori svettano anche le collaborazioni, che coinvolgono altre figure di interesse. Le voci, spesso strettamente legate alla scena: Rebecca Pottinger alias Rasiyah, Valerie Etienne e soprattutto la cantante Nicola Kramer, che collabora anche coi Jazzanova (“Let Your Heart Be Free”, 2004, su Sonar Kollektiv). Nel 2007 Kramer dà alle stampe un album, “The Other Side”, prodotto proprio da Domu: è un gustoso connubio di broken beat e downtempo, leggero ma avvolgente anche grazie al canto dal gusto jazz (raccomandato per chi apprezza gli Zero7). Significativo anche il personaggio di Ian O’Brien, originario dell’Essex ma ora residente in Giappone, studente accademico di musica folgorato dai Weather Report. Convertitosi alla jazz-techno di stampo Underground Resistance (notevole “Desert Scores“, del 1997, con un uso di tempi dispari piuttosto anomalo nel campo), giunge con “Gigantic Days” (1999) e poi “A History Of Things To Come” (2001) a una formula ibrida, notturna e suggestiva, non propriamente broken ma comprensibilmente apprezzata nella scena.

1581Fra le voci femminili, anche Vanessa Freeman ha una posizione di rilievo. Attiva da metà anni Novanta, incide con 4Hero, Nathan Haines, Agent K (Kaidi Tatham), Alex Attias, Mark De Clive-Lowe, Bugz, Pepe Deluxé (compagine finlandese oggi nota in campo prog, ma allora dedita a un singolare ibrido trip-hop/big beat). Il suo debutto solistico, “Shades”, risale al 2004, si muove tra soul e downtempo, ma acquista una netta spinta broken beat grazie alla produzione di Phil Asher e e al supporto di sessionmen di alto profilo come Kaidi Tatham, Mark De Clive-Lowe, Rasiyah.
Fa invece storia a sé il caso di Ursula Rucker, poetessa e spoken word artist di Philadelphia che, dopo aver lavorato già a metà anni Novanta con i Roots, avvia nel 1997 una collaborazione con i 4Hero che la porta a prestare la sua voce in tutti i loro album ascrivibili al broken beat e a incidere con i Jazzanova sul loro debutto “In Between”. I suoi dischi solistici non sono integralmente accostabili al filone, ma entrambi gli artisti compaiono nel suo secondo album “Silver Or Lead” (!K7 Records, 2003) e i 4Hero sono presenti anche nel precedente “Supa Sista” (!K7 Records, 2001).

Fra i vocalist che maggiormente hanno contribuito alla scena in qualità di ospiti vi sono Marcus Begg/Ne-Grove e Ovasoul7, a proprio agio soprattutto in contesti soulful, e il brillante rapper di San Francisco Capitol A. Pur comparendo in moltissime collaborazioni, alcuni di loro non hanno rilasciato alcuna opera puramente a proprio nome; Colonel Red tuttavia (pseudonimo di Nicholas Romillie) è sui dischi di Beatless, Alex Attias, Rima, Bugz, ma nel 2005 si autoproduce su People l’album “Blue Eye Blak”, ospitando Rasiyah in alcune tracce. Si tratta di un disco nu-soul dal caldo piglio funk, a cui Romillie dà un’azzeccata connotazione bruk curando in modo certosino la programmazione delle parti ritmiche. Ancora in campo nu-soul, merita senz’altro l’approfondimento il percorso del londinese Omar Christopher Lye-Fook, in arte Omar. L’album attinente al discorso è “Sing (If You Want It)”, del 2006: un disco elegante e screziato, che applica le chiavi ritmiche broken a influssi disparati come hip-hop, bossa nova, soul orchestrale e salsa. Suonato in larga misura dallo stesso Lye-Fook, ospita in una traccia IG Culture e Pino Palladino, in altre Stevie Wonder l’apprezzato jazz-rapper statunitense Common, e rappresenta nel complesso un efficace ricongiungimento tra due diverse scuole "slittatrici di accenti" nella musica dei primi anni Duemila: il West London sound e l’approccio behind the beat figlio di D’Angelo (con Palladino fra i principali artefici). Anche l'avvicinamento agli stili latin tratto ricorrente in questo disco come in altri del filone ha un suo importante perché sul piano ritmico, dato che il quid del broken beat sta nel sovrapporre più metri e nel posizionare gli accenti forti fuori dalle posizioni consuete nella musica anglosassone. Le musiche basate sui ritmi clave cubani e sulle sincopi del samba brasiliano hanno esplorato per decenni entrambi gli elementi con scrupolosità e forniscono dunque un ricco archivio di possibili ispirazioni.

Sempre da premesse soul/r'n'b si muove la proposta dei Silhouette Brown, ovvero Dego, Kaidi Tatham e Bémbé Ségué (ma la voce principale nei pezzi è della cantante Deborah Jordan). Il debutto omonimo, del 2005, punta su un mood rilassato e toni melliflui, con qualche accento downtempo rintuzzato dagli immancabili ritmi rotti — qui invero più rassicuranti che mai. Sospeso su un’insospettabile nuvola lounge/dub/bossa cantautorale, l’esordio omonimo di Tom Noble (Laws Of Motion, 2003) è un altro interessante disco di confine, con beat – più o meno rotti – programmati da Noble, Kaidi Tatham al flauto qua e là, e Daz-I-Kue in cabina di regia. Sguazza invece fra jazz-funk, ritmi hip-hop (ancorché spezzati) e canto di impostazione soul il debutto su Lp di Sean Khan alias Sk Radicals, “When Will Be Belong?” (People, 2001): sassofonista jazz, Khan si appoggia alla programmazione ritmica di Daz-I-Kue e al supporto tastiersitico di Mark De Clive-Lowe e Kaidi Tatham per realizzare un album multiforme che include anche una traccia prodotta (anzi, remixata) da Volcov.
Anche il progetto Positive Flow, capitanato dal produttore e polistrumentista britannico Jesse Reuben Wilson, parte dal nu-soul nelle sue vesti più soft e funkeggianti: giunto al secondo album “Positivity” (2006), ha però allargato lo spettro includendo ritmi spezzati in abbondanza, sempre ben amalgamati in una tavolozza decisamente smooth. C’è poi il caso di Simbad, cioè Pierre Louis Stanislas Renouf, producer francese di stanza a Londra: parte organica della scena fin dal suo principio, nelle sue release maggiori presenta uno stile molto soulful in cui l’elemento broken appare soltanto in filigrana. Andando ad ascoltare i suoi contribuiti a “Snert” degli Audiomontage (sassofono e scrittura proprio in alcuni degli episodi broken del disco, uscito nel 2000) o i suoi dodici pollici “Peaktime” (2004) e “Sweet Exorcist/Gospel Golpe” (2005) la sua dimestichezza con gli offbeat appare però evidente.
Una menzione va senz’altro anche agli album pubblicati dagli Spacek, in particolar modo il secondo “Vintage Hi·Tech”, uscito su !K7 Records nel 2003: un ballonzolante broken funk, fra il pachidermico e l’etereo, che brilla per la creatività dei beat programmati anche se, nel complesso, rischia di risultare più accattivante per il sound che per la scrittura. Mancanza di direzione a parte, con le uscite precedenti della band immediatamente precedenti segna l’inizio dell’articolato percorso artistico di Steve White/Steve Spacek, che nei decenni a seguire diventerà uno dei principali prosecutori e portanbandiera dello stile bruk.
Spostandosi in campo strettamente hip-hop, più di un progetto ha giocato sull’incorporazione di elementi broken beat (d’altra parte, il filone ha sempre avuto l’hip-hop fra le sue radici). Uno degli esperimenti più credibili risponde al nome di Breakthrough ed è la creatura di tre nipponici (Daisuke Nakagawa, Jin Yamamoto, Masaya Kobayashi). Appoggiandosi alla solita cricca di broken beater d’alto bordo (De Clive-Lowe, Demus, Bémbé Ségué) e a un ampio cast di Mc anglofoni e non, i tre collezionano nell'album omonimo del 2005 venti e rotte tracce di jazz-rap solido e variegato, con abili giochi d’accenti stile bruk e qualche venatura proto-wonky alla Dilla. L’influenza di Jay Dee è importante anche per le scelte produttive di “Upwards” e “Closer” di Ty (2003 e 2006 rispettivamente): nei due brillanti album, con contributi di Mpho, Eska, Bémbé Ségué e del fiatista Jason Yarde, il flow limpido ma fantasioso del rapper si snoda alternativamente su basi dai tratti broken, o rivolte a un jazz-hop più dritto, o marcatamente unquantized, e perfino su un numero afrobeat costruito da Tony Allen in persona.

Finn Peters è un sassofonista e flautista di estrazione jazz, laureato in musicologia. Fin dal primo Ep a nome New Sector Movements collabora con musicisti del giro Goya, e nel 2005 rilascia l’album “Bansuri” con il progetto omonimo. Mixato da Matt Lord dei Bugz, oltre alle voci di Eska e Bémbé Ségué vede i contributi di Tom Herbert (futuro componente di Acoustic Ladyland e Polar Bear, nonché figura ricorrente del panorama nu jazz londinese) e Tom Skinner (Sons Of Kemet, Melt Yourself Down, The Smile) alla batteria. L’anno successivo, per il debutto a proprio titolo “Su-Ling”, sia Herbert che Skinner torneranno in gioco, con l’aggiunta di Dave Okumu alla chitarra. Proseguendo, ci sarà modo di incontrare nuovamente tutti e tre i personaggi, ma per intanto bastino due pezzi (“La guerre” e la title track) sul secondo album “One Step Forward” (2003) del progetto nu-soul Les Nubians. Nei due brani delle sorelle Hélène e Célia Faussart compaiono infatti: Finn Peters, Bémbé Ségué, Dave Okumu, Tom Herbert, per la produzione di IG Culture e il mixaggio di Demus.
Peters declina in una chiave fortemente jazz le intuizioni ritmiche bruk, inserendo la frammentazione metrica in un suono elegante e controllato, che si distanzia man mano dagli influssi funk e hip-hop degli artisti già esaminati e si rivolge invece al minimalismo, alla musica dell’Asia meridionale (“bansuri” è il nome di un flauto indiano) e a un’asciuttezza espressiva figlia del third stream. Fra le molte collaborazioni del musicista, svetta quella con il dj Tom Szirtes nel progetto Shur-i-kan: nel secondo album, “Waypoints”, uscito su Freerange Records nel 2004, Peters arricchisce col suo flauto le leggiadre costruzioni future jazz del produttore londinese, che si muovono fra broken beat e deep house svuotata.

ab67616d0000b273e121ad66c91b492c8475a82e1È ora il momento di avventurarsi in alcune delle uscite più progressive, o se si preferisce ibridate, inclassificabili, leftfield, prodotte nella Gran Bretagna di quegli anni. Se già il broken beat nasce e si sviluppa come territorio di frontiera, in queste realizzazioni esso diventa uno fra i tanti ingredienti di esplorazioni ulteriormente avventurose e ricombinanti. Un punto di partenza, che raccorda molti nomi già menzionati, è l’esperienza dei Two Banks Of Four, avviata a ridosso del nuovo millennio da Dillip Harris/Demus e Rob Gallagher/Earl Zinger, leader dei da poco disciolti pionieri acid jazz Galliano. Nell’arco di tre album, il progetto mappa un nuovo orizzonte musicale, che in “City Watching” (2000) ha il profilo di un jazzstep/downtempo fortemente immaginifico e astratto, ma espressivo, avvolgente e sempre molto materico sul piano dei timbri. Questo soprattutto grazie alla notevole personalità strumentale dei musicisti coinvolti, vero valore aggiunto del disco e del progetto: fra questi, il contrabbassista Andy Hammil, il sassofonista Chris Bowden e l’ex-tastierista dei Galliano, Ski Oakenfull. Nel successivo “Three Street Worlds” (2003) si fa avanti, solo in alcune tracce, una componente broken beat e il cast si aggiorna: entrano in gioco anche Valerie Etienne alla voce e, alternato a Hammil, il bassista Robin Mullarkey. Tra gli ospiti, anche il sassofonista Chris Bowden, che giusto nel 2002 aveva pubblicato su Ninja Tune l’album avant-jazz “Slightly Askew”, con influenze del filone. Il percorso dei Two Banks Of Four è molto elegante e immediatamente apprezzato dalla stampa appassionata di simili sonorità ricercate, ma è con il terzo album “Junkyard Gods” (2008, edito anche su Sonar Kollektiv) che il sodalizio ribattezzato 2bo4 tocca il proprio apice. Uscito purtroppo quando l’attenzione al bruk è ormai in fase calante, l’album è stellare fin dalla formazione: Demus e Zinger (ovviamente), Valerie Etienne, Bémbé Ségué, Ski Oakenfull, Finn Peters, Jason Yarde, Robin Mullarkey, Tom Herbert, Tom Skinner – una sintesi del fronte più jazzistico del broken beat presente, passato e futuro. Le composizioni sono ambiziose, articolate, ricche di inattese aperture e passaggi timbricamente totalizzanti. Il fondatore di Straight No Chaser, Paul Bradshaw, ne scrive: “Cercatevi ‘Junkyard Gods’ immediatamente: ci sono molteplici recompense nella twilight zone dei loro evocativi paesaggi urbani”. Volendo invece lanciarsi in improbabili accostamenti, si potrebbe immaginare un connubio fra ritmi y2k e una tavolozza stile Bark Psychosis, silenziosa ed esplosa. O a una ripresa (volontaria? del tutto accidentale?) di quell’equilibrismo che aveva caratterizzato la fase più matura del jazz-rock progressivo britannico (Nucleus, Neil Ardley, tardi Soft Machine), abilissimo a muoversi sul filo fra calcolo e focosità, spiritualità e distanza. Il paragone più pertinente sarebbe però, probabilmente, con la Cinematic Orchestra di Jason Swinscoe, con però un’enfasi sulla sperimentazione e sull’aspetto ritmico in luogo di quell’elemento carezzevole e suadente che (insieme all’accasamento su Ninja Tune) consente all’Orchestra di raggiungere una maggiore fama.
La transizione dei Two Banks Of Four dagli schemi post-jungle dell’esordio al sound ancora più ricco dei dischi successivi è anticipata da un altro progetto di Demus, intitolato Numbers e autore di un solo album, omonimo, uscito nel 2001 su Main Squeeze. Supportato anche in questo caso da Oakenfull e Mullarkey, Demus esplora qui un funk/soul/jazz dal suono vivo e caleidoscopico, facendo incontrare spunti afro dagli echi decisamente vintage con frammentazioni metriche e slanci contemporary jazz dal gusto assai più metropolitano.

brotherly202080edit1_01Mullarkey compie una fugace comparizione anche nel secondo album dei Robert Mitchell’s Panacea, “Trust” (2005). La formazione, che include anche la vocalist dei Silhouette Brown Deborah Jordan, è improntata a un jazz contemporaneo ma piuttosto ortodosso; la presenza del batterista Richard Spaven devia tuttavia su traiettorie broken in più di un brano. Oltre a Mullarkey, sullo stesso disco, sono ospiti anche Eska, il rapper Ty e Norma Winstone degli Azimuth, formazione di culto del jazz britannico dei tardi anni Settanta.
Il contributo più organico di Mullarkey alle elaborazioni bruk risiede però nel suo progetto personale, i Brotherly. Il loro primo album, “One Sweet Life”, esce nel 2007 e marca una delle pagine più arabescate dell’intero filone. In oltre un’ora di musica, il bassista e la pianista/cantante Anna Stubbs (entrambi diplomati in jazz in prestigiosi college of music) costruiscono un’alchimia sonora luminosa ed energizzante. Il supporto di Dave Okumu, Eska, Ty, Earl Zinger e Finn Peters – oltre che di una Mpc 3000 per le parti ritmiche – è essenziale per l’articolazione di un groove al tempo stesso funky e funambolico, capace di fornire alle serate CoOp uno dei loro tormentoni (“Put It Out”, uscita come singolo nel 2005) ma anche di definire un nuovo standard di complessità metrica. La traccia di apertura in particolare, “System”, è indicata ancora oggi come estremamente sfidante a livello batteristico, e a distanza di più di un decennio è stata oggetto di numerose reinterpretazioni e analisi su YouTube.

Spostandosi ora su un fronte crescentemente elettronico: Branwen Munn, gallese, adotta il nome d’arte Somatik ed è con i 4Hero nel loro apprezzatissimo “Creating Patterns”, del 2001. Collabora con Bémbé Ségué, Dego (in “This Ain’t Tom N’ Jerry”, dodici pollici a cui gli impallinati bruk assegnano un ruolo leggendario), Phil Asher, Alex Attias, DKD, Nu Era (aka Marc Mac dei 4Hero), Silhouette Brown, Mark De-Clive Lowe (per cui mixa “Tide’s Arising”) e infine trova l’occasione per un proprio album in proprio. “Learning The Colours” esce nel 2007 ed è interamente composto, suonato e prodotto da Munn. È un’uscita dal carattere decisamente sintetico, che senza rinunciare agli accordi fusion mette fra parentesi sia gli aspetti hip-hop che l’indolenza jazzistica delle prime produzioni del filone e punta invece al massimo sul piglio funk e il potenziale aggressivo dei suoni digitali.
Un altro coltivatore dei campi più electro nella mappa broken beat è Maddslinky, alias Dave Jones, alias Zed Bias – con questo pseudonimo anche pioniere dei campi Uk garage e dubstep. Fra la fine del millennio e l’inizio del successivo, suoi singoli con entrambi gli pseudonimi assottigliano la distanza fra i filoni, accentuando l’importanza degli offbeat nella transizione 2-step/dubstep e calcando il lato bass-driven del suono broken. Nella fase calante della popolarità del West London sound, la sua capacità di aprirsi ad altri stili gli consente di restare un nome di riferimento, e uno dei primi a cui circa un decennio dopo una nuova generazione di musicisti guarderà per riscoprire la tendenza. Il suo primo album “Make Your Peace” (Laws Of Motion, 2003) già presenta una miscela efficace: rimbalzi 2-step, fratture ritmiche ad effetto e sconquassamenti nelle basse frequenze perfetti per galvanizzare il dancefloor. È tendenzialmente più soulful e morigerato “Feel It Out”, dello stesso anno, uscito a nome Phuturistix in coppia con dj Injekta: cionondimeno, riesce a infilare un paio di bangers niente male, all’insegna di un frizzante garage con fiati in primo piano e beat spezzati.

Allargato ormai il campo ai producer dal taglio più elettronico, il discorso va incontro a ulteriori articolazioni. Specialmente in ambito house e techno, sono molti gli artisti che hanno preso a prestito qualche elemento per dare ai loro groove un sentore spezzato, anche senza alterarne profondamente lo schema di accenti. Senza voler elencare ogni singolo musicista che abbia aggiunto sfumature un po’ broken al proprio regolare four-to-the-floor, si proverà a evidenziare alcuni nomi particolarmente rilevanti, vuoi perché più spinti di altri nel flettere le strutture ritmiche, vuoi semplicemente perché spesso citati come riferimenti del settore.
Il contributo di alcune figure pionieristiche, come Ltj Bukem (Danny Williamson) e Nubian Mindz (Colin Lindo), non può essere messo a fuoco soffermandosi solo sulle uscite formato album, in entrambi i casi riconducibili al broken beat solo in modo tangenziale. Per cogliere il loro ruolo nella scena occorre guardare altrove: nel caso di Bukem, ad esempio, alla serie di compilation “Earth”, di cui il volume uno, uscito già nel 1996, colleziona brani downtempo, drum’n’bass, future jazz che danno un’impressione del brodo primordiale da cui avrebbe preso vita il primissimo bruk. Per Nubian Mindz sono invece dodici pollici come “Black Science” (Archive, 1999), “Interstellar Blackness” (2000 Black, 1999), “Forgotten Parts” (Archive, 2000) o “Check Da Vibe” (2000 Black, 2001) a render l’idea di un percorso che fa propri i giochi di offbeat muovendosi liberamente fra Idm, techno e drum’n’bass, creando così un modello per produzioni future.

r16161150641314353771Uno degli artisti più spesso associati all’etichetta broken beat in questo campo è Kirk Degiorgio alias As One, con un’apprezzata carriera in ambito techno che parte dai primi anni Novanta. Uscita dopo uscita, il producer si avvicina al future jazz, integrando nelle sue trame ambientali breakbeat asimmetrici: l’affascinante e vitale jazz-techno di “Planetary Folklore”, del 1997, può certamente essere visto come precorritore del broken sound tutto. Gli album “21st Century Soul” (Ubiquity, 2001) e “Out Of The Darkness” (Ubiquity, 2004) si avvicinano crescentemente a schemi bruk propriamente detti. Benché il disco più ricordato sia il primo dei due, il più variegato e completo è il secondo, con beat obliqui e mutevoli che, mantenendosi asciutti, si adattano a contesti distanti come hip-hop, fusion dilatata, r’n’b, Idm. “Elegant Systems”, del 2005, e il successivo “Planetary Folklore 2” (Archive, 2006) segnano un graduale allontanamento dalla corrente, con il secondo che nuovamente espande le proprie costruzioni ritmiche, facendo propria le lezioni del giro CoOp ma al tempo stesso superandole. Benché il broken beat rappresenti solo una fase dell’articolato percorso discografico di Degiorgio, la sua impronta e i suoi set sono d’ispirazione per decine di produttori dentro e fuori dall’ambito bruk.

Modaji, ovvero Dominic Hugo Jacobson, è fra i primi dj a partecipare al CoOp e uno dei componenti del team di produttori house Restless Soul. Come solista, è attivo dal 1997 con svariati dodici pollici su Laws Of Motion, che vedono il suo mix di future jazz, downtempo, lounge prendere rotte via via più frastagliate sul piano ritmico. Molte tracce di quella fase sono raccolte sul suo secondo album “Pre-Sets” (2000), fra cui quelle dell’Ep “Lost Soul” che l’anno prima aveva segnato – complice la presenza di Kaidi Tatham – il definitivo ingresso in campo bruk. Il primo album omonimo esce sempre nel 2000 su Laws Of Motion e accoglie, oltre a Tatham, anche una dose assai più massiccia di beat spezzati, in una produzione che resta comunque sospesa fra downtempo e deep house.
La “svolta bruk” nel percorso techno/house di Russ Gabriel arriva invece dalle parti dell’Ep “We Will Be Turning”, uscito nel 2001. Il pezzo è incluso poi nell’album “Into The Unknown” (2002), che mostra la sua personale declinazione della corrente con episodi più propriamente broken, affiancati a suadenti tracce jazz-house con percussioni latin e, spesso, un elemento funky ben in vista. Il successivo “The Other Side Project Volume One” (2004), uscito a nome Russ Gabriel’s Audio Spectrum, si addentra ulteriormente nei serpeggiamenti ritmici, conservando il mood leggero del disco precedente ma alzando la barra della futuribilità con traiettorie percussionistiche più imprevedibili, asciutte e sincopate.
Anche il leggendario duo ambient electronica Global Communication, formato da Mark Pritchard e Tom Middleton, flirta con le sonorità broken: dopo qualche esperimento del solo Pritchard nel 2004 sull’album a nome Troubleman, nel 2006 viene registrato il live mix “Fabric 26”, che alterna sezioni ritmicamente più pacate a episodi ad alto grado di segmentazione del beat (con pezzi di As One, Shur-I-Kan, Steve Spacek). Di lì a poco, Pritchard tornerà alla carica proprio con Steve Spacek nelle frammentazioni ritmiche del progetto Africa Hitech, esaminato più avanti nell’articolo.
Una delle rielaborazioni più organiche del filone è legata infine a Martin Iveson ovvero Atjazz, personaggio di primo piano con un album e molte uscite brevi fra techno e jazzy house sul finire degli anni Novanta. Il percorso sfocia nel 2000 nel singolo bruk “Touch The Sun” e, l’anno immediatamente successivo, nel secondo Lp “Labfunk” che lo contiene. Album e traccia mostrano una mutazione ricombinatoria dei robusti beat tech-house di alcune sue precedenti produzioni, e al tempo stesso una maggiore enfasi sulle sfumature jazz, con contributi fiatistici del polistrumentista Peter Wraight (poi contattato da vari altri artisti del giro). Asciutto e sfaccettato nel suono, il disco suona al tempo stesso caldo e astratto, pienamente deep house ma dotato di un’anima propria che lo distingue da ogni altra release nel settore. Nel 2007 “Full Circle” (che segue il remix album “LabResults”, del 2002) segna un parziale allontanamento dal bruk, ma conserva l’approccio personale al beat, giocando su nuove riconfigurazioni che vedono peraltro il producer dialogare con altri personaggi significativi della scena europea, fra cui Clara Hill ed Ernesto, che saranno approfonditi a breve.

Parte due: Altre latitudini

Germania

Salpando per esplorare le scene sviluppatesi fuori dal Regno Unito, la prima tappa è necessariamente Berlino. È qui che è attivo il collettivo Jazzanova, la formazione più esemplificativa della “via tedesca” al broken beat. Più ancora che nella variante britannica, qui gli artisti mettono al centro la remix culture e sfumano i confini fra generi. Devoti della contaminazione e del piede in due (o ben più di due) scarpe, i protagonisti della scena incidono dischi che spesso sono difficili da classificare in toto come appartenenti al filone, perché simultaneamente ne portano avanti anche altri: distinguere fra downtempo, house, lounge e broken beat diventa il più delle volte pretestuoso, perché il quid della sensibilità sviluppata da questi musicisti sta proprio nel trattare questi stili come una cosa sola. I loro progetti si articolano su continue e vicendevoli rielaborazioni in formato singolo, Ep, remix album, mixtape. Soffermarsi solo sul classico studio album, insomma, restituirebbe una visione molto parziale dell’effettiva vitalità della scena – il cui orizzonte non si arresta alla capitale ma abbraccia diverse altre città del paese, e ha come riferimento in termini di clubbing il Bugaloo di Pfarrkirchen, in Baviera.

jazzanova1I Jazzanova nascono nel 1995 come team di sei dj: Alexander Barck, Claas Brieler, Jürgen Von Knoblauch, Roskow Kretschmann, Stefan Leisering e Axel Reinemer. Il nome è tratto dal titolo dell’unico album dell’Ira Kris Group, episodio latin jazz inciso a Monaco di Baviera e pubblicato nel 1972 (un primo segno dell’attenzione dell’ensemble di dj berlinesi al jazz storico e agli stili sudamericani).
Nel 1996 i sei iniziano a dedicarsi alla produzione, principalmente per disporre di nuove tracce da inframezzare alle selezioni dei loro set. Nel 1997 creano una propria label, Sonar Kollektiv, e l’anno successivo un’ulteriore etichetta – Jazzanova Compost Records – in collaborazione con la tedesca Compost Records. Inizialmente, la seconda è orientata a sonorità più jazzistiche mentre la prima si concentra su produzioni elettroniche; nel tempo, però, i Jazzanova scelgono di concentrarsi solo su Sonar Kollektiv e nel 2003 pongono fine alla joint venture con Compost.
Il metodo di lavoro della band prevede che su ciascun pezzo si affianchino un membro in qualità di “dj” e uno in qualità di produttore: gli altri partecipano con commenti. Da questo modus operandi scaturisce un solo album propriamente detto che sia ascrivibile pienamente al filone broken beat: il primo Lp “In Between”, uscito su Jazzanova Compost Records nel 2002. Interamente basato su sample e sulla programmazione in software di sequencing, è uno dei massimi traguardi del filone, denso di collaborazioni e soprattutto di brillanti guizzi creativi. Zigzaganti e multisfaccettate, raramente le tracce si concludono con le stesse vibe su cui si erano aperte – non senza aver inanellato una buona rassegna di sorprese, quantomeno. I molteplici ospiti, alcuni già incontrati (Ursula Rucker, Valerie Etienne, Rob Gallagher, Capitol A) e altri che andranno approfonditi (Clara Hill, Hajime Yoshizawa, Vikter Duplaix) si avvicendano su tappeti ritmici che sono un continuo gioco d’incastro, spesso storto ed enigmatico, ma sempre eccezionalmente groovy.
Sia nelle uscite precedenti (gli Ep omonimi del 1997 e del 1998) che negli album successivi gli stili predominanti sono altri, ma il personalissimo broken beat della band è ben rappresentato nella compilation “The Remixes 2002-2005” (Sonar Kollektiv, 2005) e nel mixtape “...Broad Casting From OFFtrack Radio” (Sonar Kollektiv, 2007). La prima raccoglie ricombinazioni di artisti variegati come Masters At Work, Calexico e Free Design; la seconda vede i Jazzanova affiancati da Dirk Rumpff, producer e organizzatore di serate a Marburgo, Monaco e Berlino. Rumpff è anche speaker radiofonico e la raccolta trae ispirazione proprio dalle scalette del suo appuntamento bisettimanale “OFFtrack”, ospitato da una delle prime web radio. Nella selezione molti nomi significativi del giro Sonar (Outlines, Slope, Deyampert, Clara Hill) e uno spettro che va dal bruk fatto e finito al peculiare ibrido folktronica/modern classical del compositore Volker Bertelmann/Hauschka. “Remixed” (Sonar Kollektiv, 2003), infine, capovolge la prospettiva: questa volta, i “remixati” sono i Jazzanova, lungo più di due ore di musica che propongono i pezzi della band in nuove versioni elaborate da artisti chiave del filone e, insospettabilmente, pure dagli Stereolab.

Irradiando l’attenzione dai Jazzanova, è possibile raggiungere pressoché tutti i principali personaggi della scena tedesca. Fra i primi a incontrarsi è Clara Hill, cantante berlinese con un un retroterra acid jazz ma propensioni solistiche orientate a una sorta di cantautorato folk/r’n’b. Il suo primo album, “Restless Times”, esce nel 2004 su Sonar Kollektiv e coinvolge nella realizzazione buona parte dei Jazzanova. In particolare, le basi di pressoché tutti i pezzi sono programmate da Stefan Leisering, mastermind del collettivo berlinese, che mette a punto per il disco un mood rilassato ma seducente, con Bpm medio/bassi resi intriganti da anticipazioni e irregolarità di accenti. Nel secondo “All I Can Provide” (Sonar Kollektiv, 2006) l’artista è invece affiancata da svariati altri producer del giro, per un disco che smuove corde emotive analoghe al predecessore, ma nel complesso presenta beat meno frastagliati. Ancora più intimo e soffuso “Sideways” (Sonar Kollektiv, 2007), inciso a nome Clara Hill’s Folkways: la formula tutta orientata all’acustico è intrigante, ma a questo punto di broken c’è davvero poco, nonostante la partecipazione in una traccia di Marc Mac dei 4Hero.
Indagando i percorsi dei singoli membri dei Jazzanova, si incontrano altri progetti stimolanti. Ad esempio i Kosma, suggestiva esperienza borderline condotta in solitaria da Roscow (all’anagrafe Thomas) Kretschmann. Attiva già da metà anni Novanta con un future jazz umbratile e virato downtempo, la one-man band inizia a integrare alcuni schemi broken col secondo album “Early Works” (2002), ampliandone infine la presenza nel conclusivo “News Aspects”, del 2005. Qui il sound è particolarmente immaginifico ed espanso, con coloriture orchestrali, elementi mediorientali e perfino interventi operistici, sempre debitamente diradati: ne emerge una musica in cui la costante vocazione atmosferica dialoga con un’agitazione strisciante, alimentata dall’imprevedibilità e dall’importanza della componente ritmica.
È significativa anche la traiettoria degli Extended Spirit, creatura di Reinemer e Leisering, che compaiono in diversi featuring su dischi legati alla scena: il loro unico album, “Solid Water” (1999), ne cattura il sound in un’interessante fase pre-bruk, in cui ritmi drum’n’bass mostrano segni di disgregamento e ricombinazione, per il momento rivolti a un downtempo/jazzstep soffuso ma sottilmente carico di tensione. Proprio gli Extended Spirit, oltre che in autonomia lo stesso Leisering, saltano fuori sull’unico album di Deyampert, “Shapes & Colors”, uscito per Sonar Kollektiv nel 2003. Ex-militare statunitense di stanza in Germania, studia alla sede di Mannheim dell’università del Maryland e, dopo una parentesi in Australia, si dedica alla produzione musicale realizzando quest’album dai colori soulful e dalle ricche orchestrazioni acustiche. I ritmi rotti non sono certo l’ingrediente principale della formula, ma compaiono con naturalezza in alcune tracce aggiungendo una dimensione futuristica al sound.

a1861250479_101L’altro nome di peso della scena tedesca è quello dei Beanfield, ovvero Michael Reinboth, Jan Krause e Tobias Meggle, tutti e tre basati a Monaco di Baviera. Michael Reinboth è il proprietario di Compost Records ed è lì che da metà anni Novanta la band pubblica tutte le sue uscite. La prima a mostrare chiari tratti broken è, già nel 1999, il secondo album “Human Patterns”: undici tracce di deep house astratta e jazzy, in cui i groove arzigogolati e ricchi di slittamenti sono elemento di primo piano nell’alchimia dei pezzi. Il successivo “Seek”, del 2004, mantiene la personalità del trio, sviluppando efficacemente la componente ritmica in una direzione forse meno intricata, ma più incisiva e capace di spingere. In entrambi i dischi è ospite la voce di Bajika, poetessa e cantante di origini indiane (ma cresciuta fra Portogallo e Sudafrica), che nel 2010 sfrutta il proprio album (“In Wonderland”) per fondere acid jazz, timbri acustici e occasionali fratture ritmiche.
Esce nel 2004 su Compost anche l’unico album a nome Wei – Chi, ovvero l’americano Raoul Walton, trasferitosi in Germania e messosi in combutta col producer Ben Mono (Paul Beller, con un altro Lp all’attivo su Compost) per realizzare il disco. Prodotto prevalente da Ben Mono, ma in due tracce anche dai Beanfield, “One Eye, Two Eyes” dà un solido taglio electro-house alla materia bruk, caricando i bassi e linearizzando i ritmi (senza perderne il passo zoppo).
Decisamente più posato il duo di Asburgo Les Gammas, il cui unico album “Exercices de styles” (Compost, 2000) coinvolge Jan Krause come ingegnere del suono e si orienta a un jazz/lounge elegante e confortevole, con qualche incursione in una cinematografica spy music che adotta di buon grado ritmi spezzati per aumentare il dinamismo delle tracce.

Le ricostruzioni del tempo pongono al centro della scena anche i Trüby Trio di Rainer Trüby, Roland Appel e Christian Prommer. Il terzetto di Friburgo pubblica un solo album, “Elevator Music”, uscito su Compost nel 2003, che, pur presentando solo in poche tracce gli stilemi del broken beat, fa ben comprendere il perché dell’associazione: fra echi flamenco, bossa nova e afro-cubani, il loro nu jazz dal gusto latino e live è tutto giocato su accenti ritmici spostati rispetto ai canoni anglosassoni. Le collaborazioni in termini di remix con altri artisti del giro e il “Dj-Kicks” uscito già nel 2001, con brani di Afronaught e Modaji, conferma l’interesse del gruppo per il bruk e sottolinea come peculiarità proprio il suo collocarsi con un piede dentro e uno fuori.
Friburghesi pure gli Intuit, duo di producer dediti a una formula di pura fusion: il debutto omonimo (Compost, 2004) contempla uno stuolo impressionante di jazzisti, fra cui Airto Moreira e Flora Purim. Solo una parte delle tracce presenta ritmiche spezzate, ma il disco, che spazia dall’afrobeat al funk al latin jazz, presenta una sua ammirevole coerenza.
Un altro progetto a cui la stampa dell’epoca dedica attenzione sono gli Inverse Cinematics del produttore e dj di Stoccarda Danilo Plessow (più noto invero col moniker alternativo Motor City Drum Ensemble). La sua produzione è costituita da alcuni brillanti dodici pollici ed Ep di bruk/house inventiva e tagliente (“Slow Swing”, “Shoot The Pianist”, “Detroit Jazzin’”, “Airways”, “Ep 1”), dall’"Ep lungo" “Vogelhaufen” (2005) e dall’album “Passin’ Through” (2008), in cui compaiono anche alcuni dei materiali precedenti – assieme a tracce nuove più orientate all’hip-hop.
È di Berlino invece il duo Slope, con due album usciti su Sonar Kollektiv. Il più pertinente è “Komputa Groove”, del 2005: un ibrido house/hip-hop con interventi di Clara Hill e Ovasoul7, e un elastico spin dato ai beat dal ricorso ad anticipi e accentazioni inusuali. Un’ultima esperienza di confine, e dunque di difficile classificazione, risponde al nome [re:jazz] e ha come regista il dj e pianista jazz Mathias Vogt, di stanza a Francoforte. Le release principali del progetto sono reinterpretazioni in chiave jazz di brani elettronici; accanto a queste uscite, tuttavia, Vogt cura anche remix album in cui le reinterpretazioni sono ulteriormente rimescolate da producer deep house e broken beat. Sul primo “Re:mix” (2003) compaiono fra gli altri Nicola Conte, Les Gammas, Russ Gabriel; su “Electrified” (2010) è invece la volta di Shur-I-Kan e Atjazz, oltre che dello svedese Swell Session (già presente sul “Re:mix”).

Giappone

kyotoa6new375x4951Partendo alla volta del Giappone, occorre un nome di riferimento, e questo è certamente rappresentato dai Kyoto Jazz Massive. Il gruppo è fondato nel 1992 da due fratelli producer, Shuya e Yoshihiro Okino, fan degli Steely Dan, seguaci del rare groove e della fiorente scena acid jazz giapponese, diretta continuazione della fusion dei decenni precedenti. La loro vicenda si lega fin da principio a quella della scena britannica: è infatti il dj radiofonico Gilles Peterson a indicare al duo il suo futuro nome, in occasione di una tournée giapponese dei Galliano, firmando un autografo con un nomignolo scherzoso. Ed è lo stesso Peterson, qualche anno più tardi, a promuovere la musica della band nel Regno Unito, in sinergia con quella degli esponenti del West London sound.
La prima uscita, nel 1994, è una compilation di musica acid jazz e jazz-rap, parzialmente prodotta o remixata dai fratelli. Anche quando i due iniziano a realizzare musica propria, sempre avvalendosi di esperti jazzisti fra cui in particolare il tastierista Hajime Yoshizawa, la componente acid jazz resta predominante, così come l’ammirazione per esperienze funk/fusion di poco precedenti come la United Future Organization di Raphael Sebbag, Toshio Matsuura e Tadashi Yabe. Attorno al 2000, elementi broken beat iniziano a farsi avanti nei pezzi: l’Ep “Substream” (Compost, 2001) contiene ben due remix di Afronaught, ma già la traccia omonima presenta un ritmo discretamente sincopato. Le realizzazioni dei primissimi anni Duemila formano la base del primo album comunemente inteso, “Spirit Of The Sun”, nei cui crediti figurano Alex Attias, Vanessa Freeman e Hajime Yoshizawa. I due fratelli si occupano della direzione e della programmazione, innervando l’elegante stile fusion dei musicisti coinvolti di scintillanti e futuribili fratture ritmiche.
A loro agio soprattutto nella curatela e nel djing, i due si impegnano successivamente soprattutto nell'avvio della propria etichetta Especial Records, nata nel 2000, e nella compilazione di selezioni, fra cui due raccolte di cover e remix di propri brani realizzate da importanti nomi dell’ambito: “Re Kjm (Tribute Tracks)” e “By Kjm (Remix Tracks)”, del 2004 e del 2005.

È su Especial che si incontrano le altre figure principali della scena broken beat nipponica. Fra di esse, alcune delle produzioni solistiche di Hajime Yoshizawa e gli album dei suoi Sleep Walker. Questi ultimi sono un quartetto di jazzisti: oltre a Yoshizawa, che si occupa delle tastiere, si tratta di Fujii Nobuaki alla batteria, Masato Nakamura al sax e al flauto, e Tomokazu Fujimoto al basso (dal secondo album sostituito da Kiyoshi Ikeda). Il loro stile è una fusion fluida e dalla verve nettamente bebop, con ampi passaggi cantabili e virtuosistici. Gli influssi broken beat emergono solo attraverso il drumming vorticoso di Nobuaki, che mantiene un’impostazione jazzistica e swingante, ma gestisce gli accenti in maniera disinvolta e spesso sorprendente, coniugando bossa nova ed echi dei club londinesi. Tre gli Lp pubblicati: “Sleepwalker” (2003), “The Voyage”, (2006, con ospiti Bémbé Ségué e Pharoah Sanders) e infine “Works” (2007, ancora con Bémbé Ségué e alcune tracce di altri artisti, remixate dagli Sleep Walker).
Nella carriera di Yoshizawa, ha ricevuto attenzione in particolare l’album del 2005 “Music From The Edge Of The Universe”, in cui i beat spezzati balzano spesso in primissimo piano grazie al programming certosino del compositore. Energico, arioso e variopinto, il disco presenta un interplay sfolgorante e un cast di ospiti che comprende compagni degli Sleep Walker, i sassofonisti Jason Yarde e Nathan Haines, Vanessa Freeman, e la cantante Akiko (per la quale Yoshizawa aveva firmato un remix decisamente bruk del tema di "Lupin III", incluso nel suo primo album “Upstream”).
Il percorso degli Sleep Walker si interseca ulteriormente con i Tokyo Jazz Massive in un bizzarro progetto di Shuya Okino condotto a suo nome. L’album “United Legends”, del 2006, raccoglie Clara Hill, Phil Asher, Bugz, Domu, Mark De Clive-Lowe in un esperimento di creazione collaborativa assai interessante sulla carta ma nei fatti piuttosto insipido (sarà la sostanziale assenza di beat spezzati?). Più riuscito l’album di reinterpretazioni jazz a cura degli Sleep Walker, pubblicato nel 2007.

8174y4jy58l._uf10001000_ql80_1L’ultimo nome di primo piano del panorama giapponese è Jazztronik, al secolo Ryota Nozaki, dj, pianista e producer originario di Kawaguchi, città nell’hinterland poco a Nord di Tokyo. Da poco diplomato in teoria musicale e composizione al Nihon University College Of Art, nel 1999 pubblica il suo primo album “Numero Uno” affermandosi anche in Europa come uno dei maggiori esponenti del club jazz mondiale. Il suo nome è legato al fenomeno broken beat soprattutto da “Samurai”, brano uscito come singolo nel 2004 e contenuto nel suo quinto album “七色” (2004). L’espressione “nanairo” che fa da titolo corrisponde in giapponese ai sette colori dell’arcobaleno: una scelta azzeccata vista l’ampiezza di spettro e il carattere splendente della musica che compone il disco.
Avvicinatosi al jazz grazie ai Return To Forever e alla musica elettronica attraverso la Yellow Magic Orchestra, Nozaki si mostra, in termini di gamma espressiva, in piena continuità con la luminosità delle sue ispirazioni. L’elemento arioso e la grande efficacia melodica sono le chiavi comuni del disco, e uniscono tracce di leggiadra fusion ed episodi più votati alla deep house, pezzi cantati in giapponese e altri in inglese dalle ambizioni più internazionali. La strumentale “Samurai - 侍” è una delle diverse incursioni del disco in campo broken beat, e non è difficile comprendere come il passo energico e la cantabilità dei suoi temi di piano e tastiere abbiano convinto il dj Gilles Peterson a spingerlo nelle sue playlist radiofoniche. “en:Code” (2005) è un altro album rappresentativo nella variegata discografia di Nozaki: quasi un’ora e venti di musica, in cui orecchiabilità e complessità si sposano a un piglio più che mai funky e ritmicamente elaborato. Lo stile è una house music progressiva e decisamente onnivora, che raccoglie i contributi diretti di Rob Gallagher, Valerie Etienne, Ski Oakenfull (in qualità di tecnico del suono), oltre che del leggendario cantante e compositore brasiliano Marcos Valle e (come programmatore addizionale) del dj e produttore house Yukihiro Fukutomi. Anche quest’ultimo svolge un ruolo nel quadro generale della scena nipponica: i suoi album “On A Trip” (2000), “Timeless” (2001) ed “Equality” (2004) includono in uno stile tendenzialmente upbeat e danzereccio una buona dose di break percussionistici inconsueti, anche se non propriamente spezzati. La restante parte dei dischi citati è dominata da handclap e ritmi piuttosto dritti, ma il dj è stato chiamato a remixare pezzi di Jazzova e [re:jazz], e suoi brani sono inclusi in autorevoli compilation ricapitolative del filone broken beat. Un segnale di come la categoria sia sempre stata sfumata, e specialmente allontanandosi dal centro la transizione verso altri stili si realizzi senza soluzione di continuità.

Svezia

Terza e ultima inevitabile tappa del tour comandato: Göteborg. La seconda città della Svezia, mezzo milione di abitanti grosso modo a metà strada fra Copenaghen e Oslo, è il luogo dove prende vita una scena piccola ma ricca e creativa – un fermento musicale che trova pure l’entusiasmo per darsi un nome: Gonkyburg. God + funky + Gothenburg, dove “god” è la parola svedese per piacevole, alla mano, da leccarsi i baffi. Un circolo dove tutti conoscono tutti, e almeno inizialmente il gusto del produrre e suonare fra amici supera di gran lunga lo slancio competitivo (con l’arrivo dei primi riscontri commerciali, le cose cambieranno).
Uno splendido articolo su Freer Sounds aiuta non poco a ricostruire le vicende della scena. L’inizio si può collocare alla fine degli anni Novanta, quando due giovani entusiasti della musica elettronica prendono in affitto uno spazio presso l’ex-fabbrica di burro di Redbergsplatsen, nella parte orientale della città, per farne il proprio studio di produzione. I due sono Joel Eriksson (in arte Jol) e Jonas Quant (che rilascerà musica con il solo cognome), e pare sia proprio Quant a proporre il nome che farà da bandiera all’intera scena: Gonkyburg Studios. La musica prodotta negli Studios risente fin da principio della passione per la musica britannica di quegli anni: il trip-hop, la drum’n’bass… Ma anche di ascolti più vintage come Vangelis, Grandmaster Flash, la techno di Detroit. E del nu jazz che Gilles Peterson propone nelle sue serate radiofoniche, che saranno un riferimento per molti artisti della nascente scena.
Il suono che va sviluppandosi, e che dall’inizio degli anni Duemila trova una sua personalità, è un ibrido assai variegato di house e downtempo, con molti elementi jazz sia nelle coloriture che nell’impiego frequente di strumentazione convenzionale, accanto ai consueti attrezzi del mestiere (software e hardware) del producer elettronico. Man mano che altri artisti di analoga attitudine vanno popolando le serate nei club della città, un ulteriore tratto distintivo emerge rispetto a scene similari in altre località del mondo: la centralità del songwriting, che non sfuma in flussi strumentali orientati soprattutto al dancefloor ma pone sempre la canzone come orizzonte. La musica di Quant, Jol, Swell Session, Hird, Ernesto, Plej, Cloud, Little Dragon, Nils Krogh e dei loro progetti collaborativi esce per label locali (Dot e Hollow Recordings le principali) o, soprattutto quando la scena inizia ad acquistare visibilità, per etichette di maggiore risonanza internazionale (la britannica Exceptional e DNM – Dealers Of Nordic Music, con sede a Stoccolma). Gli incroci di musicisti sono frequenti; chi canta, poi, tende a essere chiamato un po’ da tutti: le voci più richieste sono quelle di Ernesto/Jonatan Bäckelie, di Elsa Hedberg, di Mimi Terris e della nippo-svedese Yukimi Nagano. I beat spezzati sono uno dei tanti ingredienti del melting pot stilistico di Gonkyburg: per alcuni artisti un elemento essenziale, per altri invece una eco lontana, se non del tutto assente. Nella scelta dei nomi da approfondire, alle valutazioni qualitative è stata anteposta l’effettiva rilevanza rispetto al filone bruk (fatto presente questo, è comunque consigliato con convinzione l’ascolto di “Moving On” di Hird/Christoffer Berg, jazz/house calda e fredda al tempo stesso, e con Yukimi Nagano alla voce).

img_81011Quant è il primo artista del giro Gonkyburg a pubblicare. Inizialmente dedito alla techno, trova poi un suo stile con una fusione di house, downtempo, future jazz e elettronica melodica in un’area non distante dai Röyksopp. Sebbene sia uno dei nomi fondamentali della scena, le sue escursioni nel broken beat sono concentrate soprattutto in due dodici pollici, “Funkster Ep” (Hollow Recordings, 2002) e “Tryin’” (2004). Alcune tracce di quest’ultimo sono contenute anche nel secondo album “Getting Out” (2004), che contiene anche qualche altro episodio con ritmi fratturati.
Il percorso del sodale Jol è invece più vicino al filone fin dai primi singoli del 2000, e lo diventa ulteriormente con il dodici pollici “Cool Cat” (2002), contenente un remix di Swell Session. L’uscita dell’album “Moody Aow” (2003) aggiunge a rielaborazioni dei pezzi usciti precedentemente nuovi brani in uno stile decisamente bruk-oriented. Melodico e funky, ma al contempo denso di ombre e atmosfere piovigginose, il disco esemplifica gli aspetti più brillanti del Gothenburg sound di quegli anni. Un mix fantasioso capace di suonare in un sol colpo metropolitano e casalingo e, grazie a uno riuscito incontro di suggestioni, jazzy, vintage, ipermoderno.

Swell Session è il dj e produttore Andreas Saag, originario di Hönö, piccola isola nell’arcipelago antistante a Göteborg. Fin da piccolo suona il pianoforte, poi scopre il jazz e l’elettronica grazie alla passione del padre (che gli consente di utilizzare un computer Atari con Cubase per comporre le sue prime tracce). Si iscrive all’indirizzo musicale allo Hvitfeldtska gymnasiet, il liceo più grande e antico di Göteborg – lo stesso frequentato da buona parte della futura Gonkyburg. Si interessa alla techno e ai suoni Warp, poi entra in contatto con Quant e Jol e nel 2000 prende una stanzetta ai Gonkyburg Studios. Incontra anche Stefan Bede della label Dot, che ha il progetto di aprire una nuova etichetta, Hollow Recordings. Bede suggerisce di puntare su un sound più vicino al jazz, e Saag, che adora Herbie Hancock e ha seguito le prime uscite dei Jazzanova, inizia a lavorare su un suo sound ibrido. L’approdo al broken beat arriva solo qualche tempo dopo, ed è frutto di un viaggio a Londra con Jonatan Bäckelie, ospiti da un amico musicista. La scoperta del CoOp li convince che quello sia lo stile da perseguire. L’amico è perplesso – se hai già uno stile tuo, non ha senso copiare quello di qualcun altro! – ma quando nel 2002 i due pubblicano su Hollow Recordings il singolo “Let Me Decide”, è chiaro che la loro sintesi è tutt’altro che pedissequa. Il pezzo lancia due fisse del Saag-style: ritmi spezzati con echi tribal techno e piano Rhodes ultra-funky – qui giocato sulle ottave bassissime. La scena West London apprezza, e quelle stesse serate CoOp che hanno ispirato il brano fanno di Swell Session ed Ernesto nomi hype nell’ambito.
Negli anni immediatamente successivi, Saag è richiesto per vari remix (Shur-I-Kan, Jol, [re:jazz], perfino Ennio Morricone), perlopiù reperibili – insieme a “Let Me Decide” – su “Selected Singles & Remixes”, uscito nel 2010 sulla londinese Freerange Records. Il primo disco di Saag ad apparire sull’etichetta è il debutto del suo progetto electro/trip-hop Stateless, nel 2003. Supportato da tutte le voci chiave di Gonkyburg, l’album coniuga jazziness e grinta elettronica esplorando una declinazione downtempo del sound bruk di Saag che fino ad allora non aveva trovato spazio. Arriva invece nel 2007 l’album a nome Swell Session, “Swell Communications”: un’ora e dieci di musica che, ne fosse stato sforbiciato un trenta per cento abbondante, potrebbe essere un piccolo classico dei suoi anni. Chiamando a raccolta Domu ed Elsa Hedberg, l’ovvio Jonatan Bäckelie e Rob Gallagher, Masato Nakamura degli Sleep Walker e Mark De Clive-Lowe, Saag confeziona una quintessenziale mixed bag di pezzi privi di mordente e bombette bruk capaci di spaziare dal trip-hop al raggamuffin o a una versione alquanto spezzata di electro-swing.
Più omogeneo, ma anche con meno picchi, il debutto solista di Ernesto, intitolato semplicemente “Album” e uscito su Hollow Recordings nel 2004. Bäckelie produce o coproduce molti dei brani, ma nei credits compaiono tutti i nomi del Gonkyburg Studios, oltre che Mimi Terris (che suona la tromba in un brano). Diversificato e intimista nonostante i ritmi talvolta concitati, l’album presenta la sua buona dose di beat spezzati, ma non si incarta su un unico paradigma stilistico. Bäckelie d’altra parte ama variare, e ne è la prova la gamma geografica dei featuring che lo coinvolgono negli anni a seguire: solo fra 2004 e 2006 incide con Beanfield, [re:jazz], Yukihiro Fukutomi, Kyoto Jazz Massive, Swell Session, Atjazz.
Nel 2005 dà alle stampe su Exceptional “A New Blues”, bizzarro esperimento broken blues forse non pienamente riuscito, ma indubbiamente coraggioso; nel 2006 invece è la volta di “Find The Form”, che pur suonando ormai parecchio distante dal bruk coinvolge Seiji e Rob Mullarkey, Yukihiro Fukutomi, Atjazz, Mark De Clive-Lowe e Shuya Okino dei Kyoto Jazz Massive, oltre che Nils Krogh, Christoffer Berg/Hird, Elsa Hedberg e il solito Saag.

I primi successi modificano il clima di Gonkyburg: fra gli artisti si innesca una certa competizione, e nel tempo alcuni iniziano ad avere la sensazione di fare musica più che altro per compiacere i dj radiofonici (su tutti Gilles Peterson), nella speranza di riceverne un “lancio” verso migliori prospettive commerciali. Anche il ruolo dell’etichetta Dnm – Dealers Of Nordic Music contribuisce alla trasformazione: promuovendo singole tracce della scena all’interno di compilation “Nordic lounge”, allarga l’audience degli artisti ma al tempo stesso ne ricolloca lo stile, spingendo in una direzione più cool e preconfezionata. Il cambio di orizzonti è definitivo con il piccolo boom dei Similou, progetto pop di Jol e Erik Niklasson dei Plej: il loro singolo synth-pop “All This Love”, uscito nel 2004 su Dnm ma ristampato nel 2006 nel Regno Unito da una sublabel della Sony, raggiunge la ventesima posizione della classifica britannica. A quella data, comunque, la personalità e la coesione della scena avevano già iniziato da tempo a sfaldarsi. Gonkyburg, insomma, era già acqua passata.

ab67616d0000b273f8fccb76acde4f258768215e1Slegato dalla scena di Göteborg, ma connesso al panorama internazionale attraverso i Jazzanova e il solito Gilles Peterson, Erik Wahlforss (in arte Forss) è un interessante outsider del filone – destinato tuttavia a diventare una figura centrale nell’ecosistema della musica digitale: oggi è noto principalmente come cofondatore di SoundCloud assieme ad Alexander Ljung, concittadino di Stoccolma. All’inizio del millennio, per un anno Wahlforss gira l’Europa in treno, dorme da amici, campiona le collezioni di dischi e utilizza i sample per comporre musica sul suo laptop. Alle spalle ha già un accordo con Sonar Kollektiv, e a emergere da quell’esperienza è “Soulhack”, il suo primo Lp, pubblicato nel 2003. L’album è riuscito e originale: un singolare glitch-jazz fra i cui beat ricombinanti si possono stanare frammenti di Bill Evans e Herbie Hancock, Curtis Mayfield e Godley & Creme. Il taglio è chiaramente indipendente dagli stilemi e dagli influssi dominanti nel bruk, e proprio per questo particolarmente intrigante; sia lo slancio fusion che l’ossessione per le costruzioni ritmiche disassate e funky creano comunque un ponte che spiega facilmente sia l’interessamento dei Jazzanova che quello di Peterson, che vorrà Wahlforss sul suo palco al festival jazz di Montreaux nel 2003.

Stati Uniti (e Canada)

Non solo Regno Unito, dunque: anche Germania, Giappone, Svezia. Poi? In realtà, svariati altri paesi hanno avuto artisti attivi in campo broken beat. Per quel che risulta visibile oggi, tuttavia, questi non si sono costituiti in scene dai fitti rapporti interni, con etichette, radio, distributori, locali di riferimento. In diversi casi, sono riuscito comunque a connettersi alla rete globale degli interessati al filone, e hanno dunque partecipato a pieno titolo al sound e ai suoi sviluppi.
Gli Stati Uniti contano un buon numero di musicisti impegnati nell’esplorazione del genere, e se questi non hanno dato vita a una “scena” vera e propria è principalmente per via della vastità geografica della loro diffusione, e della mancanza di un hub centrale capace di fare da attrattore (anche se, come si vedrà, la città di Detroit ha avuto un giro bruk piuttosto coeso). Ubiquity, etichetta nata nel 1990 a San Francisco, ha svolto l’importante ruolo di ponte con il mercato britannico, ospitando molti degli artisti chiave e dando spazio nel suo catalogo anche a uscite di protagonisti europei.

fbae80da000100050000000000165866_w335_r0.8047619047619048_fpx50_fpy51.671Un nome presente in gran parte dei resoconti sul bruk è Vikter Duplaix, all’anagrafe Victor Emanuel Cooke, originario di Philadelphia. È suo uno dei singoli-simbolo della tendenza: “Manhood”, uscito nel 2000 negli Stati Uniti e presto riedito in Europa con remix di Volcov e Domu. Lo stile di Duplaix rientra nella sfera del nu-soul, con una propensione verso le costruzioni più arty e downtempo e un’attenta costruzione delle parti ritmiche. Il suo primo album, “International Affairs”, presenta brani prodotti e registrati da Somatik e Marc Mac dei 4Hero, e coinvolge Pino Palladino in canzoni che aggiornano in senso bruk l’approccio behind the beat stile D’Angelo.
Qualche beat spezzato resta anche nel successivo “Bold And Beautiful” (2006), che riceve una nomination al Grammy, ma il ruolo significativo dell’artista è testimoniato soprattutto dalle collaborazioni come vocalist con Domu, Jazzanova, Clara Hill. O dalla densità di tracce legate al filone nel contributo di Duplaix alla serie “Dj-Kicks” di !K7 Records, uscito nel 2002.
Duplaix compare anche in molte uscite di un altro musicista di Philadelphia spesso associato, King James Britt, alias King Britt. Per due anni coinvolto a supporto del terzetto jazz-rap Digable Planets, Britt è essenzialmente un dj e un beatmaker hip-hop, con la passione dell’esplorazione stilistica. Buona parte delle sue release spesso catalogate come broken beat, fra cui l’apprezzato “Adventures In Lo-Fi” (2002), non è direttamente riconducibile al filone; diversa invece la situazione per progetti meno in vista come “The Philadelphia Experiment – Remixed” (2002), costruito a partire dai materiali della collaborazione fra ?uestlove dei Roots, il pianista jazz Uri Caine, il bassista Christian McBride e il produttore Aaron Louis Levinson. Oppure con le compilation “Scuba – Hidden Treasures” (2002), “Black To The Future” (2002) e “Jazzmental” (2005), uscite come “King Britt Presents…” e contenenti pezzi di 4Hero, United Future Organization, Ski Oakenfull, Vikter Duplaix, Bugz, Mark De Clive-Lowe, Intuit, oltre che dello stesso King Britt (che nel primo dei tre dischi si occupa anche di remixare ogni brano). Queste uscite danno un’idea efficace di quanto Britt fosse percepito al tempo come parte integrante del filone – aspetto confermato anche dalle molteplici collaborazioni e dalla stampa dell’epoca, che regolarmente lo cita tra le figure di riferimento.

Anche altri artisti statunitensi di una certa fama sono stati ricollegati al broken beat, sia all’epoca che successivamente. In buona parte dei casi, l’accostamento risulta poco rappresentativo: può capitare, anche con una certa frequenza, di trovare infilate nel genere figure come Carl Craig (forse per via della jazz-techno della Innerzone Orchestra, che ha qualche punto di contatto) e Theo Parrish (il cui 12 pollici “Pieces Of A Paradox”, del 1998, può al massimo essere stata un’influenza per Bugz e soci). Un altro artista, meno noto ma piuttosto citato, che solo collateralmente è riconducibile al bruk è il producer di Chicago Titonton Duvanté (qualche Ep di techno dai beat spezzati a fine anni Novanta, e un altro su Neroli nel 2003). In tutti e tre i casi, si tratta senza dubbio di artisti la cui idea di musica è stata riferimento e ispirazione per gli amanti delle fratture ritmiche; probabilmente anche di figure che all’epoca erano davvero percepite come parte di uno stesso discorso stilistico. Il loro lascito discografico in quel senso, tuttavia, è esiguo per raccomandarli a chi volesse approcciarsi al filone. Invece, un personaggio sorprendente che davvero ha inciso un album espressamente ispirato al West London sound è Otis Jackson Jr., ovvero Madlib. Il suo “Theme For A Broken Soul”, uscito nel 2004 su Stones Throw, era stato originariamente presentato come debutto di un nome sconosciuto, Dj Rels, e distribuito da Goya. Il taglio adottato dal beatmaker è senz’altro personale, con una dominante hip-hop che raramente rinuncia del tutto alle accentazioni forte di derivazione boom-bap, ma le sgretola in una selva di hi-hat, clap e offbeat perfetti per plasmare un panorama ritmico intricato e a suo modo alieno.

È trasversale a più generi anche il percorso di Chris Brann, originario di Atlanta, che nel 1999 aveva ottenuto una hit in campo dance con “King Of My Castle” e il nome Wamdue Project (originariamente uscita nel 1997 come pezzo downtempo). Sempre nel 1999 pubblica su Ubiquity l’album “Compressed Light” con il moniker P’Taah. I dieci pezzi sono una sorta di crasi ambient techno/jazzstep, con synth pad astrattissimi, percussioni live talvolta frenetiche, traiettorie di sax su basi hip-hop e passaggi di purissima jazz-rock/fusion settantiana (con campionamenti dritti da Airto Moreira). La propensione alla scomposizione ritmica, alla ricombinazione, allo spostamento di accenti, senza dubbio colloca l’uscita fra i primi esempi – nonché fra i più originali – di broken beat formato Lp. Nel 2001 esce, sempre su Ubiquity, “De’compressed”, con remix di Kirk De Giorgio, Nubian Mindz, Chateau Flight.

Spostandosi a Detroit, ci si imbatte in un’altra firma significativa di Ubiquity: il producer John Arnold, che inizia a sperimentare con i contrasti ritmici già nelle prime uscite su dodici pollici a inizio anni Duemila (“Universal Mind”, fra techno e deep house, è del 2000 esatto). Nel 2002 pubblica su Ubiquity “We’re Not”, poi incluso nel suo primo album “Neighborhood Science”, uno degli apici creativi del broken beat sul suo fronte più house. Ritmi stratificati con elementi latini e offbeat come se piovesse, piglio funky, accordi estesi e synth raggianti: le sue nove tracce portano la formula dell'artista al massimo della sua vivacità.
Il successivo “Style And Pattern” (Ubiquity, 2005) è anche più policromo in fatto di stili coinvolti, con escursioni latin e featuring variegati (il rapper Ty, il suonatore di kora Mady Kouyate), ma ricorre con meno frequenza ai beat spezzati, che presenta peraltro in una versione spesso piuttosto linearizzata.
Fra i collaboratori del primo album di Arnold si incontra in qualità di vocalist il concittadino Amp Fiddler, musicista versatile con un background jazzistico e un’esperienza duratura con George Clinton. I suoi album solisti sono dedicati a un nu-soul/rnb poco attinente con gli stili in discussione, ma l’artista ha un discreto curriculum in campo bruk, comparendo anche in uscite di Bugz In The Attic, Rima, Breakthrough.

51pa1rm3ugl._uf10001000_ql80_1In entrambi gli album di Arnold compare, invece, un altro musicista di Detroit che può considerarsi senza troppe remore fra i grandi del filone: Jeremy Ellis, anche noto come Ayro. Due soli album all’attivo (uno per denominazione), Ellis può vantare una gamma di collaborazioni che va da nomi del settore come Jazzanova, Daz-I-Kue e Recloose fino a Justin Timberlake e i Detroit Experiment di Carl Craig. Tastierista dall’età di cinque anni, studia prima da pianista classico, poi si sposta sul jazz, e a fine anni Novanta milita negli acid jazzer detroitiani Jazzhead, entrando a contatto con i circoli di jazz elettronico della città.
Il primo Lp in proprio è “ElectronicLoveFunk” (2003, a nome Ayro), che già mostra al meglio le notevoli virtù del suo stile: una galvanizzante fusion a base di beat spezzati e funk/soul alla Stevie Wonder. Pianoforte elettrico e synth a tutto andare, intrecci percussionistici da capogiro (sia live che programmati), sound luminoso: il parallelo che viene spontaneo è quello con Mark De Clive-Lowe, e la musica dei due mostra in effetti una consistente vicinanza. Ellis è in più un talentuoso vocalist, e negli anni si costruirà una fama come finger drummer – ovvero come virtuoso nell’utilizzo di drum pad digitali come le Mpc Akai e le Maschine di Native Instruments. Riguardo al suo primo album, l’autore avrebbe raccontato: “Sentivo il bisogno di suonare musica che fosse jazz, un po’ drum’n’bass, un po’ jam soul e avesse una certa sua Squarepusherosità. Tutto insieme!”.
Per il lavoro successivo, Ellis sale su un aereo per Puerto Rico con l’obiettivo di immergersi nei ritmi locali, da cui era stato folgorato in occasione di un concerto al San Sebastian Street Festival di San Juan. Ubiquity, con cui Ellis è entrato in contatto grazie ad Arnold che in quel periodo è suo coinquilino, accetta di finanziare l’impresa. Dopo due mesi nell’isola caraibica, quasi tutto è pronto, ma al ritorno da un concerto a Miami il laptop su cui sono salvate le registrazioni scompare. Rientrato a Detroit, il musicista si rimette al lavoro, ricreando ex novo le tracce per il disco: il risultato, “Lotus Blooms” (Ubiquity, 2005) è un album caleidoscopico e quasi interamente strumentale, che fonde il suo background jazzistico, il West London Sound, quanto appreso a Puerto Rico e il giusto di Detroit Techno.
Per chi desiderasse esplorare più approfonditamente le realizzazioni di Ellis e Arnold, un ascolto ulteriore può concentrarsi su due album di John Beltran, producer del Michigan con una lunga carriera nell’ambito della musica d’ambiente. I suoi “Americano” (Exceptional, 2002) e “In Full Color” (Ubiquity, 2004) integrano house, gypsy jazz, lounge, groove latini e ritmi spezzati. Il secondo dei due, in particolare, vede la collaborazione oltre che dei due musicisti di Detroit anche di Colonel Red, Andreas Saag e Elsa Hedberg, per una formula che è quanto di più soft e prossimo all’easy listening sia stato prodotto in un campo attiguo al bruk.

Infine, qualche nome “fuori dal coro” per completare un quadro che, pur non essendosi mai costituito in un panorama nazionale coeso quanto quelli dei paesi già analizzati, ci è comunque andato più vicino di ogni altro fra i “minori”. Il primo nome da estrarre dal cilindro, se non altro per la sua risonanza in altri ambiti, è quello dello stimato pianista Craig Taborn, pure lui di Detroit, colonna portante degli Science Friction e degli Hardcell di Tim Berne, due degli ensemble chiave dell’avant-jazz primi Duemila. In compagnia del sassofonista Aaron Stewart, del violista Mat Maneri e del batterista David King (The Bad Plus), Taborn dà vita al progetto Junk Magic, che nel 2004 pubblica un album omonimo su Thirsty Ear, etichetta-simbolo della musica alternativa di quegli anni. Pur giungendo a un clima del tutto diverso dalla sfavillante fusion di altri artisti trattati nell’articolo, il disco si nutre di elementi analoghi: jazz (in questo caso avanguardistico), elettronica, ritmi fratturati – probabilmente frutto delle stesse influenze, oltre che della notevole esperienza acquisita da Taborn con un maestro della dissezione metrica come Tim Berne. L’alchimia porta a un mood lunare e cervellotico, ma avventuroso e imprevedibile come quello dei più riusciti lavori bruk. Ai tempi dell’uscita pochi si entusiasmano, sia fra i seguaci del West London sound che tra gli amanti del jazz più ostico, ma l’album sarà una notevole influenza su importanti jazzisti che, svariati anni più tardi, torneranno a fare dell’ossessione per i ritmi spezzati un punto saliente della loro ricerca artistica.

Meno rinomato, ma senz’altro meritevole di una menzione è anche Grey Filastine, o più brevemente Filastine, beatmaker statunitense, viaggiatore indefesso e fondatore della marching band Infernal Noise Brigade, una “unità ritmica tattica” formata per le contestazioni al vertice Wto di Seattle del 1999. Il suo primo album, “Burn It”, esce nel 2006 e propone musica indubbiamente borderline. Con approccio testardamente trituratutto, Filastine mescola hip-hop e reggaeton, dub, drum’n’bass e musica balcanica, zampogne nordafricane e frammenti spoken word, il tutto su una base di ritmi secchi e – se non perennemente rotti – quantomeno sempre assai prossimi alla frattura. Quello che emerge è un sound scientemente globale, anzi di rivolta globale: attraverso i suoni del rimosso dell’Occidente, l’artista compone il mosaico di una tensione diffusa, una guerriglia fredda che sfida le logiche di sfruttamento, tanto con la scomposizione ritmica che con la ricontestualizzazione degli innumerevoli sample che compongono le tracce.
L’apprezzato nu-soul urbano dei newyorkesi Sa-Ra Creative Partners, oltre a chiare radici hip-hop e synth-funk, incorpora beat sbilenchi che ne fanno un riferimento citato anche nella scena di là dall’oceano. Ben percepibili nel loro primo album “The Hollywood Recordings” (2007), le analogie si erano già tradotte in connessioni dirette con il mixtape “Sa-Ra Presents Dark Matter & Pornography” (2005), che includeva una collaborazione con Spacek, e anche con il remix piuttosto spezzato di “Sun, Drums and Soil” di Four Tet, lo stesso anno.

Per dire la verità, poi, proprio negli Stati Uniti si sviluppa in campo urban uno stile produttivo di estremo successo, che presenta notevoli contatti con il broken beat di scuola britannica. Solitamente non lo si associa al filone (più spesso si coglie il parallelismo, non infondato, con l’approccio ritmico di Timbaland), ma ascoltando di fila pezzi come “Say My Name” delle Destiny’s Child, con i suoi frenetici stop’n’go e le raffiche di offbeat, “If You Had My Love” di Jennifer Lopez, “Celebrity” degli *Nsync è difficile non convincersi che, anche volendo smentire un’influenza diretta, qualcosa nell’aria ci debba essere in quegli anni, che abbia indotto musicisti dagli orizzonti molto diversi a spingere in direzioni compatibilmente intricate sul piano ritmico. I brani citabili sono decine, e spesso dietro di essi ci sono due nomi specifici: Rodney Jerkins alias Darkchild e il duo di Brooklyn Poke&Tone/Trackmasters. Analizzare in dettaglio le rispettive carriere, nonché le ricadute sullo stile di altri produttori, porterebbe troppo lontano, ma un futuro approfondimento in questa direzione non è da escludersi.
Infine, prima di abbandonare definitivamente il Nordamerica, una breve puntata a Nord del Quarantacinquesimo Parallelo. A Montreal, principale città del Québec, a fine anni Novanta Kevin Moon aka Moonstarr compone tracce ispirandosi alla street culture, a Sun Ra e e alla techno di marca Underground Resistance. Tempo di arrivare al primo album “Dupont” (2001) e il suo stile è diventato un hip-hop strumentale in cui è possibile sentire tanto Dj Shadow e Detroit quanto gli echi di quanto sta succedendo a Londra dalle parti di North Kengsington.

Nuova Zelanda e Australia

a10170012102524801È ancora originario di Detroit, ma dal 2001 residente a Auckland in Nuova Zelanda, il producer Matthew Chicoine ovvero Recloose. Con un percorso che proviene dalla techno e dall’ibridazione con l’hip-hop strumentale, dopo alcuni Ep ancora in cerca di un proprio stile il musicista arriva nel 2002 a pubblicare il suo primo album, “Cardiology”. Il disco è prodotto da Carl Craig per la sua etichetta Planet E, e propone una formula al tempo stesso leggera e azzeccata, che non sopprime il battito regolare del four-to-the-floor, ma lo lascia come sottofondo di facile decodifica ad abbellimenti broken beat capaci di tener viva l’attenzione. Fra piogge di hi-hat di stampo deep house e piglio funky con voce in evidenza, già un poco emerge quella che negli album successivi sarà la principale cifra stilistica di Chicoine, uno smooth-funk con occasionali percussioni offbeat e una crescente componente live.

Vive invece a Melbourne dagli anni Novanta il neozelandese Lance Ferguson, più noto nel settore come Lanu. Il suo primo album esce nel 2007, si intitola “This Is My Home” ed è pubblicato negli Stati Uniti su Ubiquity, mentre nel Regno Unito su Tru Thoughts – etichetta che accoglie diversi artisti talvolta ricollegati al filone broken beat (spesso un po’ forzatamente, come nel caso di Bonobo, Quantic o Belleruche). Il disco di Ferguson è invece un tripudio di ritmi spezzati e sfarzosità jazz/funk, che vede l’artista perfettamente a suo agio fra tre ruoli: producer incaricato di tutti i beat, coordinatore degli svariati sessionmen che arricchiscono il groove, e polistrumentista alle prese con chitarra, basso e occasionalmente voce. Scoppiettante e decisamente solido come interplay, è perfetto per chi apprezza la declinazione più jazz-fusion, luminosa e upbeat del filone.

Brasile

Restando a Sud dell’Equatore, ci si può interessare al team creativo dietro a due dischi di Patricia Marx, autrice pop dalla carriera consolidata in campi affini al sophisti-pop e poi all’acid jazz. In “Respirar” (2002) e “Patrícia Marx” (2005), la cantante sperimenta con i ritmi spezzati e confeziona un art-pop electro-jazz decisamente riuscito sul piano degli arrangiamenti, sempre inventivi ed eleganti, ma offuscato dai toni a tratti svenevoli della voce. Nei due dischi compaiono Somatik, Kaidi Tatham, Dave Okumu, Dego e Marc Mac dei 4Hero, ma al sound contribuisce in modo rilevante anche il polistrumentista di São Paulo Bruno Pires De Souza, in arte Bruno E. Amante dell’elettronica underground britannica, è lui a far conoscere a Marx (allora sua compagna, e dal 1998 moglie) Portishead, Goldie, Prodigy. Attorno ai primi anni Duemila, i due vanno e vengono da Londra, dove familiarizzano con il giro del CoOp – con cui il contatto era arrivato in realtà qualche tempo prima, quando ascoltando classici della bossa nova cantati da Marx i 4Hero si erano convinti a voler collaborare con la cantante (proposito concretizzatosi nel brano “Unique” su “Creating Patterns”).
La frequentazione di Londra lascia un segno sul percorso dei due artisti, e anche gli album di Bruno E. riflettono l’influenza del West London sound. “Lovely Arthur”, in particolare, esce nel 2003 e declina l’approccio broken in un jazz piuttosto austero e contemporaneo. Il disco riceve alcune buone recensioni nella stampa internazionale, e l’artista è chiamato a remixare brani di Intuit e Silhouette Brown.

Francia

Interessante il quadro francese, con una manciata di artisti – alcuni dei quali decisamente originali e approdati a formule ritmicamente assai broken, ma decisamente distanti dai modelli britannici impostisi in gran parte degli altri casi.
Cominciando dai più canonici, si incontrano gli Steppah Huntah, duo di Strasburgo costituito dal contrabbassista e producer Steven-Joyce Ames e dalla cantante e tastierista di origini russe Olga Tourkevitch. Fra il 2003 e il 2005 realizzano alcuni dodici pollici (fra cui uno, “Walk This Step”, esce su Compost con contributi di Seiji, Daz-I-Kue e Mark De-Clive-Lowe), e nel 2007 danno alle stampe il loro unico Lp, “Things About Us”. Un incontro sfavillante fra deep house, beat spezzati e occasionali divagazioni latin, con interventi di Mc’ing hip-hop e svolazzi strumentali che danno al tutto una notevole vitalità.

Procedendo, si può sfoderare il nome di maggiore risonanza (almeno all’epoca): gli Château Flight, ovvero i parigini Gilb’r (Gilbert Cohen) e I:Cube (Nicolas Chaix). Discograficamente attivi già dal 1997 nell’ambito del tanto reclamizzato French touch, virano presto verso uno stile crescentemente jazzy e nel 2000 pubblicano il loro album più noto, “Puzzle”. Il disco, fantasioso e leggiadro, alterna tracce dal ritmo piuttosto dritto a invenzioni electro-funk dalle fratture ritmiche inedite e dall’imprendibile slancio jazzistico. Il bilancio è quantitativamente più rivolto al primo orizzonte (complici alcuni brani dal taglio marcatamente downtempo) ma il risultato è sufficientemente coeso e sonoramente unico da essere ricordato ancora come un piccolo classico legato al filone. Anche al tempo, d’altra parte, il duo è riconosciuto dagli artisti bruk come artisticamente affine: la lista dei remixati dai due francesi include Seiji, P’taah, Atjazz, Beanfield.

a0773524958_651Parigini anche gli Outlines: i due producer Jérôme Hadey e Christopher Irfane Khan-Acito, più il graffiti artist Jay Ramier (che si occupa di tutti gli elementi grafici legati al progetto). La loro è un’esperienza tutta interna alla cultura hip-hop – ma con molte contaminazioni. Lo schema di accenti dell’Amen break è ben presente nelle quindici tracce del loro primo album omonimo “Our Lives Are Too Short”, che esce su Sonar Kollektiv nel 2007 preceduto nel paio d’anni precedente da release in combutta con Jazzanova e accoliti (“Just A Lil’ Lovin’”, in particolare, scatena un certo hype). L’impronta rimescolatrice del broken beat è tuttavia ben percepibile nelle innumerevoli riarticolazioni, jazzizzazioni e (ulteriori) funkizzazioni del ritmo base disseminate nel disco. Cittadinanza bruk a parte, il disco è semplicemente un perfetto esempio di jazz-rap dai colori cangianti, tendenzialmente radioso e funky, ma all’occorrenza tagliente quanto serve. I featuring sono soprattutto in inglese (tra gli ospiti perfino RZA del Wu-Tang Clan), ma uno dei numeri migliori ha al centro il flow francofono del rapper di origini congolesi Abd al Malik.

Per la portata finale, i più fuori dagli schemi. I Sayag Jazz Machine, ovvero cinque artisti con base a Parigi: Christophe Vermand (programmazione e tastiere), Pierre-Yves Le Jeune (fisarmonica, contrabbasso, violoncello), Nicolas Scheid (sax, clarinetto, flauto), Charly Amadou Sy (scratch), Laurent Meunier (videomaker). Il loro approccio stilistico è figlio diretto della jungle – e in particolare della sua evoluzione jazzstep – e in un certo senso è affine, più che a West London, alla Sheffield e alla Manchester di Moloko e Lamb, o alla Atene degli ultimi Stereo Nova. Se nel caso di queste ultime band nel campo broken beat appare un poco forzata (ancorché non immotivata, almeno ascoltando “I Am Not A Doctor”, “Fear Of Fours” o il pioneristico “Vitamina Tek”), la prospettiva è più convincente guardando al quarto album dei Sayag Jazz Machine, “No Me Digas” (2007). Il sound del quintetto francese è, alla radice, un caleidoscopico nu jazz costruito su drum’n’bass con molto drum e molto (sub-)bass, oltre che con una miriade di guizzi, svolte e battute d’arresto. Su questo si innestano, a seconda delle occasioni: fiati swing, orchestrazioni a un passo dalla spy music, passaggi stravinskiani, inflessioni dub, Mc’ing a scelta fra francese, tedesco, spagnolo, inglese (con un cameo di Busdriver). Un frullatore, insomma, ma un frullatore sorprendentemente ben direzionato, motore di un vortice sempre entusiasmante.

Danimarca e Finlandia

nuspirit1Se i due paesi nordici hanno avuto microscene proprie, le informazioni a loro riguardo sono attualmente ben nascoste. Tuttavia, alcuni progetti entrati in contatto con i giri internazionali hanno lasciato tracce apprezzabili.
I Nuspirit Helsinki sono in effetti una delle prime band non britanniche in cui ci si imbatte incuriosendosi al genere, e questo soprattutto grazie ai rapporti con i Jazzanova che consentono al collettivo finlandese di pubblicare alcune uscite su Jazzanova Compost Records e Sonar Kollektiv. Avviato nel 1998 dai Dj Tuomas Kallio e Hallio Nieminen, il progetto si arricchisce di ulteriori componenti e dopo alcuni dodici pollici rilascia nel 2002 un album omonimo, che trova immediatamente i riscontri della stampa e dei dj radiofonici interessati. Il disco miscela toni eleganti, arrangiamenti avvolgenti di archi, fiati e pianoforte elettrico con beat angolati ma mai invasivi. La produzione della band poi si assottiglia in termini di release maggiori, e le varie compilation di musica propria e altrui che seguono il primo album hanno un quantitativo assai ridotto di ritmi spezzati.
Restando in Finlandia, qualche punto di contatto c’è anche nella tech-house immaginifica di Jori Hulkkonen, densa di riferimenti fantascientifici e dal costante slancio progressivo: le segmentazioni metriche compaiono soprattutto dalle parti del diafano “When No One Is Watching We Are Invisible” (2000); la fase successiva della carriera, più orientata a una ripresa delle atmosfere astratte del synth-pop più avventuroso, lo porterà a collaborare con Tiga e John Foxx, ma anche a raddrizzare il taglio ritmico.
The Society è invece il progetto nu jazz del sassofonista di Copenaghen Thomas Hass Christensen, con un’esperienza di lungo corso che lo ha visto impegnato da metà anni Novanta con il revival exotica dei tedeschi Señor Coconut. Dei due album pubblicati con il proprio complesso, è il debutto “Electronic – Bionic” a interessare qui. Uscito su Freestyle Records nel 2005, è una delle materializzazioni più vivide del bruk come terreno di scambio fra stili e personalità diverse. L’ensemble di jazzisti danesi raccolto da Hass incontra nelle tracce contributi vocali eterogenei (dal r’n’b di Ovasoul7 all’hip-hop allo spoken word di Ursula Rucker) e i saettanti beat programmati dallo stesso Hass, o eseguiti col supporto del percussionista Peter Kiebsgaard e del batterista Niels Ratzer, già collaboratore proprio di Rucker. Pur mantenendo con coerenza feeling acustico e live, il disco riesce a proiettarsi verso il jazz classico così come verso la fusion più dinoccolata, a portare in primo piano un basso wah-wah o a concedersi inebrianti slanci jazz/r’n’b su metro dembow. Accenni ritmici interessanti anche nel precedente album a nome Kyoto, uscito nel 1999 e decisamente più orientato al downtempo.

Austria

artworksybc4eaa28du8iqycvouzagt500x5001Ovviamente influenzata dalle scene tedesche, l’Austria è stata negli anni Novanta anche la patria di un rinomato combo produttivo in ambito downtempo e nu jazz, i viennesi Kruder & Dorfmeister. Fin dal loro primo Ep, i due hanno avviato una propria label, G-Stone Recordings, che negli anni è diventata una casa per i progetti legati al duo, nonché un punto di riferimento per artisti attivi su frontiere simili. Fra i primi, il più connesso al broken beat è la Peace Orchestra di Peter Kruder. Già nel primo album omonimo (G-Stone, 1999), notturna “musica da camera” dub/elettronica dal suono esotico e spazioso, qualche frattura ritmica compare. È tuttavia nel successivo remix album “Reset” (G-Stone, 2002) che l’elemento si acuisce, complici soprattutto gli interventi di Beanfield, Trüby Trio e Kosma/Thomas Kretschmann dei Jazzanova.
Su G-Stone escono anche “Creation” (2003) e “Kunuaka” (2007) del dj viennese Megablast (Sascha Weisz), il secondo realizzato in combutta con Marcus Wagner-Lapierre aka Makossa. Molto diversi fra loro, i due album presentano una versione sotto steoridi del sound bruk, calcando sui bassi e sull’impatto dei ritmi sul dancefloor. In “Creation” l’enfasi è soprattutto sul potenziale epico ed energizzante del suono, con elementi ripresi dalla progressive trance e un uso efficace di rarefazioni e addensamenti ritmici. In “Kunuaka” lo stile prende un taglio più afrofuturista, includendo anche elementi ragga e percussioni acustiche.
È invece slegato da G-Stone il percorso di Alban Bekic, prima studente di matematica e musica, poi regista, e in mezzo fra le due cose anche producer con il nome di Albanek. Nel 2003 pubblica “Shade Of Blue”, album dallo stile personale che coniuga un astrattismo un po’ tech-house a un mood pensieroso ma attivo. Decisamente creative sul lato ritmico, le undici tracce originali sono arricchite nella versione oggi in streaming da remix di Swell Session, Moonstarr e del duo latin/deep house Cuica.

Paesi Bassi

Jazz-fusion, hip-hop, house, techno, downtempo, latin music, funk, soul, r’n’b: l’arco dei generi finora intrecciati alle vicende del broken beat è estremamente ampio, ma quello forse più ovvio – viste le caratteristiche del filone – è stato sorprendentemente assente. Davvero con il caro, vecchio progressive rock degli anni Settanta non c’è stato un contatto diretto? Nella quasi totalità dei casi pare proprio di no: d’altra parte, i riferimenti storici sono sempre stati incentrati sulla black music, e quando il termine progressive è di casa (e questo accade spessissimo, anche sulle riviste dell’epoca) è al progressive soul che si deve guardare. Ma ecco che, dulcis in fundo, a chiudere il cerchio provvede la microscena olandese centrata sulla label Music For Speakers, creata nel 2000 a 's-Hertogenbosch (Den Bosch), nel Brabante Settentrionale. I fondatori dell’etichetta sono anche i suoi principali contributori in termini di pubblicazioni, in buona parte accostabili al broken beat, ancorché spesso in forme marcatamente di frontiera.
Aardvarck è Mike Kivits, dj e producer di Den Bosch. Attivo dai primi anni Novanta, è fra i fondatori di Music For Speakers ma pubblica sull’etichetta una sola uscita, l’Ep “Emsees” (2001), costituito perlopiù di brevissime tracce di techno/Idm astratta. Il suo primo album “Find The Cow”, invece, esce sull’etichetta olandese Delsin e propone un suono meno claustrofobico, molto apparentabile alla direzione di Autechre e Plaid, ma con un respiro particolarmente melodioso e confortevole, e una chiara attenzione alla costruzione broken delle tessiture ritmiche. Nel 2003 Kivits entra a far parte dei Rednose Distrikt, fantasioso duo di produzione hip-hop che integra caratteri jazzy e broken, visibili prevalentemente nel loro ultimo album “Poes” (2007). Kivits compare inoltre in qualità di remixer sull’Ep “Third Person” dei Madcap (Richard Hermes + Felix Van De Vorst), altro gruppo cofondatore di Music For Speakers e autore, in questo disco, di un breakbeat al rallentatore che include anche una cover di “Set The Controls For The Heart Of The Sun” dei Pink Floyd.

È di Den Bosch anche Sandor Caron, producer e ingegnere del suono dietro a molti dei dischi dell’etichetta, che dopo alcuni dodici pollici esplorativi pubblica nel 2001 l’album “Harmonica And Cross”. Lo stile prevalente è illbient con uguali propozioni di trip-hop e Tuxedomoon, ma nella title track e in altri brani il gusto per ritardi e anticipazioni del beat emerge chiaramente. L’elemento è più vistoso in “Inflatable Scream”, Ep del 2002 dei Relaxo Abstracto ovvero di Kivits, Sandor Caron e del fratello, David Caron, e ulteriormente messo in risalto in “Music Against People” (2002) dei Roomtone, band elettroacustica fondata da Sandor Caron e dal chitarrista Jeroen Kimman. Il duo presto si espanderà in quintetto, orientandosi verso un math-rock decostruito e curiosamente pacato, che nell’album “Gloom In Major” (2004) riverserà le intuizioni bruk in un suono non distante da quello dei chicagoani Storm & Stress.
Il polistrumentista Richard Van Kruysdijk e la cantante Marie-Claudine Vanvlemen costituiscono invece i Sonar Lodge, formazione di stampo trip-hop che dai primi 12 pollici a fine anni Novanta accosta atmosfere retro/noir, sfumature jazzy e beat elettronici ben informati del drum’n’bass e delle sue derivazioni. Già il primo Lp “Soundeffects” (2000) mostra un’inclinazione alla frattura ritmica, con passaggi di jazzstep assai frammentato, ma è soprattutto “Needlework” (2004) a spingere in quella direzione, sia nelle tracce nuove che nelle rielaborazioni molteplici di cose già edite (un remix è a cura di Domu).

a2821403650_651Van Kruysdijk e Vanvleemen sono anche coinvolti negli Strange Attractor (fondati da Van Kruysdjik insieme a Niels Van Hoorn), che aprono il versante più deliberatamente prog della microscena: i loro due album “Rorschach” (2004) e “Rorschach II” (2005) sposano jazz elettrico diradato, Idm, escursioni flautistiche, atmosfere enigmatiche, e ospitano fra gli altri due personaggi di culto come Richard Sinclair di Caravan e Hatfield And The North e Edward Ka-Spel dei Legendary Pink Dots. Nel 2006 le due release sono state raccolte in un’unica uscita, attualmente disponibile in streaming.
Esce nel 2009 invece il frutto delle improvvisazioni in studio condotte nel 2005 dagli Szense (ancora Van Kruysdjik e Van Hoorn, questa volta con l’aggiunta del bassista e chitarrista Eric van der Westen): qua l’orizzonte è puro impro-jazz-rock, ma come inevitabile i beat spezzati emergono a più riprese.
Tutte le esperienze citate convergono nel 2005 nell’album “Popular Music Must End” del progetto pressoché one-shot Music For Speakers Amplified, che raccoglie Van Kruysdijk, Vanvleemen, Kimman e Sandor Caron. La musica è all’incontro fra jazz-rock, post-rock, trip-hop, e combina ritmi frastagliati e accenti spostati con traiettorie strumentali sfacciatamente crimsoniane. Dove a prevalere non sono gli ardimenti quasi Rock In Opposition dell’abbinamento chitarra-clarinetto, sembra di essere immersi in una forma portisheadizzata delle tracce più intimistiche di “Islands” o “Red”: una controparte più rock delle trascendenze dei Two Banks Of Four, verrebbe da semplificare. Qualche mese prima, l’ensemble – arricchito da Mike Kivits/Aardvarck – aveva rilasciato il 12 pollici “Ummo Gummo”, molto più elettronico ma anche molto meno evocativo nelle atmosfere.

La vicenda dei Flowriders del tastierista di Amsterdam Vincent Helbers è invece slegata dal giro Music For Speakers. Dediti a una broken fusion dai caratteri molto soulful e levigati, pubblicano il primo album “Starcraft” nel 2004 e ricevono agilmente il plauso degli osservatori britannici, che li accostano agli esponenti più arty del filone come 4Hero e Two Banks Of Four. La loro formula è molto elegante e vivace, e la musicianship dei numerosi componenti è ben percepibile anche nel seguito “R.U.E.D.Y.”, uscito nel 2007, che ospita il batterista Richard Spaven e se possibile accentua ulteriormente il carattere funky e urbano della miscela.

Parte tre: 2008 - ∞

Il suono che resiste

Lo si è già ribadito: secondo la gran parte delle ricostruzioni, attorno al 2007 qualcosa si ingolfa. Forse è stato il digitale che ha ucciso le vendite fisiche, forse il ritardo e il flop nell’atteso boom commerciale dei Bugz e del genere tutto, forse i naturali cicli economici e di vita che hanno portato un pilastro come Goya Distribution a chiudere i battenti, forse il graduale interessarsi ad altri suoni da parte di musicisti del giro, pubblico e nuovi potenziali adepti. Più probabilmente, è stata una combinazione di tutto quanto. A ben vedere, poi, già da qualche tempo la scena stava girando a ritmo un po’ ridotto, con artisti che diradavano o arrestavano le pubblicazioni, oppure, adottati da poco i beat spezzati, li abbandonavano in breve tempo per buttarsi su nuovi hype. Intere scene nazionali si erano ormai sgonfiate: Gonkyburg aveva smesso fare faville, i Jazzanova avevano trovato altre vie downtempo
Il fatto che il 2007 segni un prima e un dopo per il bruk non significa comunque che questo "dopo" non esista affatto. Anzi. Nella sua durata e nelle sue diramazioni, è così consistente da costringere a rinunciare all’orizzonte completistico delle parti precedenti dell’articolo, per concentrarsi soltanto su una panoramica essenziale. L’impresa non è resa impossibile solo dalla sua vastità (temporale, stilistica, geografica, quantitativa): la perdita di centralità del filone ha anche come conseguenza che molte delle sue ricadute non siano state etichettate come tali, e che il tag “broken beat” sia ancora meno efficace come chiave di ricerca per mappare artisti ed etichette significative.
Ecco dunque alcune direttrici fondamentali per provare a inquadrare i quindici anni (e oltre) successivi al decennio 1997-2007 della massima visibilità. Un po’ come tutti i filoni dati per morti, le attività sono continuate sotto forme molteplici: con artisti storici che, evolvendosi, hanno fatto evolvere anche il genere; con musicisti che, ispirati dal sound classico, hanno contributo in modo importante a filoni strettamente imparentati – ma dotati di caratteristiche e pubblici propri; con nomi anche molto più recenti che, magari provenendo da background distanti, hanno riscoperto il West London sound e lo hanno incorporato nel proprio suono, con esiti più revivalistici oppure più eclettici.

383833173_225332033558935_3532889762088749039_n1Tra le figure già in pista all’epoca, tre in particolare hanno consolidato il loro prestigio. Il tastierista e bandleader Mark De Clive-Lowe ha pubblicato più di dieci album, riscuotendo pressoché sempre il plauso della critica specializzata e conducendo tournée intercontinentali da decine di date. Nell’etichettare la sua musica, la dicitura “spiritual jazz” è stata crescentemente applicata da stampa e appassionati (in conformità con la bolla registrabile negli ultimi anni attorno all’espressione), ma l’ascolto di lavori a fuoco e distanziati come “Renegades” (2011), “Live At The Blue Whale” (2017) e “Hotel San Claudio” (2023, con Shigeto e Melanie Charles) confermerà facilmente che tratti fusion e slittamenti metrici sono sempre al centro del suo orizzonte espressivo. Lo sguardo più rappresentativo sul percorso del musicista lo dà però forse il sound espanso di “Church” (2014), due sessioni fra New York e Los Angeles con Mc’ing, fiati, archi, cordofoni africani e arpa, un tiro magistrale e la consueta versatilità pianistica.
Distanziandosi un po’ più dal canone stilistico, il sempre un po’ alieno Steve Spacek ha raggiunto una certa fama come componente (insieme a Mark Pritchard dei Global Communication) del duo di bass music percussiva Africa Hitech, che ha fatto arrovellare i commentatori sul sottogenere meno inadeguato a incasellare gli iperfuturistici frastagliamenti ritmici dell'apprezzato album omonimo, uscito su Warp nel 2011. In proprio, l'artista ha proseguito la via diradata al beat spezzato inaugurata dalla sua band d’origine, gli Spacek appunto, della quale ha conservato traccia nel moniker. Questo tanto nelle uscite a suo nome (“Natural Sci-Fi” è del 2018, “Houses” del 2020), quanto nell’album firmato nel 2015 Beat Spacek, più variopinto e serrato, ma a conti fatti anche molto meno broken. Lo stile di Steve Spacek ha conservato, dei suoi esordi, anche un’indole trasognata e sorniona, che nel tempo ha limato la sua iniziale piacioneria, facendo risultare la scarsa direzionalità dei pezzi, più che una debolezza, una necessaria feature delle sue liquide atmosfere.

La traiettoria di Dave Okumu ha invece visto un primo allontanamento dal bruk con la fondazione degli indie-rocker Invisible - allontamento solo parziale, a dire il vero, visto che fra gli altri componenti c’è Tom Herbert, Tom Skinner è sempre stato nell’orbita della band, e il filone jigsaw-pop a cui contribuiscono ha gli intricamenti ritmici fra i suoi tratti distintivi. Dopo molte collaborazioni e turni da sessionmen, tuttavia, con l’occasione di sviluppare un percorso solistico il chitarrista riscopre l’antica passione, e la integra – con cospicuo ammodernamento in senso wonky-jazz – già nel suo primo album “Knopperz” (2021). Nel 2023, il suo progetto black prog 7 Generations coinvolge Eska e Skinner, ma presenta ritmi assai più krauti che spezzati. Di contro, lo stesso anno, la vorticante rilettura/sconvolgimento di “Bitches Brew” di Miles Davis promossa dai suoi London Brew – che lo coinvolge assieme a una pletora di jazzisti del giro londinese, fra cui i soliti Skinner e Herbert – integra ampiamente tratti bruk nel magmatico funk/jazz/rock del doppio album.
Fra gli svariati altri broken beater della prim’ora che, da una posizione meno in vista, hanno proseguito lungo rotte affini allo stile, Dego dei 4Hero è notevole per avere pubblicato il suo primo Lp solistico solo nel 2011, e lungo una linea direttamente prosecutrice del West London sound. “A Wha’ Him Deh Pon?”, edito da 2000 Black come quasi tutti i suoi lavori successivi, vede la partecipazione in molti brani di Kaidi Tatham e rispecchia un mood particolarmente solare e colorato, in qualche modo in sintonia col primo Lp dei Brotherly. I due si erano già affiancati in duo in “A Next Set A Rockers” (2008, a nome 2000 Black), e torneranno a farlo nel 2017 con “A So We Gwarn”, sempre su coordinate decisamente luminose e bruk-oriented.
Da par suo, Kaidi Tatham ha pubblicato sempre nel 2008 l’album dell’esordio a proprio nome, “In Search Of Hope”, interamente composto, suonato e prodotto in autonomia. Lo stesso modus operandi si è applicato, featuring e mixaggio permettendo, anche a buona parte dei lavori successivi, fra cui l’estroso “An Insight To All Minds”, in cui Tatham combina i suoi accordi estesi, e crescentemente compassati, con una verve particolarmente funkeggiante. Fra le collaborazioni, è significativa quella del 2020 con il producer e sodale di Boxcutter Kab Driver per la realizzazione della colonna sonora del race game "Inertial Drift", che vede il polistrumentista cimentarsi con vibe sì spezzate, ma più affini al 2-step che allo stile a lui più familiare.

Sul confine

1200x1200bf601Discutere di stili attigui e filoni direttamente imparentati può condurre spontaneamente in un ginepraio: districare le relazioni fra i molti diversi generi e sottogeneri elettronici di casa a Londra nell’ultimo paio di decenni è infatti un’impresa improba, che non ha senso tentare di affrontare qui. Conviene dunque limitarsi ad alcuni fatti attestabili e necessariamente schematici. Alla conclusione del millennio, sono sorte a Londra dalla scia della jungle due correnti con differenze e punti di contatto: quella, ampiamente dissezionata dai cultori, che dall’Uk garage ha condotto al 2-step garage e da lì al dubstep, e quella broken beat. La prima ha puntato in generale su beat più secchi e inquadrati, spazialità dub, forte risalto delle bassline, e atmosfere presto sfociate nel cyberpunk più o meno urbano; la seconda, come visto, ha messo al centro l’imprevedibilità dell’articolazione ritmica, ibridazione stilistica, groove di stampo funk, elementi jazz, e se ha avuto slanci fantascientifici è stato soprattutto in direzione afrofuturistica. Entrambe hanno fatto largo ricorso agli offbeat, con le prime release sul fronte 2-step/dubstep a presentare uno schema di accenti abbastanza ricorrente, e il campo bruk molto attivo invece nella sperimentazione di variazioni e ricombinazioni.
Dal 2000/2001 in poi, i due filoni hanno avuto come tempio uno stesso luogo fisico – il Velvet Rooms prima e il Plastic People poi – che ha ospitato a serate alterne due eventi dedicati: il Fwd>> e il CoOp. Ciascuno presentava un proprio pubblico, ma le testimonianze di intersezioni sono ricche, tanto fra gli artisti che frequentavano le due scene – fra gli esempi due pionieri del dubstep, Kode9 e Zed Bias – che fra i generici avventori (fra cui, inevitabilmente, anche futuri artisti). Negli anni della convivenza al Plastic People, le costruzioni ritmiche del dubstep hanno iniziato a farsi più cangianti, e di lì a poco il filone ha ricevuto grandi attenzioni dalla critica specializzata, affermandosi anche presso un pubblico più indie grazie ad artisti come The Bug, lo stesso Kode9, l’olandese 2562 e, soprattutto, Burial (la cui pagina Bandcamp, peraltro, etichetta tutti i suoi primi lavori anche come broken beat). Per mettere a fuoco la fertilità della relazione fra i due ambiti, può essere particolarmente significativo – oltre alle produzioni di Maddslinky/Zed Bias – anche il “Dj-Kicks” di Kode9, uscito nel 2010 per !K7.
Il successivo mutare della scena in una proteiforme galassia post-dubstep ha prodotto una miriade di gemmazioni e micro-categorizzazioni, ulteriormente stimolate alla manipolazione ritmica dall’emergere del wonky sound di cui il californiano Flying Lotus rappresenta l’esponente più in vista. Una corrente che ha le sue radici nel disassamento degli accenti hip-hop operato da J Dilla e, a lungo andare, nel groove behind the beat messo a punto da D’Angelo. Senza voler tentare qui una distinzione fra purple sound e aquacrunk, future garage, footwork e altre delle innumeravoli diramazioni della bass music, basti un elenco di nomi che mostrano nella propria musica più di un riflesso broken beat (e che in qualche caso hanno anche dichiarato la propria frequentazione del filone).
Un album di riferimento per ciascuno, giusto per orientarsi. Il contingente più nutrito è quello britannico, fra cui spiccano Clubroot (“II:MMX”, 2010), Sbtrkt (“Sbtrkt”, 2011), Ital Tek (“Midnight Colour”, 2011), Djrum (“Seven Lies”, 2013), Alex Banks (“Illuminate”, 2014), ma abbondano anche gli statunitensi: Baths (“Cerulean”, 2010), Salva (“Complex Housing”, 2011), FaltyDl (“You Stand Uncertain”, 2011), Machinedrum (“Vapor City”, 2013), Shigeto (“No Better Time Than Now”, 2013). Altrove, si incontrano ovviamente gli apprezzatissimi Moderat, tedeschi (“Moderat”, 2009), ma anche l’italiano Clap! Clap! (“A Thousand Skies”, 2017) e lo svedese Forss (“Ecclesia”, 2012), già trattato nell’articolo.
Parzialmente accostabile a questo esteso gruppo di artisti, ma anche al successivo, è il caso intrigante di Altered Natives, ovvero il londinese Danny Yorke, il cui stile eclettico è stato definito mutant house in mancanza di appellativi più calzanti. La sua musica, sempre fortemente percussiva, si muove al confine fra future garage, house, Uk funky, grime e ovviamente broken beat, il tutto con grande personalità e disinvoltura, che consentono alla cifra dell’autore di restare riconoscibili anche quando, da un disco all’altro, il filone di riferimento cambia notevolmente. I due album più espressamente legati al West London sound sono il primo, “A Thousand Days Of Patience” (2008) e il terzo, “Serial Vendetta” (2010), entrambi usciti sulla label personale di Yorke Eye4Eye Recordings. Potenti, irrefrenabili e ricchissimi di inventiva, i due dischi sembrano uno scorcio su una dimensione parallela in cui ritmi da totale mindfuck si sono impossessati della bass music e progettano di conquistare il dancefloor con linee acide e metri camaleontici. Oggi i due album sono piuttosto dimenticati, ma “Serial Vendetta” può vantare di aver ricevuto all’epoca un’accoglienza curiosa: uscito subito dopo un secondo album dallo stile più canonico e un singolo, “Rass Out”, che rientrava tranquillamente in ambito Uk funky, è stato definito da alcuni fan delusi – e ignari dei lati più sperimentali della produzione dell’artista – “il disco dubstep più merdoso di sempre”.

coolygRestando sullo Uk funky: la filiazione diretta dal bruk di questa scuola è esplicitamente tracciabile. Sorta dalle parti del 2007, è stata inquadrata al tempo come reazione dance-oriented all’affermazione del grime: Geeneus, dj della principale pirate station britannica Rinse Fm, ne diceva nel 2009: “Le ragazze nei club non ballavano più. [Con lo Uk funky] potevano ballare di nuovo, in pista c’era il 70% di ragazze”. Il nuovo sound era un incontro meticcio di tribal house, bassline vibranti, Mc’ing a un passo dal grime e ballabilissimi schemi reggaeton, ma ha avuto da subito un forte legame col bruk, del quale ha disciplinato la libertà ritmica adattandola a una sua versione sincopata del ritmo dembow, tipico della musica dancehall.
In effetti, producer come Apple – pioniere del genere con il brano “Mr. Bean”, del 2007 – e  Cooly G – considerata fra le punte più sperimentali del campo – hanno fatto ricorso espressamente all’etichetta “broken beat” per descrivere la propria musica. Spesso inquadrato come una moda passeggera conclusasi entro il 2010, lo Uk funky ha fatto da ponte fra il bruk e altri stili percussivi della dance music, aprendo la pista ad artisti di successo come i Disclosure e portando in dote ad ambiti distanti come fidget house, deep tech e afro-house il suo inventario di trick per la frammentazione del beat. Il primo album di Cooly G, “Playin’ Me”, uscito nel 2012, contiene il brano del 2010 “Up In My Head” (con “Narst/Love Dub”, dell’anno prima, il suo dodici pollici più dirompente) ed è una prova efficace di come l’impostazione broken sia filtrata in altri stili, semplificandosi e perdendo in buona parte il taglio jazzy, ma conservando la sua incisività.
Peraltro, lo Uk funky è tornato a far discutere di sé anche in anni più recenti: l’hype emerso nei primi anni Venti del nuovo millennio intorno all’incontro fra club culture londinese e suoni dance dell’Africa occidentale e meridionale, infatti, ha al centro in buona parte veterani della scena Ukf. Roska, Ikonika, Scratcha Dva sono fra i nomi principali a spingere l’ibrido di amapiano e gqom sudafricani, afrobeat del Golfo di Guinea e house urbana dai beat spezzati. Il “Fact Mix 842” curato nel 2022 da Fiyahdred, dj emergente della scena, offre un quadro significativo del legame ancora presente con il West London sound di inizio Duemila, includendo accanto a pezzi propri e delle figure chiave del settore anche brani di Sean Paul, Gotan Project e di broken beater nient’affatto ovvi come Clara Hill, Vikter Duplaix, Nathan Haines.

È votata all’africanità anche la carriera del newyorkese Eric Douglas Porter, in arte Afrikan Sciences: il suo stile, inaugurato da alcuni Ep e poi dall’album “Means And Ways” nel 2011, è incentrato su una outsider house decisamente originale e ricca di stratificazioni ritmiche (percussioni acustiche dal feel folklorico, cassa dritta, beat rotti… non per forza a tempo le une con le altre). Il risultato è spesso piuttosto sconclusionato, ma senz’altro lontano dai modelli precostruiti. Il doppio Lp “Circuitous” (2014) è in generale visto come il lavoro più rappresentativo del suo approccio eclettico, che dichiaratamente affonda le radici nella musica di Sun Ra e nelle ricerche dei 4Hero, ma al tempo stesso trae ispirazione da figure come la scrittrice di fantascienza Octavia Butler (prima autrice nera a vincere i massimi premi del settore, Hugo e Nebula). I 4Hero sono stati – complice una online board - anche l’occasione di incontro con il producer di Oakland Aybee (Armon Bazile), fondatore dell’etichetta Deepblak che, oltre alle creazioni dei due, ospiterà le uscite di altri musicisti dall’approccio similmente centrifugo. Fra questi, i concittadini Blaktroniks appaiono con Afrikan Sciences pure sul primo Lp realizzato da Bazile, “East Oakland Space Program” (Deepblak, 2009), con un taglio techno che deve tanto a “E2-E4” quanto alla drum’n’bass astratta di Photek e 4Hero. Il più broken dei tre album dei Blaktroniks è invece “Mechanized Soul”, del 2008: lo-fi hip-hop totalmente wonky nei deragliamenti dal beat dritto, ma al tempo stesso anche parecchio propenso a darci dentro con i riordinamenti di accento, con più di qualche eco West London sound.

r81217311612958071Un’altra scena post-2007 ha legato in modo nuovo i diversi strati della diaspora e delle culture africane: quella sviluppatasi in Portogallo, con fulcro sul progetto lisbonese Buraka Som Sistema. Nato nel 2006 ad Amadora, nella periferia Nord della città, il gruppo ha preso le mosse dalla passione del fondatore João Barbosa (Branko) per il West London sound e dalla sua fascinazione per il meltin’ pot musicale della Lisbona di quegli anni: un luogo dove le comunità di origini angolane, brasiliane, di Capo Verde, del Mozambico vivono a qualche isolato di distanza da giovani delle più svariate nazioni europee, o dagli expat portoghesi di ritorno da lunghi periodi condotti nel Regno Unito (con cui il Portogallo coltiva una relazione intensa e di durata secolare). Barbosa ha sviluppato una conoscenza approfondita della drum’n’bass e dell’Uk garage di matrice londinese, e nei primi anni Duemila si è interessato molto al bruk e alle sue evoluzioni, sia nella direzione del future jazz che in quella che presto diventerà lo Uk funky. Con lui nel progetto, il producer Rui Pité (Dj Riot), il beatmaker angolano Andro Carvalho (Conductor) e lo scrittore e vocalist angolano Kalaf Epalanga Ângelo, a cui si sono aggiunti nel tempo ulteriori membri. La musica dei Buraka Som Sistema, che ha conquistato numerosi premi e raggiunto le prime posizioni nella classifica portoghese (e, in un caso, anche in quella spagnola), porta nel flusso della club culture europea i ritmi di kuduro, zouk, baile funk – realizzando una fusione che scombina le categorie consolidate e cerca di riflettere la multicentricità di un mondo in perenne trasformazione sonora. Il primo album, “Black Diamond”, è anche uno dei primi usciti su Enchufada, etichetta fondata da Barbosa ed Epalanga Ângelo, che nel tempo ha dato spazio ad altri scombussolatori della distinzione centro/periferia (gli ibridatori cumbia/footwork Dengue Dengue Dengue!, il frullato bass/lusoglobalista di Pedro, l’hip-hop dubsteppante dei Macacos Do Chinês).

L’esposizione dei Buraka Som Sistema ha facilitato – quando non direttamente ispirato – l’emersione di decine di artisti, spesso di origini extraeuropee, interessati a ridefinire i canoni della dance music in senso globale e riterritorializzante. Negli ultimi anni, due label in particolare hanno contribuito a sviluppare il campo, entrambe peraltro coltivando una propria relazione con il West London sound. Una è Príncipe, dedicata al supporto della “dance music contemporanea proveniente da Lisbona, i suoi sobborghi, i suoi progetti, i suoi slum”: dal 2011 della pubblicazione del primo Ep di Dj Marfox, più di settanta uscite hanno esplorato le possibili riconfigurazioni electro di kizomba, batida, tarraxinha, kuduro, smontando e stratificando i ritmi in maniere che spesso – volontariamente o meno – se non sono broken beat fatto e finito, sono davvero solo a un paio di permutazioni d’accento dal ricaderci. “Não Fales Nela Que A Mentes” (Príncipe, 2020) della producer guineese/franco/porto/capoverdiana Nídia e la compilation all-stars “Verão Dark Hope” (Príncipe, 2020) sono probabilmente gli ascolti più indicativi in questo senso.
È di creazione più giovane, invece, Eclectic Beats Music, con sede 30 chilometri a Nord di Lisbona nella cittadina di Mafra. Il suo fondatore è il producer Rui Fradinho, a lungo residente a Londra e decisamente orientato al broken beat nelle sue produzioni col semplice cognome Fradinho (che in portoghese indica anche il pulcinella di mare). Sia nelle sue release personali (al momento un dodici pollici e l’Ep “Broken Beach”, del 2022) che nelle altre uscite dell’etichetta, il focus è tutto sull’incontro tra West London sound allo stato puro e sonorità tradizionali – con grande varietà geografica nelle destinazioni. La devozione al suono inizio anni Duemila degli artisti coinvolti è testimoniata dalle denominazioni dei progetti: Afro Bruk Band (un mini-album omonimo nel 2021), Peninsula Ibrukica (l’Ep omonimo è del 2023).
Non delimitabile a un paio di etichette di nuovissima apertura, la scena portoghese affascinata dalle stratificazioni ritmiche dell’African awakening include altre figure di spicco come l’angolano naturalizzato portoghese Batida (Pedro Coquenão), il cui recente progetto Ikoqwe lo vede accanto al rapper e attivista angolano Ikonoclasta (Luaty Beirão): “The Beginning, The Medium, The End And The Infinite” è uscito nel 2021 sulla storica etichetta belga Crammed Discs, fondata e diretta da Marc Hollander degli Aksak Maboul. Anche il rinomato producer salentino Andrea Mangia, ovvero Populous, ha avuto un rapporto con la nuova onda portoghese, e il suo album “Azulejos” (2017) è espressamente ispirato agli approfondimenti su di essa nel corso di un soggiorno a Lisbona durato alcuni mesi.

Nuove leve

I nomi contemporaneissimi del panorama portoghese hanno condotto già nel vivo dell’ultima diramazione post-2007: quella riguardante i giovani musicisti che, senza aver potuto contribuire direttamente agli anni di maggior visibilità del bruk, ne hanno successivamente ripreso stile e sonorità portando avanti il filone – e, all’occorrenza, aggiornandolo. Alcuni di loro hanno seguito attentamente gli sviluppi del genere, ma hanno esordito quando ormai questo non era più al centro dell’attenzione: è il caso, ad esempio, del londinese Aroop Roy, che ha pubblicato il suo primo (e in realtà anche ultimo) album nel 2010 su Freestyle Records. “Nomadic Soul” spinge sul lato più funky dello spettro stilistico, con canzoni immediate e rilucenti bassi sintetici, capaci sia di portare in primissimo piano le intricatezze ritmiche che di farle indietreggiare quando serva puntare sul versante più house.
Apre una rassegna di expat Stuart Li, in arte Basic Soul Unit: nativo di Hong Kong, è di fatto cresciuto a Toronto, dove con il moniker Basic Soul Unit ha rilasciato musica fin dal 2003. Negli anni, si muove fra techno e deep house, ma il suo primo album “Motional Response” esce solo nel 2013 e sovrappone alle due influenze un layer poliritmico e broken, che rende il suo groove meccanico, trascinante e decisamente originale. Yellowtail, invece, è Hiro Awanohara, musicista giapponese trasferitosi a New York: anche per lui l’album vero e proprio è uno solo, “Grand & Putnam”, del 2009. La formula è variegata e rigogliosa, con una componente future jazz preponderante che si combina ora con ritmiche hip-hop, ora con sfolgorante r’n’b, e spesso con beat in vario modo rotti. Vicenda un po’ diversa – ma stilisticamente piuttosto vicina – quella di Opolopo ovvero Peter Major, nato in Ungheria ma trasferitosi prestissimo in Svezia, autore già nel 2003 di un primo album in campo deep house/acid jazz. Nel 2009 ha pubblicato l’Lp “Beyond Jipangu” unendo composizioni proprie e remix di tracce di altri autori, realizzando una personale fusione di funk ipertecnologico, nu-soul, broken beat: un mix elettrizzante, e per certi versi preveggente della formula dei Knower. Uno schema simile tornerà almeno in parte anche nei lavori successivi, e in particolare nel remix album “Mutants” (Tokyo Dawn, 2011), in cui figurano diversi nuovi nomi della coda lunga bruk.
A proposito di Tokyo Dawn: proprio attorno al 2010, quest’etichetta nata nel 1996 a Francoforte è stata un punto di riferimento per la produzione di ritmi spezzati e dintorni. Nel suo catalogo figurano i beat hip-hop del berlinese Comfort Fit, il terzo e ultimo Lp dei Positive Flow (“Flow Lines”, del 2012), e soprattutto “Evoluzion” del collettivo di Magonza Soulparlor – album nu-soul effervescente e raffinato che con i suoi molti featuring di richiamo ha riacceso nel 2011 l’attenzione degli appassionati bruk di qualche anno prima.
Un’altra label che nei medesimi anni si è ritagliata un suo spazio è Futuristica Music, con base a Bournemouth, sulla costa meridionale dell’Inghilterra. La sua proposta include artisti su un ampio spettro di toni jazzati, dall’hip-hop strumentale al downtempo, e in diversi di questi la componente broken gioca un ruolo rilevante. Il fatto è decisamente percepibile in “The Light” (2009) della londinese Deborah Jordan, già cantante dei Silhouette Brown e dei Panacea di Robert Mitchell: nu-soul dal taglio intimo e cantautorale, con produzione affidata a Simbad, Atjazz, Aardvark, Colonel Red, oltre che ai compagni di etichetta Rise ed Electric Conversation. Un’ulteriore testimonianza della continuità è rappresentata dal poliedrico hip-hop di “The Unclosed Mind”, dello statunitense Replife (Daniel Gray Kontar). Nel disco, riedito nel 2008 dopo un’uscita l’anno prima solo in Giappone, compare una gamma di ospiti che include Rise e Deborah Jordan così come Mark De Clive-Lowe, Dego, Kaidi Tatham, Atjazz.

artworks000204639527dk6bdkt500x5001Avvicinandosi con gli anni al presente, cresce la probabilità di incontrare artisti che non siano entrati in contatto con il West London sound all’epoca del suo picco di diffusione, ma in un secondo momento, tramite musicisti che abbiano portato avanti il genere o riscoprendo i classici quando ormai già erano tali. La (relativa) ripresa dell’interesse è legata anche ad alcuni fenomeni significativi, come le serate Bruk Up promosse bimensilmente allo Hare & Hounds di Birmingham già nel 2014 e il ritorno a partire dal 2015 delle serate CoOp (come eventi episodici, i primi in collaborazione con Boiler Room).
Altri fattori sono l’avvio da parte di Gilles Peterson della webradio Worldwide.fm e l’emergere di alcune label londinesi fortemente incentrate sulla nuova scena bruk. La prima è Eglo Records, nata già nel 2008 e nei primi anni Dieci impegnata a promuovere emergenti come Floating Points (i cui primi singoli presentano in effetti alcuni tratti broken) o a stampare opere di producer già lanciati e dal consolidato taglio jazzy (un esempio su tutti: il dj set “Fabric Live 59” di Four Tet, uscito nel 2011 e parecchio spezzato nelle soluzioni ritmiche).
Le prime esplicite incursioni bruk iniziano attorno a metà decennio, con la pubblicazione di due Ep della coppia Dego/Kaidi Tatham (2014 e 2015), e proseguono con lavori di Steve Spacek, per poi arrivare a nomi importanti per il nuovo panorama: Henry Wu e K15. Il primo è nient’altri che il polistrumentista Kamaal Williams (alla nascita Henry), che successivamente allagherà la sua notorietà come parte del duo nu jazz Yussef Kamaal. Il secondo è Kieron Ifill, legato al quartiere di Tottenham al punto tale da includerne il codice postale (N15) nel proprio nome d’arte. Quando nel dicembre 2015 esce su Eglo “Wu 15 Ep”, dodici pollici con un pezzo di Wu, uno di K15, e due congiunti, entrambi hanno già alle spalle alcune uscite: Williams, in particolare, ha pubblicato lo stesso anno i notevoli dodici pollici “Negotiate” e “Good Morning Peckham” (quest’ultimo sull’allora neonata Rhythm Section International). Il disco già scandiva nuove coordinate fra jazz fusion funkeggiante e levigata, deep house, dubstep, hip-hop, ritmi rotti. Ifill, di contro, aveva precedentemente esplorato soprattutto lidi lo-fi hip-hop, ma con gli Ep “Theme Music For A Pariah” e “The Black Tape” (entrambi 2014) aveva decisamente lambito terreni affini al sodale. Pur contando quattro tracce in tutto, l’Ep realizzato in coppia mette in chiaro alcuni aspetti essenziali del nuovo corso bruk: più che una prosecuzione lungo i canoni precedenti, o un allontanamento lungo nuove direttrici, in gioco c’è un aggiornamento dell’ethos, una rimessa al centro della libertà e della spinta ibridante. La convergenza dei primi anni Duemila nasceva soprattutto da acid jazz, drum’n’bass, hip-hop, deep house, downtempo; a metà anni Dieci, invece, al centro della scena stanno wonky sound, nu jazz, grime, dubstep e derivati vari in campo bass music, oltre che ovviamente l’intera cassetta degli attrezzi del West London sound della prima ondata.
I percorsi di Wu e Ifill poi proseguono lungo vie separate: Williams già nel 2015 è ospite di una Boiler Room session da cui nasceranno il duo Yussef Kamaal e una seguita carriera in campo nu jazz; nel 2019 il suo “Dj-Kicks” fa una carrellata di riferimenti che vanno da Seiji, Kaidi Tatham e Phil Asher a Spacek, K15 e Tenderlonious – senza disdegnare un tot di sconfinamenti house, funk, contemporary jazz. K15 invece prosegue le sue esplorazioni in ambiti ambito deep house e ambient-jazz. Torna al broken beat con il 45 giri “Sunbeams” (Eglo, 2018), e nel 2022 cofirma su Futuristica con Deborah Jordan l’album “Human”, che combinando toni soffusi, synth acidi e inflessioni jazzy dà una buona prova dell’ampiezza di spettro raggiunta dal musicista.

a2199202371_651L’altra etichetta chiave di questa piccola rinascita è la figlia diretta del suo evento-simbolo: CoOp Presents. Fondata nel 2018 da IG Culture e Alex Phountzi – gli storici ideatori del CoOp – la label si pone esplicitamente come casa per gli artisti del settore e come vetrina collaborativa per le loro produzioni. Al centro del catalogo sono infatti le compilation: innanzitutto la serie “Selectors Assemble” (tre Ep che fra 2017 e 2018 raccolgono nomi della scena), e poi nel 2020 “Plug One”, doppio Lp con i contributi di diciassette artisti, seguito nel 2021 da “Plug One Extras”. Tra i musicisti coinvolti, il più discograficamente attivo è senz’altro Reginald Omas Mamode IV, con molti album, Ep e mini-album a proprio nome, fra jazz e nu-soul: il più bruk è “We Are The Universe”, 2015 (Stevie Wonder nel cuore e una dose massiccia di slittamenti wonky).
Altre figure con qualche uscita maggiore pubblicata sono Wonky Logic (nomen omen, e il mini-album del 2021 “Transdimensional Fuunk (Transformed For Human Consumption)” ne dà conferma), il milanese Tommaso Garofalo aka Turbojazz (“Whateversim”, del 2023, si muove disinvoltamente tra funky e deep house, ma infila un paio di numeri broken fusion niente male) e soprattutto EVM128. Quest’ultimo è il bristoliano Clifford Luke Meads, veterano della nuova scena con Ep all’attivo fin dal 2011. Del suo incontro col CoOp ai tempi del Plastic People ricorda: “La prima volta che ci ho messo piede ero sbalordito. Una stanza buia illuminata di rosso, con un sound system enorme: mi ha immediatamente catturato. Non avevo mai sentito un’energia di quel tipo. Era così nuova. Jazz dancers si gettavano sul dancefloor come b-boys, ogni tanto partivano le sirene da dietro la postazione del dj. Era diverso da ogni altra cosa avessi visto o sentito. […] Mi ha così ispirato che finita la serata sono tornato in studio e mi sono messo a comporre broken beats”. Il suo primo Lp, “Nova”, esce nel 2015, e mostra efficacemente i cambiamenti nel nuovo standard del broken sound: i bassi, ruvidi e sintetici, sono in risalto, il taglio è tech-house dal suono asciutto e digitale, la cassa batte dritta ma è contrappuntata sistematicamente da offbeat sulle altre percussioni. Tutto è ballabile, melodico, trascinante, contemporaneo ma con radici early-2000s in chiara evidenza.
Oltre a un featuring con Omar, l’album include una collaborazione con un altro nome di rilievo della scena, Shy One. La londinese Mali Larrington-Nelson inzia il suo percorso con l’incoraggiamento di Scratcha Dva, producendo basi grime a lungo rimaste inedite (e da poco pubblicate sul Bandcamp dell’artista). Il primo e unico Lp, dal titolo azzeccato “Bedrooms And Boomkicks” (2012), la vede alle prese con un fantasioso ibrido grime/Uk funky, spezzato quanto si vuole ma meno efficace di due Ep successivi, “Spoons” e “From The Floor To The Booth” (Eglo, 2022). Il primo, del 2018, è realizzato con il rapper grime Kwam e mostra al meglio la capacità della producer di spaziare fra gli stili, mantenendo sempre un suono tagliente e sperimentale. Ancora nelle compilation CoOp si incontra infine Risa T, giovane producer nata a Tokyo ma residente a Londra: nel suo unico Ep “Galaxy” (CoOp Presents, 2020) il versante più elettronico del bruk sembra incontrare la creatività videogiocosa di Iglooghost.
Il progetto WheelUp formato del West-londoner Danny Wheeler ha invece fatto parlare di sé per le sue uscite su Tru Thoughts. “Good Love” (2021) e “We Are The Magic” (2022) evidenziano la loro connessione alla scena storica, ospitando Afronaught, Bémbé Ségué e Kaidi Tatham, slanciandosi verso una deep house fluida e funkeggiante che raccoglie, prevedibilmente, il plauso di Gilles Peterson su Worldwide.fm.

Documentarsi su eventuali ritorni di fiamma al di fuori del Regno Unito è più insidioso: l’attenzione è minore, e mentre attorno a Londra è rinata una piccola scena esplicitamente connessa al bruk storico, lo stesso non sembra potersi dire per altri luoghi del mondo. Alcuni artisti polacchi meritano comunque approfondimento per la loro rielaborazione molto originale. Mooryc, cioè, Maurycy Zimmermann, opera in realtà da Berlino: il suo primo album “Roofs” esce nel 2013 e pattuglia i territori tra tech-house, indietronica, synth-pop – ovviamente con approccio ritmico debitamente broken. Il successivo “Wiped Out” (Sonar Kollektiv, 2016) compie invece un’azzeccata svolta folktronica, che pur alleggerendo notevolmente il quantitativo di ritmi spezzati produce qua e là una commistione davvero inedita fra il nervosismo dei beat rotti e il luminoso tepore di arpeggi e suonicchi acustici. Di tono opposto invece Zima Stulecia, un progetto di Marek Pędziwiatr e Marcin Rak, tastierista e batterista di Błoto ed EABS ovvero due dei maggiori esponenti del nutrito panorama nu jazz nazionale (già di per sé percettibilmente influenzato dalle tendenze broken beat). L’unico album del duo è “Minus 30°C” (2023) e presenta, come pronosticato dal titolo, un suono glaciale alimentato da synth pad caliginosi e beat fratturati in modo chirurgico; la matrice jazzistica del disco emerge tuttavia nella vitalità di timbri e sviluppi, che riescono a rendere ustionante il contatto con le tracce.

286519693_540509724221333_7982231137632685337_n1Anche per l’Australia è possibile effettuare un’analisi. A Melbourne sono attive dai primi anni Dieci due formazioni nu-soul, Hiatus Kaiyote e 30/70, il cui approccio ritmico decisamente frastagliato diventa un modello per altri artisti locali, e spinge una riscoperta dei ritmi rotti che va di pari passo con l’attenzione wonky ai (non più tanto) millimetrici slittamenti di beat. Qualificare le due band tout court come revival broken beat sarebbe riduttivo, ma tanto il funambolico “Choose Your Weapon” (2015) quanto il più classico – ma altrettanto focoso – “Elevate” (2017) presentano una quantità di trick ritmici e commistioni fusion/soul/hop da rendere palese l’affinità elettiva con il filone. La sensazione è peraltro accentuata andando a esaminare gli album di esordio di due soulsinger della zona, collateralmente associati ai due gruppi. “Control” di Natalie Slade esce su Eglo nel 2020 con la produzione e gli arrangiamenti di Simon Marvin, tastierista degli Hiatus Kaiyote. Rispetto ai colori accesi della band d’origine di Marvin, quella proposta è una chiave più tenue e intimistica: a livello di scelte ritmiche, però, il disco spinge ulteriormente verso un’acquisizione personale dei più variegati modelli londinesi. Il vulcanico “Deity” (2022) di Emma Volard ha invece come ospite la cantante dei 30/70 Allysha Joy e si getta a capofitto nel jazz-rock, con timbri elettrici e avvolgenti che non esitano a farsi incendiari negli episodi più concitati.

Ritorno al nu jazz

Gli ultimi artisti trattati hanno condotto ormai con entrambi i piedi in campo nu jazz, e non si tratta di un caso. Non solo il nu jazz è, a cavallo fra Novanta e Duemila, terreno d’origine per il bruk, ma in nessun altro ambito attuale le tre direttrici affrontate in quest’ultima parte di articolo – il percorso dei nomi storici, le influenze su generi attigui, la presa su musicisti giovani – convergono altrettanto spontaneamente. Un’ampia fetta del nu jazz di oggi prende infatti le mosse dal broken beat di inizio Duemila, ne riadatta e ne espande le soluzioni, e contribuisce alla scena odierna. Rimandando all’articolo dedicato per un’esposizione organica sulle evoluzioni del fenomeno nel corso degli anni Dieci, è il caso qui di soffermarsi sul tracciato specifico dell’approccio broken in quel campo e integrare il quadro con alcune uscite, soprattutto a ridosso del 2020, che possono dare un’idea degli sviluppi in corso.

61qekhpopl._uf10001000_ql80_1Una grossa novità rispetto ai primi anni Duemila riguarda l’entrata in gioco dei batteristi. Nelle prime fasi del suo sviluppo, il broken beat non poteva prescindere dall’uso di drum machine e digital audio workstation per la creazione e l’esecuzione dei suoi ritmi. Più che la cervelloticità in sé, o la mancanza di abilità tecniche da parte dei musicisti coinvolti, a rappresentare un ostacolo per i potenziali strumentisti era la difficoltà a risultare groovy ed espressivi nella loro riproposizione, in studio o dal vivo. Anche quando il giro di musicisti si allarga un po’ rispetto a quello del Saga Centre, il numero dei batteristi con esperienza su ritmi bruk è estremamente esiguo: essenzialmente, sulla piazza ci sono solo Richard Spaven e Tom Skinner.
Il passare del tempo cambia però le cose. Anche altri musicisti, dalla solida estrazione jazz, iniziano a cimentarsi con ritmi frenetici stile jungle oppure spezzati come nel bruk. Gli statunitensi Mark Guiliana, con i suoi Now Vs Now e poi con Donny McCaslin, e Nate Wood con i Kneebody diventano punti di riferimento, prove del fatto che è possibile suonare al tempo stesso funky, spezzato e intrigante, anche su una batteria vera (si vedano il primo album omonimo dei Now Vs Now, del 2009, “You Can Have Your Moment” dei Kneebody, del 2010, e “Casting For Gravity” di McCaslin, del 2012). In tempi più recenti, a questi modelli si è affiancato Justin Tyson degli R+R=Now di Robert Glasper, con un piglio più wonky (l’esordio “Collagically Speaking” è del 2018). Il loro stile è legato al versante più fusion dell’avant-jazz, suona tendenzialmente più distaccato rispetto a quello cercato dai broken beater della prima onda, ma è uno stimolo importante per chi si approccia al filone dal lato jazzistico. E proprio attorno all’inizio degli anni Dieci, c’è una schiera di giovani musicisti, affascinati dai ritmi della club culture britannica, che non potrebbe desiderare di meglio.

Si è già detto del ruolo di Henry Wu/Kamaal Williams nell’alimentare la risorta scena bruk londinese: nella fase successiva, la fusion inebriante degli Yussef Kamaal – fondati in coppia con il batterista Yussef Dayes – è un propellente per la già ricca miscela stilistica rappresentata dal nu jazz britannico. Ancor prima che nel loro unico album in studio “Black Focus” (2016), l’anno prima Dayes era comparso in “Two For Joy”, primo Lp dei Ruby Rushton guidati dal fiatista Tenderlonious. L’album, uscito sull’etichetta 22a gestita dallo stesso Tenderlonious, presenta un sound meno levigato ma altrettanto articolato sul piano ritmico, e mostra il valore aggiunto del drumming spezzato anche a chi fosse in cerca di un taglio più spigoloso.
Intanto, Richard Spaven ha proseguito nello sviluppo della sua espressione. Con Rob Mullarkey e il tastierista dei Flowriders Vincent Helbers in formazione, nonché Matt Lord dei Bugz alla produzione, ha pubblicato già nel 2010 l’Ep “Spaven’s 5ive” per la oggi prestigiosa – e allora neonata – etichetta Jazz Re:freshed. Nel 2012 lo si trova poi accanto a Helbers nell’album “Hear To See”, uscito a nome Seravince e in piena continuità con lo stile aereo di entrambi. Il percorso solistico prosegue con quattro album, di cui “The Self” (2017) mostra il versante più immaginifico e spirituale della musica del batterista (e forse del bruk tutto), e lo vede in compagnia di tre artisti significativi le cui carriere intersecano quella di Spaven anche in altri punti: il cantante neozelandese Jordan Rakei, il producer olandese Jameszoo e il bassista svedese Petter Eldh. Eldh in particolare realizza nel 2020 il singolare mini-album “Projekt Drums Vol. 1”, che in ogni traccia lo affianca a un batterista diverso (fra questi, proprio Richard Spaven e Nate Wood); il bassista inoltre è parte nel 2021 della band che incide “Æ”, pietra d’angolo del wonky jazz, e insieme coronamento, trasfigurazione e superamento del filone broken beat. Insieme al bassista, il solito Mullarkey, Dan Nicholls (Strobes) e Matt Calvert (Strobes, Three Trapped Tigers), il sassofonista Otis Sandsjö (altro nome di punta del wonky jazz) e il bandleader – nonché batterista degli ipercinetici Phronesis – Anton Eger. Eger suona anche in “Graviton” (2019) del pianista londinese Andrew McCormack, album che con il successivo “Graviton: The Calling” costituisce una suggestiva bilogia in cui si incontrano con efficacia suoni broken, nu jazz, taglio minimalista e jazz accademico. Il giro di nomi coinvolti nei due dischi testimonia la positiva interazione fra figure storiche e nuove leve dalle frequentazioni variegate (in questo caso, anche afrobeat e math-rock): oltre a Eger, nel primo figurano Eska, Rob Mullarkey e Shabaka Hutchings; nel secondo invece ci sono Tom Herbert al basso e Joshua Blackmore degli Strobes e dei Troyka alla batteria.

theoncross202107080644021Tom Skinner, da par suo, si è mobilitato in campo afrobeat, e ha convertito la sua abilità con le fratture ritmiche alla lezione di Tony Allen, ponendole alle fondamenta della nuova scena londinese centrata attorno a Sons Of Kemet e Melt Yourself Down. Si è già detto dei suoi contributi ai progetti di Dave Okumu, London Brew e Seven Generations, ma in buona parte delle uscite del giro l’elemento rimane invece sottotraccia. Emerge tuttavia in primo piano nei dischi di due membri degli Ezra Collective: il suonatore di bassotuba Theon Cross e il tastierista Joe Armon-Jones, che fanno ampio uso di beat programmati nei loro recenti “Intra-I” (2021) e “Archetype” (2023), dando alla loro musica un notevole slancio fantascientifico, urbano e Uk garage. Un altro Cross – Nathaniel, fratello trombonista di Theon – compare nell’ambizioso “Earthbound”, “mappazzone magmaticospace-afrobeat su tre Lp, uscito nel 2020 a firma Likwid Continual Space Motion – che poi sarebbe solo l’ultimo dei mille moniker di IG Culture. Il progetto include una dozzina di componenti, fra i quali entrambi gli ideatori del CoOp, e rappresenta l’esempio più calzante di come passato, presente e futuro si compenetrino totalmente nell’attuale panorama broken jazz britannico.

Spostandosi in un campo più affine al producing elettronico, i beat tendono a raddrizzarsi un po’, conservando in filigrana schemi di accenti riconoscibili, legati ora all’hip-hop, ora al dubstep. Due esperienze britanniche consolidate condividono nel loro nome, curiosamente, un riferimento alla vastità del loro organico: Submotion Orchestra e Hidden Orchestra. La prima è guidata dal batterista Tommy Evans e dal producer Dom "Ruckspin" Howard, originari di Leeds. “Fragments”, uscito nel 2012 su Exceptional, è un esempio trasparente della tavolozza ricca, luminosa e avvolgente creata dall’inclusione nella loro formula di fiati, voce, tastiere e corpose influenze dubstep. Più umbratili le partiture dell’“orchestra nascosta” di Joe Acheson, compositore di formazione classica residente a Brighton: “Dawn Chorus” (2017) è forse l’album in cui modern classical, sfumature folktroniche e i timbri jazz consueti per la sua musica incontrano i beat più segmentati.

Vive invece a San Pietroburgo Georgy Kutonov, che con il suo progetto Long Arm combina dal 2011 di “The Branches” beat spezzati, hip-hop strumentale e toni jazz, creando musica dal forte carattere cinematico che ricorda nel mood tanto la Hidden Orchestra quanto gli storici Mustang di Alex Attias. I suoi dischi escono su Project:Mooncircle, label berlinese che opera dal 2002 e negli ultimi anni ha ospitato diverse uscite sul versante più Idm ai confini con l’ambito: le sognanti strumentali techno-hop del russo Pavel Dovgal in “The Aura” (2016) e le atmosfere enigmatiche di “Belonging” (2020) di Nicolas De Araújo Peixoto aka Takeleave sono solo due fra le molteplici alchimie di ritmi sottilmente spezzati, passo downtempo e tinte jazzistiche esplorate dagli artisti dell’etichetta.
Un certo numero di formazioni ha infine sviluppato un approccio ulteriormente ibrido: ricorrendo a una strumentazione jazz, suonano partiture che ricordano da vicino quelle dei produttori elettronici. L’intuizione non è nuova, e band come gli austriaci Elektro Guzzi e i tedeschi Christian Prommer's DrumLesson (editi da Sonar Kollektiv) hanno già esplorato a fondo le possibilità di questa sorta di live techno. Per non dire dei remake squarepusheriani degli Shobaleader One (manco a dirlo Adam Betts dei Three Trapped Tigers, Dan Nicholls degli Strobes e Chris Montague dei Troyka, oltre allo stesso Squarepusher), se non propriamente bruk certamente molto frammentati ritmicamente.
Chi in campo espressamente broken beat si è orientato su orizzonti simili è stato però meno legato ai modelli elettronici, e ha costruito stili con un proprio valore aggiunto, capaci insomma di andare oltre al divertissement. L’album omonimo dei berlinesi Key Elements (2020), anch’esso pubblicato da Sonar Kollektiv, l’Ep pressoché post-rock “Different, Us” (2021) dei milanesi Bo!led, l’ultimo Lp “Pressure” (2023) dei Culross Close – che eseguono musica di Kieron Ifill/K15 – sono, ognuno con la propria cifra, solidi indizi verso una direzione creativa finora poco esplorata.

In base a una cronologia spannometrica, dalle prime mosse del broken beat a oggi è trascorso un quarto di secolo. Solo in un'iniziale decina d'anni al fenomeno è stata dedicata una qualche (settoriale) attenzione, eppure le innovazioni di questo filone anomalo, mai davvero emerso e mai davvero sepolto, continuano a riverberarsi e fornire stimoli creativi. Per via diretta, o attraverso le ricadute avute su un ventaglio di stili e musicisti. Nulla lascia prospettare che questo processo sia destinato ad affievolirsi: come l'introduzione nel pop dei tempi dispari, qualche decennio prima, alcune svolte giungono per restare e, al netto degli eventuali ondeggiamenti di visibilità, entrano a far parte del vocabolario di chiunque - anche in generi distantissimi - abbia la curiosità di attingervi. Lunga vita ai beat spezzati, dunque. Tanto, ci sarà sempre chi nel far musica si chiederà, come Kode9 in un'intervista di qualche tempo fa: “Quanto posso incasinarlo ancora questo ritmo, prima che perda il suo groove?”.

Discografia

Tre album:

New Sector Movements- Download This (Virgin/Main Squeeze, 2001)

Jazzanova - In Between (Jazzanova Compost Records, 2002)

Mark De Clive-Lowe - Journey 2 The Light (Freedom School, 2007)

Altri dieci:
4Hero - Two Pages (Talkin' Loud/Reinforced, 1997)

P'Taah - Compressed Light (Ubiquity, 1999)

Afronaught - Shapin' Fluid (Apollo, 2001)

Jazztronik – 七色 = Seven Colours (Japan Record, 2004)

John Arnold - Neighborhood Science (Ubiquity, 2004)

Brotherly - One Sweet Life (Music At Monumental, 2007)

2bo4 - Junkyard Gods (Sonar Kollektiv/Red Egyptian Jazz, 2008)

Dego -A Wha' Him Deh Pon? (2000 Black, 2011)

Evm128 - Nova (Studio Rockers, 2015)
Richard Spaven - The Self (Fine Line Records, 2017)
In ordine di citazione:
Parte uno:West London sound
Meridiano zero
New Sector Movements - Groove Now/New Goya (12'', People, 1997)
New Sector Movements - My History (12'', People, 1998)
Neon Phusion - The Future Ain't The Same As It Used 2 B (Laws Of Motion, 1999)
New Sector Movements - Download This (Virgin/Main Squeeze, 2001)
Afronaught - Shapin' Fluid (Apollo, 2001)
Likwid Biskit - Anthology: Then & Now (compilation, Main Squeeze, 2017)
4Hero - Two Pages (Talkin' Loud/Reinforced, 1998)
DKD - Future Rage (Bitasweet, 2004)
Agent K - Feed The Cat (Laws Of Motion, 2022)
Bugz In The Attic - Booty La La La (singolo, V2, 2005)
Bugz In The Attic - Back In The Doghouse (V2, 2006)
Allargando il cerchio
Homecookin' - Do What U Wanna (Sole Music, 2001)
Mark De Clive-Lowe - Tide's Arising (Columbia, 2004)
Mark De Clive-Lowe - Face (remix album, Columbia, 2006)
Nathan Haines - Sound Travels (Chillifunk, 2000)
Nathan Haines - Squire For Hire (Chillifunk, 2003)
Legends Of The Underground - Original Soundtrack Vol. 1 (Kindred Spirits, 2005)
Legends Of The Underground - Original Soundtrack Vol. 2 (Kindred Spirits, 2007)
The Politik - The Politik (Antipodean Records, 2007)
Mark De Clive-Lowe - Journey 2 The Light (Freedom School, 2007)
Alex Attias Presents Mustang - Back Home (Compost, 2004)
Alex Attias - The Chromatic Universe (compilation, Visions, 2002)
Rima - This World (Jazzanova Compost Records, 2003)
Isoul8 - Balance (Sonar Kollektiv, 2006)
Domu - Save It (12'', 2000 Black, 2001)
Domu - Up + Down (Archive, 2001)
Domu - Return Of The Rogue (Archive, 2005)
Umod - Enter The Umod (Sonar Kollektiv, 2004)
Jazzanova - Let Your Heart Be Free (12'', Sonar Kollektiv, 2004)
Nicola Kramer - The Other Side (Village Again, 2007)
Ian O'Brien - Desert Scores (Ferox, 1997)
Ian O'Brien - Gigantic Days (Peacefrog, 1999)
Ian O'Brien - A History Of Things To Come (Peacefrog, 2001)
Vanessa Freeman - Shades (Chillifunk, 2004)
Ursula Rucker - Supa Sista (!K7, 2001)
Ursula Rucker - Silver Or Lead (!K7, 2003)
Colonel Red - Blue Eye Blak (People, 2005)
Omar - Sing (If You Want It) (Ether, 2006)
Silhouette Brown - Silhouette Brown (Ether, 2005)
Tom Noble - Tom Noble (Laws Of Motion, 2003)
Sk Radicals (People, 2001)
Positive Flow - Positivity (Native Source, 2006)
Audiomontage (Freerange, 2000)
Simbad - Peaktime (12'', Earth Project, 2004)
Simbad - Sweet Exorcist/Gospel Golpe (12'', GAMM, 2005)
Spacek - Vintage Hi·Tech (!K7, 2003)
Breakthrough - Breakthrough (Neosite, 2005)
Ty - Upwards (Big Dada, 2003)
Ty - Closer (Big Dada, 2006)
Bansuri - Bansuri (Traficante, 2005)
Finn Peters - Su-Ling (Babel, 2006)
Les Nubians - One Step Forward (Virgin France, 2003)
Shur-i-kan - Waypoints (Freerange, 2004)
Two Banks Of Four - City Watching (Sirkus, 2000)
Two Banks Of Four - Three Street Worlds (Red Egyptian Jazz, 2003)
Chris Bowden - Slightly Askew (Ninja Tune, 2002)
Two Banks Of Four - Junkyard Gods (Sonar Kollektiv/Red Egyptian Jazz, 2008)
Numbers - Numbers (Main Squeeze, 2001)
Robert Mitchell's Panacea - Trust (F-ire, 2005)
Brotherly - One Sweet Life (Music At Monumental, 2007)
4Hero - Creating Patterns (Talkin' Loud, 2001)
Cousin Cockroach - This Ain't Tom N' Jerry (12'', Bitasweet, 2002)
Somatik - Learning The Colours (Goldhill, 2007)
Maddslinky - Make Your Peace (Laws Of Motion, 2003)
Phuturistix - Feel It Out (Hospital Records, 2007)
Ltj Bukem - Earth Volume One (compilation, Earth, 1996)
Nubian Mindz - Black Science (12'', Archive, 1999)
Nubian Mindz - Interstellar Blackness (12'', 2000 Black, 1999)
Nubian Mindz - Forgotten Parts (12'', Archive, 2000)
Nubian Mindz - Check Da Vibe (2000 Black, 2001)
As One - Planetary Folklore (Mo Wax, 1997)
As One - 21th Century Soul (Ubiquity, 2001)
As One - Out Of The Darkness (Ubiquity, 2004)
As One - Elegant Systems (Versatile, 2005)
As One - Planetary Folklore 2 (Archive, 2006)
Modaji - Pre-Sets (Dile, 2000)
Modaji - Modaji (Laws Of Motion, 2000)
Russ Gabriel - Into The Unknown (Out Of The Loop, 2002)
Global Communication - Fabric 26 (live mix, Fabric, 2005)
Atjazz - Labfunk (Mantis, 2001)
Atjazz - Labresults (Mantis, 2002)
Atjazz - Full Circle (Mantis, 2007)
Parte due: altre latitudini
Germania
Jazzanova - In Between (Jazzanova Compost Records, 2002)
Jazzanova - The Remixes 2002-2005 (compilation, Sonar Kollektiv, 2005)
Jazzanova -...Broad Casting From OFFtrack Radio (mixtape, Sonar Kollektiv, 2007)
Jazzanova - Remixed (remix album, Sonar Kollektiv, 2003)
Clara Hill - Restless Times (Sonar Kollektiv, 2004)
Clara Hill - All I Can Provide (Sonar Kollektiv, 2006)
Clara Hill's Folkways - Sideways (Sonar Kollektiv, 2007)
Kosma - Early Works (InfraCom!, 2002)
Kosma - New Aspects (InfraCom!, 2005)
Extended Spirit - Solid Water (Dialog, 1999)
Deyampert - Shapes & Colors (Sonar Kollektiv, 2003)
Beanfield - Human Patterns (Compost, 1999)
Beanfield - Seek (Compost, 2004)
Bajika - In Wonderland (Chinchin, 2010)
Wei-Chi - One I, Two Eyes (Compost, 2004)
Les Gammas - Exercices de styles (Compost, 2000)
Trüby Trio - Elevator Music (Compost, 2003)
Trüby Trio - Dj-Kicks (mix, !K7, 2001)
Intuit - Intuit (Compost, 2004)
Inverse Cinematics - Slow Swing (12'', Pulverm 2002)
Inverse Cinematics - Shoot The Pianist (12'', Fluid Ounce, 2003)
Inverse Cinematics - Detroit Jazzin' (12'', Pulver, 2004)
Inverse Cinematics - Airways (12'', Pulver, 2005)
Inverse Cinematics - Vogelhaufen (Ep, Faces, 2005)
Inverse Cinematics - Passin' Through (Pulver, 2008)
Slope - Komputa Groove (Sonar Kollektiv, 2005)
[re:jazz] - (Re:mix) (remix album, InfraCom!, 2003)
[re:jazz] - Electrified (remix album, InfraCom!, 2010)
Giappone
Kyoto Jazz Massive - Substream (Ep, Compost, 2001)
Kyoto Jazz Massive - Spirit Of The Sun (Compost, 2002)
Kyoto Jazz Massive - Re Kjm (Tribute Tracks) (Quality!, 2004)
Kyoto Jazz Massive - By Kjm (Remix Tracks) (Quality!, 2005)
Sleepwalker - Sleepwalker (Especial, 2003)
Sleepwalker - The Voyage (Especial, 2006)
Sleepwalker - Works (Village Again, 2007)
Hajime Yoshizawa - Music From The Edge Of The Universe (Geneon, 2005)
Shuya Okino - United Legends (Geneon, 2006)
Jazztronik -七色 = Seven Colours (Japan Record, 2004)
Jazztronik - en:Code (Tokuma Japan Communications, 2005)
Yukihiro Fukutomi - On A trip (Cutting Edge, 2000)
Yukihiro Fukutomi - Timeless (Cutting Edge, 2000)
Yukihiro Fukutomi - Equality (File, 2004)
Svezia
Quant - Funkster (Ep, Hollow, 2002)
Quant - Tryin' (12'', Ecco.Chamber, 2004)
Quant - Getting Out (Ecco.Chamber, 2004)
Jol - Moody Aow (April, 2003)
Swell Session - Selected Singles & Remixes (compilation, Freerange, 2010)
Stateless - Art Of No State (Freerange, 2003)
Swell Session - Swell Communications (Freerange, 2007)
Ernesto - Album (Hollow, 2004)
Ernesto - A New Blues (Exceptional, 2005)
Ernesto - Find The Form (Columbia, 2006)
Forss - Soulhack (Sonar Kollektiv, 2003)
Stati Uniti (e Canada)
Vikter Duplaix - Manhood (12'', Groove Attack Productions, 2000)
Vikter Duplaix - International Affairs (Hollywood, 2002)
Vikter Duplaix - Bold And Beautiful (BBE, 2006)
Vikter Duplaix - Dj-Kicks (mix, !K7, 2002)
King Britt - The Philadelphia Experiment - Remixed (remix album, Ropeadope, 2002)
King Britt Presents Scuba - Hidden Treasures (compilation, Om, 2002)
King Britt Presents Black To The Future (compilation, Handcuts, 2002)
King Britt Presents Jazzmental (compilation, Slip 'n' Slide, 2005)
Dj Rels - Theme For A Broken Soul (Stones Throw, 2004)
P'Taah - Compressed Light (Ubiquity, 1999)
P'Taah - De'compressed (remix album, Ubiquity, 2001)
John Arnold - Universal Mind (12'', Fragile, 2000)
John Arnold - Neighborhood Science (Ubiquity, 2003)
John Arnold - Style And Pattern (Ubiquity, 2005)
Ayro - Electroniclovefunk (Omoa Music, 2003)
Jeremy Ellis - Lotus Blooms (Ubiquity, 2005)
John Beltran - Americano (Exceptional, 2002)
John Beltran - In Full Color (Ubiquity, 2004)
Craig Taborn - Junk Magic (Thirsty Ear, 2004)
Filastine - Burn It (Soot, 2006)
Sa-Ra Creative Partners - The Hollywood Recordings (Babygrande, 2007)
Sa-Ra Creative Partners Presents Dark Matter & Pornography (mixtape, Tube, 2005)
Moonstarr - Dupont (Public Transit, 2001)
Nuova Zelanda e Australia
Recloose - Cardiology (Planet E, 2002)
Lanu - This Is My Home (Ubiquity/Tru Thoughts, 2007)
Brasile
Patricia Marx - Respirar (Trama, 2002)
Patricia Marx - Patrícia Marx (Trama, 2005)
Bruno E. - Lovely Arthur (Trama, 2003)
Francia
Steppah Huntah - Walk This Step (12'', Compost, 2003)
Steppah Huntah - Things About Us (Jazzmin, 2007)
Château Flight - Puzzle (Versatile, 2000)
Outlines - Our Lives Are Too Short (Sonar Kollektiv, 2007)
Sayag Jazz Machine - No Me Digas (Uwe, 2007)
Danimarca e Finlandia
Nuspirit Helsinki - Nuspirit Helsinki (Guidance, 2002)
Jori Hulkkonen - When No One Is Watching We Are Invisible (F Communications, 2000)
The Society - Electronic Bionic (Freestyle, 2005)
Austria
Peace Orchestra - Peace Orchestra (G-Stone, 1999)
Peace Orchestra - Reset (remix album, G-Stone, 2002)
Megablast - Creation (G-Stone, 2003)
Makossa & Megablast - Kunuaka (G-Stone, 2007)
Albanek - Shade Of Blue (Ecco.Chamber, 2003)
Paesi Bassi
Aardvarck - Emsees (Ep, Music For Speakers, 2001)
Aardvarck - Find The Cow (Delsin, 2002)
Rednose Distrikt - Poes (Kindred Spirits, 2007)
Madcap - Third Person (Ep, Music For Speakers, 2002)
Sandor Caron - Harmonica And Cross (Music For Speakers, 2001)
Roomtone - Music Against People (Ep, Music Against People, 2002)
Roomtone - Gloom In Major (Trytone, 2004)
Sonar Lodge - Soundeffects (Music For Speakers, 2000)
Sonar Lodge - Needlework (Music For Speakers, 2004)
Strange Attractor - Rorschach (Music For Speakers, 2004)
Strange Attractor - Rorschach II (Music For Speakers, 2005)
Szense - Szense (Music For Speakers, 2009)
Music For Speakers Amplified - Popular Music Must End (Music For Speakers, 2005)
Flowriders - Starcraft (4 Lux, 2004)
Flowriders - R.U.E.D.Y. (Mr Bongo, 2007)
Parte tre: 2008 - ∞
Il suono che resiste
Mark De Clive-Lowe - Renegades (Tru Thoughts, 2011)
Mark De Clive-Lowe - Live At The Blue Whale (Mashibeats/Ropeadope, 2017)
Mark De Clive-Lowe, Shigeto & Melanie Charles - Hotel San Claudio (Soul Bank Music, 2023)
Mark De Clive-Lowe - Church (Mashibeats/Ropeadope, 2014)
Africa Hitech - 93 Million Miles (Warp, 2011)
Steve Spacek - Natural Sci-Fi (Eglo, 2018)
Steve Spacek - Houses (Black Focus, 2020)
Beat Spacek - Modern Streets (Ninja Tune, 2015)
Dave Okumu - Knopperz (Transgressive, 2021)
Dave Okumu And The Seven Generations - I Came From Love (Transgressive, 2023)
London Brew - London Brew (Concord, 2023)
Dego - A Wha' Him Deh Pon? (2000 Black, 2011)
2000 Black - A Next Set A Rockers (2000 Black, 2008)
Dego & Kaidi - A So We Gwarn (Sound Signature, 2017)
Kaidi Tatham - In Search Of Hope (Freedom School, 2008)
Kaidi Tatham - An Insight To All Minds (First World, 2021)
Kab Driver & Kaidi Tatham - Inertial Drift (O.S.T., 2020)
Kode9 - Dj-Kicks (mix, !K7, 2010)
Clubroot - II:MMX(LoDubs, 2010)
Sbtrkt- Sbtrkt (Young, 2011)
Ital Tek - Midnight Colour (Planet Mu, 2011)
Djrum - Seven Lies (2nd Drop, 2013)
Alex Banks - Illuminate (Monkeytown, 2014)
Baths - Cerulean (Anticon, 2010)
Salva - Complex Housing (Friends Of Friends, 2011)
FaltyDl - You Stand Uncertain (Planet Mu, 2011)
Machinedrum - Vapor City (Ninja Tune, 2013)
Shigeto - No Better Time Than Now (Ghostly International, 2013)
Moderat - Moderat (Bptich Control, 2009)
Clap! Clap! - A Thousand Skies (Black Acre, 2017)
Forss - Ecclesia (autoprodotto, 2012)
Altered Natives - A Thousand Days Of Patience (Eye4Eye, 2008)
Altered Natives - Serial Vendetta (Eye4Eye, 2010)
Apple - Mr. Bean (12'', Street Tuff, 2007)
Cooly G - Playin' Me (Hyperdub, 2012)
Cooly G - Narst/Love Dub (12'', Hyperdub, 2009)
Fiyahdred - Fact Mix 842 (live mix, 2022)
Afrikan Sciences - Means And Ways (Deepblak, 2011)
Afrikan Sciences - Circuitous (Pan, 2014)
Aybee - East Oakland Space Program (Deepblak, 2009)
Blaktroniks - Mechanized Soul (Rubaiyat, 2008)
Buraka Som Sistema - Black Diamond (Enchufada, 2008)
Dj Marfox - Chapa Quente (Ep,Príncipe, 2016)
Nídia -Não Fales Nela Que A Mentes(Príncipe, 2020)
Aa.Vv. - Verão Dark Hope(compilation, Príncipe, 2020)
Fradinho - Broken Beach (Ep, Eclectic Beats Music, 2022)
Afro Bruk Band - Afro Bruk Band (Eclectic Beats Music, 2021)
Peninsula Ibrukica - Peninsula Ibrukica (Eclectic Beats Music, 2023)
Ikoqwe -The Beginning, the Medium, the End and the Infinite (Crammed Discs, 2021)
Populous - Azulejos (2017)
Nuove leve
Aarop Roy - Nomadic Soul (Freestyle Records, 2010)
Basic Soul Unit - Motional Response (Still Music, 2013)
Yellowtail - Grand & Putnam (Bagpak, 2009)
Opolopo - Beyond Jipangu (Swedish Brandu Productions, 2009)
Opolopo - Mutants (remix album, Tokyo Dawn, 2011)
Positive Flow - Flow Lines (Tokyo Dawn, 2012)
Soulparlor - Evoluzion (Tokyo Dawn, 2011)
Deborah Jordan - The Light (Futuristica Music, 2009)
Replife - The Unclosed Mind (Futuristica Music, 2008)
Four Tet - Fabric Live 59 (live mix, Fabric, 2011)
Dego And Kaidi - Dego And Kaidi (Ep, Eglo, 2014)
Dego And Kaidi - Ep2 (Ep, Eglo, 2015)
Wu 15 - Wu 15 (Ep, Eglo, 2015)
Henry Wu - Negotiate (12'', Ho Tep, 2015)
Good Morning Peckham (12'', Rhythm Section International, 2015)
K15 - Theme Music For A Pariah (Ep, WotNot, 2014)
K15 - The Black Tape (Ep, Ini Movement, 2014)
Kamaal Williams - Dj-Kicks (mix, !K7, 2019)
K15 - Sunbeams (singolo, Eglo, 2018)
Deborah Jordan & K15 - Human (Futuristica Music, 2022)
Aa.Vv. - CoOp Presents: Selectors Assemble (12'', compilation, First World, 2017)
Aa.Vv. - CoOp Presents Selectors Assemble Volume Two (12'', compilation, CoOp Presents, 2018)
Aa.Vv. - CoOp Presents Selectors Assemble Volume Three (12'', compilation, CoOp Presents, 2018)
Aa.Vv. - Plug One (compilation, CoOp Presents, 2020)
Aa.Vv. - Plug One Extras (compilation, CoOp Presents, 2021)
Reginald Omas Mamode IV - We Are The Universe (Ep, Five Easy Pieces, 2015)
Wonky Logic -Transdimensional Fuunk (Transformed For Human Consumption) (Norman Records, 2021)
Turbojazz - Whateverism (Eureka!, 2023)
Evm128 - Nova (Studio Rockers, 2015)
Shy One - Bedrooms And Boomkicks (Dva Music, 2012)
Shy One - Spoons (Ep, Astral Black, 2018)
Shy One - From The Floor To The Booth (Ep, Eglo, 2022)
Risa T - Galaxy (Ep, CoOp Presents, 2020)
WheelUp - Good Love (Tru Thoughts, 2021)
WheelUp - We Are The Magic (Tru Thoughts, 2022)
Mooryc - Roofs (Freude Am Tanzen, 2013)
Mooryc - Wiped Out (Sonar Kollektiv, 2016)
Zima Stulecia - Minus 30°C (Astigmatic, 2023)
Hiatus Kayiote - Choose Your Weapon (Flying Buddha, 2015)
30/70 - Elevate (Rhythm Section International, 2017)
Natalie Slade - Control (Eglo, 2020)
Emma Volard - Deity (The Operatives, 2022)
Ritorno al nu jazz
Now Vs Now (Anzic, 2009)
Kneebody - You Can Have Your Moment (Winter & Winter, 2010)
Donny McCaslin - Casting For Gravity (Greenleaf Music, 2012)
R+R=Now - Collagically Speaking (Blue Note, 2018)
Yussef Kamaal - Black Focus (Brownswood, 2016)
Ruby Rushton - Two For Joy (22a, 2015)
Richard Spaven - Spaven's 5ive (Ep, Jazz Re:freshed, 2010)
Seravince - Hear To See (Moovmnt, 2012)
Richard Spaven - The Self (Soul Has No Tempo, 2017)
Petter Eldh - Projekt Drums Vol. 1 (Edition, 2021)
Anton Eger -Æ (Edition, 2019)
Andrew McCormack - Graviton (Jazz Village, 2017)
Andrew McCormack - Graviton: The Calling (Ubuntu Music, 2019)
Theon Cross - Intra-I (New Soil, 2021)
Joe Armon-Jones - Archetype (Aquarii, 2023)
Likwid Continual Space Motion - Earthbound (Super-Sonic Jazz, 2020)
Submotion Orchestra - Fragments (Exceptional, 2012)
Hidden Orchestra - Dawn Chorus (Tru Thoughts, 2017)
Long Arm - The Branches (Project:Mooncircle, 2011)
Pavel Dovgal - The Aura (Project:Mooncircle, 2016)
Takeleave - Belonging (Project:Mooncircle, 2020)
Key Elements - Key Elements (Sonar Kollektiv, 2020)
Bo!led - Different, Us (Ep, Broken Time, 2021)
Culross Close - Pressure (Esencia, 2022)

Pietra miliare
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