Hatfield and the North. La scritta bianca su sfondo blu brillava nella luce dei suoi fari e subito volava via. Il Nord. Un titolo con rimandi immediati. Uomini barbuti e selvaggi che scendevano dalle colline, stupri e saccheggi, rovine e conquiste. Secoli bui di barbarie, il dominio della forza, la preminenza del potere. Morte e Schubert tra i cespugli di erica
(Martin James Russell, "Death Fuse", 1980)
Pedalando fuori da Londra, Andrews si imbatteva nel cartello "To Hatfield and the North" e la sua immaginazione si inoltrava in regioni iperboree di fantasia che, insieme a quella stranezza che è una qualità della sua originalità, si combinano con una sensibilità morale e sociale [...]. Un atteggiamento serio (ma anche romantico) nei confronti di come si vive la vita, la pienezza e il vuoto nelle persone, che l'arte può rendere visibili solo per implicazione, nel tipo di simbolo che deve essere coniato di nuovo ogni volta
(Arts Council of Great Britain, "Michael Andrews", 1980)
Pare che l'idea fosse stata di
Mike Patto, futuro cantante degli Spooky Tooth. La dicitura sul segnale che si incontrava abbandonando Londra lungo la M1, con quel suo connubio imprendibile di precisione e vaghezza, sarebbe stata perfetta per il nome di una band. Ma il suo progetto successivo si chiamò Dick and the Firemen, e il nome rimase libero. La brillantezza però restava: a darle corpo provvide dunque l'amico chitarrista Phil Miller.
Era la metà del 1972 e, conclusa l'esperienza dei Matching Mole con
Robert Wyatt, Miller si mise in testa di riformare i Delivery. Radunò ex-tastierista ed ex-batterista (il fratello Steve e Pip Pyle, appena uscito dai
Gong), ma rapidamente il primo lasciò il progetto per entrare nei
Caravan. Ironicamente, a sostituirlo arrivò proprio Dave Sinclair dei Caravan, accompagnato dal cugino Richard che pure aveva da poco lasciato la formazione. La musica del quartetto era distante dalla
psichedelia jeffersoniana dei primi Delivery, venata di jazz e
progressive ma ancora salda nei
Sixties. Serviva un nuovo nome e "Hatfield And The North" appariva perfetto. Ironico e obliquo, evocativo ma anche meticoloso. Proprio come il suono che avrebbe dovuto rappresentare.
Nel gennaio '73, la band ebbe l'occasione di esibirsi per il programma tv francese Rockenstock insieme a Robert Wyatt. Di lì a poco, Dave Sinclair tornò nei Caravan e la posizione di tastierista rimase scoperta. Dato il tipo di musica su cui gli Hatfield stavano assestandosi - un jazz-rock progressivo in cui l'
organo elettrico era necessario sia nei frangenti più leggeri che in quelli più taglienti - un rimpiazzo andava individuato al più presto, e al gruppo si aggiunse ben presto Dave Stewart, musicista vulcanico già in prima linea con Arzachel, Egg e Khan. (Stewart riferì peraltro una differente versione sulle origini del nome della band: "La mia compagna Barbara Gaskin era la fidanzata di Steve [Hillage, chitarrista di Arzachel, Khan e Gong] all'epoca, e ricorda che Pip cercava di provarci con lei. Quando le chiese da dove venisse, lei rispose: 'Hatfield'. Pip rispose: 'Oh davvero? Ho sempre voluto far parte di una band chiamata Hatfield And The North!'").
Con Stewart all'organo e - elemento di fondamentale importanza per l'alchimia sonora della band - al
pianoforte elettrico, la formazione storica della band era al completo e incominciarono i lavori per il primo album. "Hatfield And The North" vide la luce nel 1974 per Virgin Records, allora specializzata nel progressive più eclettico. Sul disco, oltre ai quattro del nucleo della band, anche numerosi ospiti: Robert Wyatt, Geoff Leigh degli
Henry Cow, Didier Malherbe dei
Gong, il percussionista Jeremy Baines e soprattutto il piccolo coro femminile The Northettes (Amanda Parsons, Ann Rosenthal, Barbara Gaskin degli Spirogyra).
Seguì una ricca
tournée, che vide la band soprattutto accanto a Gong, Isotope,
Kevin Coyne e agli
East Winddi Stomu Yamash'ta, e toccarono oltre al Regno Unito anche Paesi Bassi, Francia, Belgio. Ma giunto il gennaio del '75 il gruppo era di nuovo in sala di registrazione, ai Saturn Studios di Worthing. Il 3 febbraio, le incisioni per "The Rotters' Club" erano complete.
Armonicamente, l'enfasi era sulle settime e sulle none minori, conferendo al pezzo un sottofondo di malinconia, ma allo stesso tempo una progressione ascendente di accordi suggeriva ottimismo, un occhio puntato sul lontano futuro.
Dopo qualche minuto, Sophie disse: 'Ricorda un po' il disco che regalasti alla mamma tanti anni fa'.
'Vuoi dire 'Hatfield and the North'? Sì, forse hai ragione. Non è certo il genere più in voga tra la musica che potevo imitare, mi rendo conto'.
'No, ma funziona. Per te funziona. È triste e... allegro al tempo stesso'"
(Jonathan Coe, "Il circolo chiuso", 2004)
Quando, a febbraio 2001, uscì il romanzo "The Rotters' Club" (in italiano "La banda dei brocchi") non tutti i lettori potevano cogliere immediatamente il riferimento musicale scelto dall'autore Jonathan Coe. Ma, ancora una volta, era il titolo perfetto. L'ideale per inquadrare la narrazione corale delle vicende di un gruppo di compagni di liceo nella provincia britannica, nella seconda metà degli
anni Settanta. Sullo sfondo degli scioperi dei minatori e del sorgere dell'era Thatcher, sogni e inciampi dei protagonisti paiono quasi un doppio in chiave sfigata della saga di Harry Potter, senza magia ma con altrettanto
sense of humour. E, soprattutto, con la stessa sensazione di qui-e-ora e imperdibilità che rende unica, prima ancora che la letteratura fantasy, l'adolescenza.
Gli echi dell'infatuazione giovanile per il progressive rock, così come il confronto col nascente punk, costellano le situazioni descritte da Coe. E il concerto del 1974 degli Hatfield And The North al Barbarella's di Birmingham è un momento chiave dell'intreccio. Anche gli Hatfield sono la band perfetta per il romanzo di Coe. Con le loro composizioni intricate, ma mai seriose, il loro gusto domestico e anche un po' ingenuo, e con il loro
airplay limitato esclusivamente alle radio di
college e università (fatta salva una comparsata a Top Of The Pops, proprio nel '74), sono il migliore specchio dell'ordinarietà straordinaria celebrata dall'autore. Quanto agli altri aspetti dominanti, è facile tracciare un parallelismo fra il
mood sornione che permea i solchi del disco e l'ironia compassata del romanzo. Perfino il record detenuto dal libro (le quasi quattordicimila parole senza punti fermi dell'ultimo capitolo sono state per quasi due decenni la più lunga frase mai comparsa nella letteratura inglese) sembra voler fare il paio con lo stile arzigogolato della band.
Ma è soprattutto la duplicità delle sensazioni evocate, che Coe tornerà a sottolineare nel
sequel "The Closed Circle", a marcare la personalità dei due "The Rotters' Club". Se nel caso del romanzo il mix di solarità e nostalgia è riallacciabile senza fatica al riuscito
setting adolescenziale, entrare nella magia del suono degli Hatfield And The North può richiedere un maggiore esercizio analitico. Una certa ambivalenza delle atmosfere era fin dai primi anni fra i tratti distintivi della musica progressiva, che si distingueva proprio per la capacità di combinare, oltre che stili e schemi compositivi distanti fra loro, anche emozioni e ambientazioni. Nel caso della cosiddetta
scena di Canterbury, di cui gli Hatfield sono spesso visti come esponenti esemplari, alcuni elementi ricorrenti codificarono lo spettro acustico-emotivo già dagli ultimi anni Sessanta. Oltre alla propensione per il jazz elettrico e a uno sguardo pop sempre un po' sonnacchioso, furono soprattutto due intuizioni dei primissimi
Soft Machine a lasciare il segno: il ricorso al
fuzz sul basso, che portò lo strumento dalle retrovie a un ruolo di protagonista melodico, e l'utilizzo del medesimo effetto anche sull'organo Hammond, che gli conferiva un carattere decisamente più psichedelico e aggressivo. Grazie alla combinazione di questi stratagemmi, la tavolozza
canterburiana divenne capace di accostare senza soluzione di continuità sonorità liquide e radiose - in qualche caso quasi agresti - e passaggi più corrosivi, per non dire roventi; il tutto senza ricalcare le soluzioni del nascente
hard rock, bensì elaborando un proprio linguaggio espressivo, ben sintetizzato dalle due brevissime strumentali "(Big) John Wayne Socks Psychology On The Jaw" e "Chaos At The Greasy Spoon" e dall'
incipit di "The Yes No Interlude".
Mansuetudine e durezza, dunque: ma come si arrivò da qui alla lucente malinconia degli Hatfield And The North? Sono necessari ancora almeno due passaggi intermedi. Il primo riguarda la voce, o meglio le voci: quella di Richard Sinclair, quella di
Robert Wyatt (assente in "The Rotters' Club", ma spesso accanto alla band) e quella delle tre "Northettes". Molta della spensieratezza che trapela dai brani è legata all'affabilità delle interpretazioni vocali, mai altisonanti, sempre scanzonate anche nelle sezioni più astratte e inerpicate. Un buon esempio è nella lunga "Fitter Stoke Has A Bath", con l'avvicendamento fra cantato con parole (sostenuto dai leggiadri
backing vocals delle Northettes) e vocalizzi puramente sillabici: le linee non sono banali - anche la porzione più "canzonettara" è tutt'altro che lineare - ma i toni confidenziali di Sinclair portano la melodia quasi a sembrare uno stralcio di conversazione, e trasformano la complessità in naturalezza. La parte successiva, più vicina a uno
scat jazzistico, suona invece del tutto libera e giocosa, come una canzoncina
nonsense improvvisata sotto la doccia in un momento di completa distanza dalle preoccupazioni. Che queste ultime, da qualche parte, debbano presto o tardi riapparire è in fin dei conti implicito sempre nella voce, che rimane sempre posata, indolente, evitando di alimentare illusioni o slanci enfatici.
L'aspetto ulteriore, che rende speciale il sound di "The Rotters' Club" nell'ambito Canterbury, è dato dalle tastiere di Stewart, e in particolar modo dal suo Fender Rhodes. Con l'inizio degli anni Settanta, diverse formazioni dell'area arricchirono il loro arsenale di tastiere con
Mellotron, sintetizzatore e pianoforte elettrico. Dave Sinclair dei
Caravan ricorse al Pianet della Hohner, Steve Miller suonò il Wurlitzer su "Waterloo Lily". Anche Stewart, nel primo album degli Hatfield, impiegò il Pianet insieme al Rhodes, ma in "The Rotters' Club" si convertì completamente a quest'ultimo. Il pianoforte elettrico Fender era il favorito nell'ambito jazz fusion, specialmente negli Stati Uniti, e il suo timbro adamantino era onnipresente negli sgargianti assoli di Chick Corea con i Return To Forever o nel funk stellare di
Herbie Hancock e George Duke.
Fra i canterburiani, anche Dave MacRae dei Matching Mole e Mike Ratledge dei Soft Machine sposarono il
Fender sound, ma il ruolo che Dave Stewart ritagliò per lo strumento in "The Rotters' Club" rimase unico. "Under Dub" è, fra gli episodi di minore lunghezza, forse il più incisivo per illustrarne l'importanza. Le note argentine del pianoforte elettrico costellano la partitura come i tocchi di pennello in un quadro puntinista: sono ovunque e costruiscono sfondo e primo piano, ma restano distinte e non saturano la scena. Spezzando gli accordi con arpeggi e ritardi, Stewart centellina i loro tintinnii e ricava lo spazio per il basso di Sinclair e il flauto dell'ospite Jimmy Hastings (Caravan), che ridoppia i fraseggi del piano per poi librarsi a fine brano in svolazzi via via più distanti. Quella architettata da Stewart è una pioggerella fine e incessante, di quelle che lasciano filtrare lame di sole e portano con sé una meraviglia agrodolce, che combina la gaiezza del momento alla consapevolezza del suo essere effimero.
"Quasi tutto è organizzato. Saresti sorpreso. Ci sono delle zone più libere, ma la musica è pianificata e hai sempre un'idea di cosa farai e cosa suonerai".
Segue ciò che potrebbe essere un suggerimento per una sorta di Scarabeo musicale: "Tutti i concerti sono strutturati. Di solito stiamo andando a un concerto e il set viene riscritto sul camion: le varie parti dei pezzi vengono spostate e la musica viene riscritta. Ogni volta che facciamo un concerto, il set viene capovolto e stravolto. Questa è una delle cose che trovo difficili, perché io la musica non la so leggere. Quindi passo il mio tempo verso un concerto ascoltando e reimparando da un registratore a cassette"
(Richard Sinclair intervistato da Chris Salewicz, Nme, novembre 1974)
La musica degli Hatfield suona gioviale e disinvolta, ma è programmata in modo certosino. Qualcuno potrebbe sostenere che il gioco della band fosse l'opposto di quello di altri grandi del
progressive rock: mentre formazioni fra le più in vista si sforzavano di creare musica vistosamente erudita e articolata, gli Hatfield facevano del loro meglio per nasconderlo. Fu anche per questa impressione, forse, che la loro musica subì un destino diverso da quella di altre prog band. All'epoca poco considerata ("The Rotters' Club" fece giusto una comparsa nella classifica degli album più venduti in Gran Bretagna: una singola settimana, al quarantatreesimo posto), conservò anche grazie all'insuccesso commerciale una certa credibilità presso critica e ascoltatori (proto) alternativi. Nella memoria di questa fascia di pubblico, la band rimase di secondo piano rispetto ai progetti più strettamente legati a Robert Wyatt; provando tuttavia a tracciare un quadro delle decine di artisti "neocanterburiani" attivi nei decenni successivi ai Settanta, si scoprirà che il modello Hatfield è, con ogni probabilità, il più imitato in assoluto.
A quasi cinquant'anni di distanza dall'ultimo album in studio, lo stile di Miller, Pyle, Sinclair e Stewart è in qualche modo il più iconico nell'individuare l'essenza del
Canterbury sound e rappresenta un riferimento imprescindibile per i musicisti che vi si ispirano. Merito soprattutto di quell'
interplay scrupolosamente pianificato che, pur dando del filo da torcere perfino a Richard Sinclair, rendeva possibile l'illusione di spontaneità che conquistava gli ammiratori.
"Share It" apre il disco e col suo testo ne mette a fuoco l'ethos musicale ("There's no way of understanding what's been going on/ I lost track yesterday [...] Please do not take it seriously really, what a joke!/ The only thing that matters is to share it"). La melodia gigiona affidata dalla voce di Sinclair sarebbe efficace in una canzone per bambini, ma gli intrecci strumentali collocano il pezzo in un territorio diverso. Fin dalle prime battute, il Rhodes di Stewart infila una successione di accordi estesi dal taglio decisamente jazzistico. Pip Pyle, coautore del brano, stende sotto agli altri strumenti un
groove incessante che è già un ottimo indizio della sua cifra espressiva: un
drumming fusion che coniuga con personalità leggerezza e concitazione, trascinando in un flusso fantasioso, ma mai propenso a impadronirsi della scena. A metà del pezzo, Stewart si lancia in uno spassoso assolo di Moog, e il contributo di Miller e Sinclair nel sorreggere l'armonia si fa più evidente - doppiamente quando, poco dopo lo scoccare del secondo minuto, un inciso che riprende il ritornello rende ancora più placida l'atmosfera del brano.
"Lounging There Trying" porta la firma di Phil Miller, ed è realisticamente il genere di episodio a cui Sinclair faceva riferimento nell’intervista del '74 all'Nme come "cose un po' tipo Django Reinhardt - la roba più strampalata". Un arzigogolato pezzo solista, più in area Henry Cow che
gypsy jazza onor del vero, alleggerito tuttavia dagli interventi degli altri tre musicisti, prima discreti e poi via via più estrosi.
"(Big) John Wayne Socks Psychology On The Jaw" e "Chaos At The Greasy Spoon" fungono come
intro a "The Yes No Interlude", il primo brano lungo del disco, ispirato nel titolo a una sezione di un popolare gioco a premi ("Take Your Pick!", in onda in Gran Bretagna per buona parte degli anni Cinquanta e Sessanta). Si tratta di una composizione decisamente segmentata, concepita da Pip Pyle e arricchita dai fiati di Jimmy Hastings (sassofono), Tim Hodgkinson e Lindsay Cooper (clarinetto e fagotto degli Henry Cow) e Mont Campbell (già bassista di Arzachel ed Egg, qui invece come suonatore di corno francese). Aperta da una girandola di riff
fuzzati alla
Soft Machine, nel tempo di due battute in 5/4 muta in un singhiozzante 13/8 a base di fiati, su cui si stende un diagonalissimo assolo di Phil Miller, giocato sulla scala esatonale aumentata (molto amata anche da
Robert Fripp e notevole per la sua assenza di un vero centro armonico, fattore che la rende specialmente disorientante). Procedendo, un tappeto tastieristico in 6/8 si sovrappone al tempo dispari e il sassofono di Jimmy Hastings trova spazio per una rara sezione improvvisata. Il caos è interrotto dalla ripresa del
riff iniziale, e un delicato 4/4 con
swing di Pyle fa da sfondo a ricami ariosi del Rhodes di Stewart e della chitarra di Miller. La chiusura del
tour de force è di nuovo affidata al
riffone iniziale, dal quale tuttavia sguscia una sequenza di accordi ascendenti (ma con basso cromatico in discesa!) che conduce senza interruzione nel vivo di "Fitter Stroke Has A Bath", brano assai più limpido pure firmato da Pyle.
"Didn't Matter Anyway" è invece frutto della penna di Sinclair, ed è il pezzo più regolare del disco: un bel lento dal
mood riflessivo, col flauto di Hastings a fare da guida melodica e un lavoro delicatissimo di Pyle sul
ride. Passata "Under Dub", composta da Miller, si giunge alla
pièce de résistance di Stewart: "Mumps", che coi suoi venti e passa minuti è non solo la traccia più lunga mai incisa dalla band, ma anche una delle composizioni più ambiziose nella storia del Canterbury sound. Esplicitamente ripartita in quattro sezioni (l'ultima una ripresa della prima), la suite attraversa tutti gli stati d'animo del possibile spettro degli Hatfield And The North: la serena sospensione della breve "Your Majesty Is Like a Cream Doughnut (Quiet)" cede subito il passo alla fiammeggiante "Lumps", dominata dal dialogo fra Rhodes e chitarra. Fra guizzanti tempi dispari e
zigzag distorti, la sezione gioca tanto sulla propensione di Stewart all'instabilità ritmica (provate voi a "contare" il metro dell'ostinato di e-piano: continua a cambiare!) quanto sulla mutevolezza spiazzante delle traiettorie di Miller, che passa da grovigli difficilmente rendicontabili a illuminazioni dall'esemplare pulizia melodica. Gli inserti vocali delle Northettes, gli occasionali passaggi in primo piano del basso di Sinclair (suo l'articolato tema in 12/8-14/8 che governa i minuti centrali) e i frequenti cambi di tastiera di Stewart (organo, sintetizzatore, piano acustico, e il piano elettrico a fare da legante) disegnano un paesaggio caleidoscopico col quale contrasta, attorno a metà brano, l'ingresso cantato di Sinclair. Con poche manciate di versi imperscrutabili ("I have minded my P's and Q's/ Tried not to damage any W's/ And if I tread upon a B/ I'll pick it up and tell it earnestly 'I'm sorry!'" i primi) il
vocalist riporta lo scorrere delle emozioni a una luminosa sonnolenza, brevemente interrotta dagli squarci chitarristici di Miller, e subito poi esplorata - in chiave più enigmatica e funky - dalla porzione strumentale che sfuma al quattordicesimo minuto in "Prenut", con un assolo di sax che lentamente digrada in silenzio.
Anche la terza sezione, più breve della precedente, mostra un deciso orientamento
fusion, ma la sua funzione sembra soprattutto quella di preludere, col suo fluire magmatico e un po' notturno, al ritorno trionfale del tema iniziale, su "Your Majesty Is Like A Cream Doughnut (Loud)". Dopo poche battute di ri-esposizione, scandite con una maestosità assente in tutto il resto del disco, il tema si raggomitola tuttavia su linee dimesse e signorili, concludendo la composizione e l'album in un tono inaspettatamente austero.
Fu anche la fine dell'esperienza discografica degli Hatfield. Dopo una quarantina di ulteriori date europee (di nuovo Regno Unito, Paesi Bassi, Francia, Belgio), nel giugno 1975 Richard Sinclair lasciò la band. Le difficoltà di conciliare impegni musicali e famiglia e la sensazione di riuscire a fornire un contributo creativo sempre meno rilevante lo spinsero a trasferirsi da Londra (dove spartiva con Pyle, Miller e rispettive famiglie un piccolo appartamento vicino a Regent's Park) a Canterbury, e avviare un'attività di falegnameria. Nei due anni successivi condusse ancora qualche attività musicale a tempo perso, sotto lo scherzoso appellativo "Sinclair & The South", e nel 1977 tornò sulle scene coi
Camel, realizzando con la band gli affascinanti "
Rain Dances" e "Breathless".
Gli altri tre, più convintamente orientati sulla
fusion strumentale, proseguirono col nuovo nome National Health, imbarcando anche il tastierista Alan Gowen dei Gilgamesh, il bassista
fretless Neil Murray (poi sostituito da John Greaves degli Henry Cow) e, questa volta in pianta stabile, l'ex-Northettes Amanda Parsons. La Virgin, non entusiasta di un progetto così votato al jazz-rock, approfittò del cambio di denominazione per abbandonare il suo supporto, e i tre album della band furono pubblicati su etichette di secondo piano (il primo omonimo uscì nel 1978 per la jazzistica Affinity Records).
Parallelamente, Dave Stewart affiancò il primissimo batterista dei National Health (nonché membro di lungo corso dei
King Crimson), Bill Bruford, per tre
brillanti album, mentre Pyle si unì ai Soft Heap (con Gowen e due ex-Soft Machine, Hugh Hopper ed Elton Dean). Gli
anni Ottanta condussero Stewart al successo pop, prima con l'ex-Zombies Colin Bluntstone ("What Becomes Of The Broken Hearted", del 1981) e poi con la compagna Barbara Gaskin (nello stesso anno, il singolo "It's My Party" raggiunse il primo posto nelle classifiche britanniche).
L'affetto per gli Hatfield della sparuta, ma convinta compagine di appassionati
canterburiani tuttavia non svanì, e nei decenni successivi vi furono parziali rinfocolamenti dell'attività live della band: nel marzo 1990 e a cavallo fra 2005 e 2006 (in entrambi i casi senza Stewart). Raccolte di materiali d'archivio furono pubblicate già dal 1980 ("Afters") e poi, riaccesasi ormai l'attenzione per il prog storico, negli anni Duemila ("Hatwise Choice" e "Hattitude", rispettivamente nel 2005 e nel 2006).
Nel 2006, la morte di Pip Pyle mise realisticamente la parola fine anche alla "coda lunga" del progetto Hatfield And The North. Come la band di cui fu fra i principali compositori, il batterista rimase un nome forse poco noto fuori dal circolo degli appassionati, ma esemplare per la sua capacità di combinare fantasia, raffinatezza e scarsa appariscenza. Dave Stewart ne
scrisse, ricordandolo, parole che ben s'adattano anche all'esperienza del gruppo nel suo insieme:
Molte cose erano 'noiose' per Pip: il traffico lento, la burocrazia, i ritardi, farsi la barba, le regole, la pomposità, l'incomprensibile fallimento degli altri nel fare esattamente ciò che voleva. [...] Ma la vita con Pip non era mai noiosa. Odiava la monotonia, la routine e la banalità, quindi se non stava accadendo nulla di divertente, si ingegnava per creare (per così dire) un po' di eccitazione. [...] Di fronte a un passaggio difficile della musica, non avrebbe mai scelto la strada facile suonando qualcosa di banale e semplicistico. Invece, avrebbe trascorso molto tempo pensando a una parte innovativa per la batteria [...]. Ciò significava che, sebbene potesse occasionalmente spingersi troppo oltre, il suo modo di suonare non era mai (per usare un suo modo di dire) 'noioso'.
11/06/2023