1977-1982

Gli anni dimenticati del prog britannico

Chi si trovava in cima alla classifica britannica degli album più venduti, la prima settimana del maggio 1980 e la successiva? I Cure, gli Iron Maiden, magari Boney M? Neanche per idea. Tutte e tre i nomi citati figuravano nella top 30, ma alla vetta c’erano gli Sky.
Chi? Non si tratta certo della formazione più ricordata del periodo. Ma furono un discreto fenomeno commerciale, con quattro album in top ten consecutivi dal 1979 del debutto “Sky” fino al 1982 di “Sky 4 – Forthcoming…”. Il motivo dell’oblio è presto spiegato: suonavano progressive rock. Di quello ottimista, ultramelodico e ricolmo di richiami classici. Proprio il genere di musica che, stando alla vulgata alternativa dei decenni successivi, sarebbe sparito dalla circolazione l’alba del 28 ottobre 1977, con la pubblicazione dell’incendiario “Nevermind The Bollocks, Here’s The Sex Pistols”. E che invece, in quello stesso anno a cavallo fra Seventies ed Eighties, svariate altre volte transitò imperterrito dalla chart britannica degli album: con gli Yes (secondo posto con “Drama”), gli Alan Parsons Project (“The Turn Of A Friendly Card”), i Jethro Tull (“A”), i Genesis (“Duke”), Mark Rutherford (“Smallcreep’s Day”), Mike Oldfield (“QE2”), Steve Hackett (“Defector”). A testimonianza di quanto, lontano dall’essere defunto, il filone restava dotato di una sua vitalità e attrattiva verso il pubblico.

 

Se oggi lo si ricorda poco, è in parte per via delle narrative distorte instauratesi negli anni riguardo alla contrapposizione fra prog e punk, e un po' anche per la visione limitante secondo cui nulla di progressivo sarebbe apparso in Gran Bretagna fino alla malvista “resurrezione” del genere da parte dei Marillion, nel 1982/1983 di “Market Square Heroes” e “Script For A Jester’s Tears”. Anche all’epoca, tuttavia, il periodo fra Settanta e Ottanta fu caratterizzato da una transizione che disorientò artisti e appassionati: dopo esser stati fin dal ’71-’72 accusati di stasi e autoreferenzialità, crescentemente musicisti affermatisi grazie alla loro versatilità andarono in cerca di nuove strade. Il progressive, meta-genere per eccellenza, raccolse nuove influenze e rimescolò i canoni a cui gli ascoltatori si erano abituati, convincendo così alcuni di loro che fosse in atto un “tradimento” degli ideali musicali del filone (quasi leggendario il caso dei Genesis, di recente oggetto di un approfondimento). Anche stampa musicale e case discografiche ci misero del loro, mostrando un sostanziale disinteresse per gli esordi nel settore. Furono pochissimi i nuovi artisti che ottennero contratti presso etichette di peso dal 1976 in poi: tolti i supergruppi e i progetti di nomi già affermati, come gli Alan Parsons Project o i Brand X di Phil Collins, riuscirono a debuttare su label in vista giusto gli Sky (sull’importante etichetta tedesca Ariola), i The Enid (Emi) e due formazioni accasate su Arista: England e Chorale.

 

Molti altri artisti erano attivi nel settore, ma il carattere disgregato dei loro pubblici impedisce di parlare di una vera e propria scena: la “diaspora” progressive è costituita da una molteplicità di linee centrifughe, alcune in vista e altre meno, talvolta facilmente ricollegabili ai capisaldi del genere, e altre volte invece assai meno, soprattutto per via dell’eclettismo delle formule e della presenza di forti intersezioni con altri filoni. Nel cercare di mappare le direzioni esplorate dai musicisti di ispirazione progressiva, questo articolo e le selezioni di artisti e tracce che lo accompagnano si soffermeranno in particolare su quattro ambiti, dotati di frequenti sovrapposizioni: le evoluzioni dell’approccio sinfonico e la proiezione verso l’Aor statunitense, gli sviluppi del Canterbury Sound e dell’avant-prog, i percorsi art-pop (spesso avviati da autori solisti), gli incontri con post-punk e new wave. Un altro territorio significativo, quello legato alla nascente new age, è già stato approfondito in una playlist specifica.

 

Fra America e provincia

 

51b4mtasgml_1Molto amati dal pubblico, assai meno dalla critica, gli artisti più frequentemente associati all’espressione “progressive rock” erano a metà anni Settanta gli esponenti del filone sinfonico, per i quali venivano utilizzate anche denominazioni come art-rock, flash-rock o techno-rock. Il loro stile sfarzoso aveva già permesso ad alcuni di loro di imporsi sul mercato statunitense nella prima metà del decennio; successivamente, il buon riscontro negli States di formazioni come Kansas e Styx indicò il carattere roboante dell’Aor come possibile modello per chi fosse in cerca di consensi al di là dell’Atlantico.
Fra i britannici, fu soprattutto fra chi aveva già calcato qualche palco americano a orientarsi su un sound più grintoso e radiofonico, capace di dar spazio a virtuosismi e costruzioni magniloquenti ma anche di spingere al massimo su orecchiabilità e impatto rock. Yes e Gentle Giant, particolarmente amati dal pubblico d’oltreoceano, furono fra i primi a esplorare questa via, ma presto altri nomi si aggiunsero alla compagine. Gli Uk, supergruppo comprendente ex-membri di Yes, King Crimson, Curved Air e Soft Machine, approcciarono l’Aor da un versante più jazzistico; di contro, i neonati Magnum esordirono con una formula ibrida fra prog sinfonico, hard rock e Aor, che sarebbe sfociata a metà anni Ottanta in uno stile di notevole influenza e discreto successo commerciale.

 

Altri nomi, sia consolidati che dal debutto più recente, mantennero il loro stile più attiguo al sinfonismo della prima metà dei Settanta. Fra questi, i già nominati England, Sky e The Enid, ma anche i due ex-Genesis Steve Hackett e Mike Rutherford (prima del successo pop del progetto Mike And The Mechanics). Ampliando l’orizzonte anche ad alcune formazioni davvero carbonare, si incontrano invece formule dalle caratteristiche ibride, qualificabili retrospettivamente come elementi di transizione verso il neo-prog degli anni successivi. Anche se è improbabile un’influenza diretta su Marillion e IQ di formazioni spesso relegate ai circuiti locali, gli esempi di Grace, After The Fire e Gizmo mostrano come il debito nei confronti dei Genesis del periodo Gabriel iniziasse a combinarsi con strutture compositive più semplici (un po’ per mancanza di mezzi materiali e un po’ per via delle minori doti tecniche) e sonorità imparentate con la new wave. I risultati sono epici ma senza fronzoli, cangianti eppure di buona presa melodica; anche nei momenti più spensierati, poi, la loro musica risulta sempre pervasa da un’imprendibile aura nostalgica.

L’alternativa si ibrida

 

cb812764efa8f246b42320b727db7e43Sospeso tra jazz elettrico, pop sornione e rock, il sound della “scuola di Canterbury” ebbe nella prima metà degli anni Settanta riscontri decisamente ridotti rispetto a nomi come Yes ed Emerson, Lake & Palmer, ma riuscì grazie all’atteggiamento più misurato a mantenere sia il favore della critica che l’attenzione del pubblico affezionato. Il susseguirsi di nuove band e scambi di musicisti tipico della scena procedette senza flessioni nella seconda metà degli anni Settanta, portando alla ribalta in particolare i National Health di Dave Stewart (Egg, Hatfield And The North) e le svariate ramificazioni della galassia Gong (Pierre Moerlen’s Gong, Paragong, New York Gong, Mother Gong e chi più ne ha più ne metta). Queste ultime sono legate a doppio filo col giro dei festival liberi, a cui appartengono anche i ruvidi e stralunati Here&Now (di fatto backing band di Daevid Allen nei Planet Gong), i percorsi solistici di Steve Hillage, gli inclassificabili The Astronauts e - in una posizione più defilata - i poco fortunati Skywhale.

 

Le evoluzioni del Canterbury Sound si intrecciano con quelle del filone avant-prog capitanato dagli Henry Cow, che nel 1978 firmarono con altre band europee il manifesto “Rock In Opposition” e nello stesso anno mutarono il loro nome in Art Bears (complice un riassestamento della formazione). Di tutte le diramazioni del rock progressivo, questa è quella più risolutamente antagonista rispetto alle logiche di mercato e ai toni enfatici tipici del rock sinfonico: a ben vedere, più di un artista associato alla corrente mostrò e mostra tuttora una spiccata ritrosia a considerare la propria musica come imparentata con quella di Genesis, ELP, Yes o anche solo King Crimson. Da sempre a proprio agio con gli accostamenti a Velvet Underground, Frank Zappa, Captain Beefheart o Faust, i musicisti legati agli Henry Cow individuarono nelle dissonanze e nella critica sociale del post-punk un tratto di continuità con la propria visione artistica. Parallelamente, i contatti con gli ambienti dell’avanguardia jazz portarono prima a esplorazioni one-shot come l’album “Kew.Rhone” (con Carla Bley e Michael Mantler), poi - varcato l’oceano - a collaborazioni più stabili in contesto no wave (es. Material, Massacre, Golden Palominoes - esclusi dalle selezioni dell’articolo perché basati negli Stati Uniti).

L’eredità art-pop

 

51gwpwsrewl._sr600315_piwhitestripbottomleft035_sclzzzzzzz_fmpng_bg255255255Se la prosecuzione in nuove vesti del filone sinfonico non guadagnò consensi critici, e quella di Canterbury e avant-prog non ne perse, vi furono artisti che, inizialmente poco considerati, riscossero dalla seconda metà degli anni Settanta un crescente apprezzamento presso i giornalisti musicali, e in qualche caso anche presso il pubblico. Si tratta soprattutto di musicisti che, superando in parte o del tutto gli stili progressivi della prima metà degli anni Settanta, seppero costruire una propria via alle sonorità new wave.
Lo spettro stilistico abbracciato fu eterogeneo, ma volendo creare alcuni raggruppamenti si può identificare nell’art-pop autoriale uno sbocco importante per nomi come Peter Gabriel, Peter Hammill, Kate Bush. Gli artisti di questo filone, talvolta assai risoluti nella volontà di lasciarsi alle spalle il passato, portarono l’evocatività, l’ampiezza di orizzonti e la cura formale del progressive primo-settantiano in territori nuovi, e in qualche caso anche convergenti rispetto a musicisti di diversa estrazione (John Cale, Brian Eno, David Byrne, Laurie Anderson). Se l’associazione degli ex-frontmen di Genesis e Van Der Graaf Generator al progressive rock risulta chiara, forse lo è meno quello dell’eclettica Kate Bush, che debuttò soltanto nel 1978 con la promozione di David Gilmour. Eppure, fra gli amanti del genere il suo nome è diventato nel tempo un riferimento ineluttabile, con pagine nutrite sulle “bibbie” progressive ProgArchives e Prog Magazine, e un ruolo centrale in testi dedicati agli sviluppi della musica progressive dopo la prima metà degli anni Settanta (“Beyond And Before: Progressive Rock Since The 1960s” di Paul Hegarty e Martin Halliwell, “The Billboard Guide To Progressive Music” di Bradley Smith, “Le ceneri del prog” di Mattia Merlini).

 

È accostabile a Kate Bush, ancorché più punk e dark nello spirito, anche la figura eccentrica di Toyah Wilcox, futura moglie di Robert Fripp e autrice di dischi a cavallo fra prog-pop stralunato e nascente estetica gotica. Senza allontanarsi troppo da questo variopinto campo art-pop, si possono incontrare anche progetti sui generis legati a produttori di esperienza: i pionieristici Landscape e gli scozzesi Café Jacques (da qualche parte fra 10cc e Genesis tardo-settantiani, con più di qualche prefigurazione sophisti-pop).

Progressive e “nuova onda”

 

stranglersberlin1979_3C’è poi chi entra in campo new wave con entrambi i piedi: i rinati King Crimson sono una menzione imprescindibile, ma anche i meno noti After The Fire e i Random Hold di Bill MacCormick (Matching Mole, Quiet Sun e 801) sono autori di una sintesi intrigante. Un altro artista riconducibile a questo gruppo è Jakko M. Jakszyk, che apparirà in numerosi progetti di area progressiva lungo i decenni (dai Long Hello dell’ex-Van Der Graaf Generator David Jackson fino ai Tangent e ai King Crimson). Il suo debutto del 1982 è un connubio di funky, jazz-rock obliquo e trovate talkingheadsiane che sembra tracciare un ponte fra Canterbury e Japan.
È però soprattutto il territorio complementare - quello degli artisti wave e post-punk il cui stile echeggiava il progressive rock - a mostrarsi particolarmente nutrito. Come ebbe a osservare il giornalista musicale Simon Reynolds, una parte significativa del filone fu una sorta di “riedizione” del progressive rock, fondata tuttavia su stili e valori aggiornati al contesto britannico della seconda metà degli anni Settanta. Alla base del sound non furono dunque beat e psichedelia, ma il punk; come generi “incorporati”, non furono centrali stili consolidati come jazz, classica e folk, ma nuovi arrivi quali dub, funk, ska. Al faro del virtuosismo fu spesso sostituita la ricerca di un sound personale.
Per citare qualche nome, è nota la devozione a Steve Howe del cacofonico chitarrista dei Pil Keith Levene, ma anche restando su nomi maggiori è possibile incontrare vicinanze più vistose: i Magazine presentano palesi richiami genesisiani, i barocchismi degli Stranglers sono figli della passione del tastierista Dave Greenfield per Rick Wakeman e Jon Lord. Anche gli Xtc di Colin Moulding e Andy Partridge, che negli anni diventeranno una colonna del pop progressivo con lavori come “English Settlement” e “Skylarking”, fin dagli esordi mostrano con incastri e cambi di tempo i loro debiti verso artisti all’epoca “innominabili” nelle interviste. Colin Newman dei Wire si sarebbe spinto, molto più tardi, ad affermare che i “veri” dischi della band sono quelli da “Chairs Missing” in poi, perché progressive (la frase è in un’intervista riportata su “A New Day Yesterday”, di Mike Barnes).

 

Spostandosi poi su versanti più underground, ci si imbatte in un brulicare di intersezioni prog/post-punk. Attorno ai This Heat e alle svariate propaggini dei soliti Henry Cow operò una serie di formazioni a cavallo fra gli stili, talvolta con un suono cupo e suburbano, altre con un piglio rigoglioso ma sbilenco che l’ossessione catalogatrice dell’era internettiana finirà per etichettare come Zolo. The Work, Ludus, Flying Lizards, Family Fodder sono alcuni esempi di questo sottobosco: gli ultimi somigliano talmente agli Stereolab che risulta spontaneo ipotizzare un’influenza.
Anche la nascente estetica goth doveva qualcosa al progressive rock: non solo per le atmosfere cupe, già affinate da svariate formazioni dark-prog in qualche caso già dagli ultimissimi anni Sessanta, ma anche per le sporadiche illuminazioni chitarristiche che, spesso attraverso il ponte di John McGeoch (Magazine, Siouxsie And The Banshees) si riallacciano direttamente a Steve Howe. Testi come il già citato “Beyond And Before” insistono sulla “progressività” dei Cocteau Twins di Elizabeth Fraser e Robin Guthrie; forse più esplicite ancora sono le analogie nel dream-pop di Chameleons e Sad Lovers And Giants, i cui debutti su Lp sfuggono dalla selezione dell’articolo perché successivi al 1982 scelto come limite ultimo della trattazione.

La fine dell’amnesia

 

Nel periodo a cavallo fra anni Settanta e anni Ottanta la musica progressiva ha vissuto molteplici evoluzioni in terra britannica, sia lontano dai riflettori che in bella vista nelle classifiche e sulla neonata Mtv. Ma è al biennio 1982-1983 che appassionati e detrattori associano spesso la “rinascita” del filone. Il giudizio, si sarà capito, è fuorviante, ma qualcosa di nuovo, in quegli anni, accadde effettivamente. Il versante sinfonico, che anche nei primi anni Settanta era stato la locomotiva commerciale del genere, torna a riscuotere l’interesse delle label e attira un nuovo pubblico. Solo pochi anni prima, i giovani musicisti orientati al revival erano condannati alla sostanziale invisibilità: le band non trovavano palchi né contratti, e godevano di sparute fanbase soltanto a livello locale. È inoltre documentato (nel paper del 2016 “Fire In Harmony: The 1980s Uk British Progressive Rock Revival” di Chris Anderton) come in molti casi i gruppi ignorassero l’uno l’esistenza dell’altro. Non era insomma possibile parlare di una “scena”. Con il successo dei Marillion - e, in ritardo e in misura minore, di Pallas, IQ e Twelfth Night - tornò a determinarsi la percezione di un “fronte comune”, consapevole della propria esistenza e dotato di una sua visibilità e riconoscibilità. Si trattò di una “fiammata” di scarsa durata: nel giro di pochi anni la presenza in classifica delle band aprifila si volatilizzò, e nessuna nuova leva arrivò a prenderne il posto. Paradossalmente, però, la ribalta conquistata d’un tratto dal neo progressive finì per significare la damnatio memoriae di molte delle trasformazioni che avevano caratterizzato il genere negli anni immediatamente precedenti. I suggerimenti di ascolto che costituiscono il resto di quest’articolo vogliono essere spunti per il parziale superamento dell’amnesia.

 

Non tutti i quaranta album della selezione sono capolavori, o appartengono al progressive rock nel senso in cui più spesso è inteso oggi. Ciascuno è tuttavia una tessera del mosaico asssai variopinto che questo articolo cerca di ricostruire. I titoli sono stati ordinati per anno di uscita, distinguendo per praticità di consultazione quattro categorie.
Le “pietre miliari” sono dischi già considerati come cruciali da questo sito, che da tempo ne ospita recensioni dettagliate nella sua rubrica più prestigiosa. Non si è ritenuto di aggiungere loro ulteriori commenti. “Dinosauri” e “debuttanti” sono espressioni ironiche per distinguere gli artisti la cui fama si era già consolidata nel periodo più celebre del progressive rock e quelli che invece hanno intrapreso la loro carriera quando l’epoca di maggior visibilità era ormai alle spalle. Come si potrà notare, le due categorie sono piuttosto permeabili: quella dei “debuttanti”, in particolare, raccoglie anche progetti post-1977 di artisti già navigati. Tutti questi dischi sono di facile reperibilità attraverso le principali piattaforme di streaming. Nella sezione “rarità”, invece, sono citati lavori di disponibilità meno immediata: per ciascuno di essi, è indicata anche la data dell’ultima ristampa (ammesso che sia mai avvenuta).
La playlist di accompagnamento, oltre a fungere da “assaggio” per alcuni degli album proposti, presenta qualche scelta differente e dedica particolare spazio alle intersezioni progressive/post-punk, selezionando brani particolarmente rappresentativi delle connessioni.

Pietre miliari

 

Alan Parsons Project – I Robot (1977) recensione di Claudio Fabretti

 

Kate Bush – The Kick Inside (1978) recensione di Giuliano Delli Paoli

 

The Stranglers – The Raven (1979) recensione di Enrico Parise

 

Flying Lizards – Flying Lizards (1980) recensione di Leonardo Di Maio

 

This Heat – Deceit (1981) recensione di Marco Sgrignoli

 

Peter Gabriel – IV (1982) recensione di Marco Sgrignoli

"Dinosauri"

 

r184214515788511588054_01Camel - Rain Dances (1977)
Ultimo album dei Camel a entrare in top 20, ultimo con Andrew Latimer e Peter Bardens a firmare tutti i brani. “Rain Dances” è la conclusione di una fase della band, ma al tempo stesso è anche una porta spalancata sulla successiva: è il primo senza lo storico bassista Doug Ferguson, sostituito dall’ex-Caravan Richard Sinclair. E il primo con un fiatista in pianta stabile nella formazione - Mel Collins, già con King Crimson, Bad Company, Uriah Heep. Ma sarebbe un errore inquadrare il disco come lavoro di transizione. Da sempre abili a cesellare atmosfere coi loro intrecci, in “Rain Dances” i Camel sembrano qui voler costruire una rassegna di stati d’animo. I brani, melodicamente solidissimi, sono bolle sospese fra luce e malinconia, mondi in miniatura che racchiudono emozioni senza nome. Quasi a confermare l’inclinazione, in un pezzo è presente Brian Eno, che di lì a poco sarà alle prese col caposaldo ambient “Music For Airports”. La carriera del gruppo procederà a lungo, con album preziosi crescentemente a cavallo fra progressive rock e new wave: i timbri liquidi e la vena introspettiva di “Rain Dances” sono così al tempo stesso un’anticipazione di ciò che sarà e un unicum nel percorso della formazione.

 

1200x1200bf60John Greaves, Peter Blegvad, Lisa Herman – Kew.Rhone (1977)
Dopo la fine della collaborazione fra Henry Cow e Slapp Happy, John Greaves dei primi resta in contatto con Beter Blegvad dei secondi, e nel 1976 lo segue a New York dove nel frattempo ha trovato impiego per uno studio di animazione. I due si mettono al lavoro su un concept-album, con musiche di Greaves e parole di Blegvad, basate su illustrazioni da lui stesso realizzate (e sul dipinto che appare in copertina, “Exhuming The First American Mastodon” dell’ottocentesco Charles Willson Peale). Ricchi di immagini surreali, proverbi, palindromi e anagrammi, i testi si complementano con il tono lunare delle esecuzioni musicali, realizzate da Greaves, Blegvad e dalla cantante Lisa Herman in combutta con due pesi massimi dell’avant-jazz newyorkese, Carla Bley e Michael Mantler. La formula risultante, sospesa fra ieraticità brechtiane e canzone d’autore, scherzi canterburiani e oscurità sperimentali, è un unicum nel panorama dell’epoca.

 

ab67616d0000b273810168d54f85d48f07389237_1Pink Floyd – Animals (1977)
Quando “Animals” esce, si tratta senza dubbio del disco più scuro della discografia dei Pink Floyd. Visto il seguito della carriera, forse tale qualifica oggi non è più valida, ma certamente l’album segna un doppio e curioso apice: è il lavoro più punk pubblicato dalla band e al tempo stesso anche il più progressivo - almeno nell’accezione che correntemente si tende a dare al termine. Se i fumi psichedelici dei primi anni e le sofisticatezze di studio di “The Dark Side Of The Moon” ricordano poco il sound sinfonico, gli accordi di Rhodes di “Sheep” e la struttura cangiante di “Pigs (Three Different Ones)” segnano con ogni probabilità il momento di massima vicinanza ai canoni progressivi nella carriera del quartetto. Le atmosfere cupe, la modernità sonora e il piglio arrabbiato delle interpretazioni proiettano tuttavia l’album verso i sommovimenti dell’era Thatcher, facendone non solo il preambolo al kolossal psicanalitico “The Wall”, ma anche una cartina al tornasole di quanto sul finire degli anni Settanta la disillusione abbia ormai preso il posto delle speranze tardo-hippie.

 

518rb8flj1l._ac_sl1200_Bruford – One Of A Kind (1979)
Secondo album della compagine jazz-rock capitanata da uno dei batteristi prog per eccellenza, “One Of A Kind” come il precedente si situa a cavallo fra fusion virtuosistica e Canterbury sound. La formazione chiarisce tutto: alla chitarra e al basso due turnisti di altissimo bordo come Allan Holdsworth e Jeff Berlin (ma la qualifica è ovviamente riduttiva); alle tastiere il fondatore di Egg, Hatfield And The North e National Health, Dave Stewart. E poi Bill Bruford, autore di tutti i brani (tranne uno a firma Holdsworth) e fulcro dell’equilibrio della musica. È grazie al suo stile energico ma posato, ricco di invenzioni ma mai strabordante, che i brani suonano caleidoscopici senza che l’esibizionismo prenda mai il sopravvento su giocosità e qualità evocative. L’alternarsi di atmosfere e le continue sorprese ritmico-melodiche fanno dei pezzi un ascolto ideale anche per chi, appassionato delle band sinfoniche, trovasse la fusion strumentale talvolta un po’ austera.

 

r164573216539936166800Hawkwind – Levitation (1980)
Colonna portante del giro dei free festival fin dagli albori nel 1970, gli Hawkwind di Dave Brock sono un nome cruciale dell’underground britannico e fra i primissimi la cui musica sia stata battezzata space-rock. La loro fama presso gli appassionati di progressive rock è legata soprattutto alla prima metà degli anni Settanta, ma con la fase successiva della band si assiste a un fenomeno peculiare: rispettati anche da critica e artisti punk per il loro suono fragoroso, nei dischi in studio iniziano a smussare i loro aspetti più dirompenti e ad avvicinarsi ad altre formazioni progressive. “Levitation”, uscito al volgere del decennio, è emblematico di questo processo: groove trance-rock e gorgogliamenti sintetici, elemento fondamentale dei loro travolgenti live, sono organizzati in maniera disciplinata e melodicamente incisiva - con un gusto talvolta quasi wave. I continui cambi di formazione hanno lasciato solo Brock fra i membri dell’epoca “Doremi Fasol Latido”, e a completare l’organico figura in quest’album un sorprendente Ginger Baker, che col suo drumming tentacolare ma sempre equilibrato costituisce per buona parte delle tracce un impagabile valore aggiunto.

 

81845nwe8l._ac_sy355_Jethro Tull – A (1980)
Senza mai stravolgere la propria formula, dalla metà degli anni Settanta i Jethro Tull esplorano di album in album le possibili declinazioni del loro sound, portandolo ora in direzione hard, ora più folk. "A", inizialmente concepito come debutto solistico del leader Ian Anderson, segna l'avvento di un'ulteriore via, più elettronica ma capace di combinare potenza e leggiadria. Per l'occasione viene reclutato il tastierista e violinista degli Uk Eddy Jobson, principale responsabile delle nuove coloriture del disco. I brani sono diretti e moderni nel suono, con le invenzioni sintetiche di Jobson che complementano efficacemente le sciabolate chitarristiche di Martin Barre, qui rese ancor più sbalestranti dall’instabilità ritmica dei pezzi. Il disco non raccoglie grandi risultati commerciali (la band non avrà alcun disco d'oro fino al 1987 di "Crest Of A Knave"), ma testimonia come il dinamismo della formazione non si sia arenato dopo il 1977 del fortunato “Songs From The Wood”.

 

mmcd12chancefrontManfred Mann’s Earth Band – Chance (1980)
L’anglo-sudafricano Manfred Mann non sarà il keyboard wizard più celebrato della sua epoca, ma certamente è fra coloro che hanno saputo riadattare in modo più convincente il proprio sound tastieristico, sfruttando appieno le novità dei secondi anni Settanta. Il progressive pop dei suoi Earth Band, sulla piazza dal 1971, imbocca una strada di successo nel 1976 di “The Roaring Silence”, e i successivi Lp consolidano la solidità nei mercati nordamericani e germanici. Dal sound molto statunitense, ma al tempo stesso chiaramente legato alle esperienze britanniche, il primo album del decennio Ottanta è un galvanizzante connubio di Aor e sperimentazioni alla Alan Parsons, con incursioni power-pop e passaggi sintetici che non sfigurerebbero in pezzi di Gary Numan o John Foxx.

 

r237290314783493287721Yes – Drama (1980)
Poche band progressive possono vantare una capacità di reinvenzione paragonabile a quella degli Yes nel periodo della presunta volatilizzazione del genere. Pressoché ogni album dal 1977 al 1983 sperimenta nuove strade per le atmosfere celestiali e sci-fi tipiche della formazione. Fra tutti, il più distante dal canone dei primi Settanta è forse “Drama”, che vede il nucleo Howe-Squire-White complementato dai due Buggles Trevor Horn e Geoff Downes. L’assetto sarà la premessa, perso Howe e rincasato Jon Anderson, per il boom Aor di “90125”, ma già in questo primo disco porta lo Yessound in territori eccezionalmente moderni e di frontiera. I brani sono sgargianti e proteiformi come da manuale yessiano, ma chitarra e basso suonano taglienti, e la batteria incalzante sostiene una vena melodica più radiofonica che mai. Abbandonato ogni rimando classicheggiante, le tastiere sono un tripudio di stratificazioni polifoniche e timbri plastici da Fairlight CMI. Un piede nel sinfonismo Seventies e uno negli Eighties del synth-pop e dell’Aor, “Drama” è forse l’album che meglio sintetizza le anime passate e future della formazione-simbolo del progressive rock a livello mainstream.

 

cdslive_in_oxford2013Gordon Giltrap – Live (1981)
Pressoché rimosso dalle narrazioni rock successive, il guitar hero acustico Gordon Giltrap gode per tutta la seconda metà degli anni Settanta di un buon credito presso il pubblico britannico, che nel 1977 si traduce in un piazzamento in top 30 per il suo Lp “Perilous Journey”. Cenni del suo virtuosismo luccicante si scorgevano già a inizio decennio nei due dischi con gli Accolade, ma è soprattutto nel percorso solistico che la sua perizia strumentale acquista robustezza melodica e si arricchisce di un carattere sinfonico. Gli album in studio più interessanti in senso progressivo sono probabilmente “Visionary” (1976) e “The Peacock Party” (1979), ma è soprattutto la dimensione live ad alimentare il culto per l’artista. La registrazione del concerto a Oxford del 9 marzo 1979 è un buon compendio dello stile di Giltrap, che certamente soddisferà gli amanti di Gryphon, Michael Hedges e Alan Stivell. Curiosità: come in altri album del periodo, alla batteria figura Ian Mosley, futuro Marillion dal 1984 in poi.

 

cover_355272102017_rNick Mason – Fictitious Sports (1981)
Pesce fuor d’acqua in un panorama di per sé ricco di eccezioni, il debutto solistico del batterista dei Pink Floyd è inquadrato nel progressive rock solo per assenza di alternative più convincenti. Ben pochi i tratti in comune sia con lo sfarzo delle band sinfoniche che con le dilatazioni del gruppo di provenienza o le tante diramazioni periferiche del genere, da Canterbury all’underground più spinto. L’organico e lo stile collocano l’album in campo jazz-rock, ma anche qui i paragoni sarebbero fuorvianti: nei credits hanno ampio spazio la chitarra di Chris Spedding (Nucleus), i fiati di Gary Windo (Centipede, New York Gong), la voce di Robert Wyatt, i contribuiti degli statunitensi Carla Bley (tastierista e autrice anche di tutti i brani), Michael Mantler (tromba) e Steve Swallow (basso); la batteria di Wright però è tutt’altro che jazz, e il piglio dei pezzi per nulla psichedelico. Giusto le aperture liriche di “Hot River” e le sezioni minimaliste della conclusiva “I’m A Mineralist” riallacciano il mood agli apparentemente lontanissimi Seventies britannici; per il resto, il disco è quasi una finestra sul sound ibrido che caratterizzerà la scena downtown newyorkese degli anni a seguire.

 

r262613713476197646981Peter Hammill – Enter K (1982)
Il suono e il clima della new wave, l’articolazione del progressive. E poi la scrittura e la voce inconfondibile di Peter Hammill, simbolo di espressionismo rock riverito anche dalla generazione punk. Il suo terzo album degli anni Ottanta segna l’inizio di una nuova fase per l’ex-Van Der Graaf Generator che, dopo le trasformazioni seguite allo scioglimento della band, sente il bisogno di una stabilizzazione. “Enter K” vede così il debutto del K Group costituito da “K” (Peter Hammill stesso), “Fury” (John Ellis dei Vibrators), “Mozart” e “Brain” (gli ex-VDGG Nic Potter e Guy Evans). La presenza, in due brani, del sax di David Jackson avvicina ulteriormente la formazione al progetto di provenienza di Hammill, ma nonostante le analogie stilistiche i brani svettano per varietà, intrecciando il funk urbano dei Talking Heads con oscurità sintetiche alla “Peter Gabriel IV” e perfino con il piano elettrico Yamaha CP-70 da numero Aor.

 

r21813081268400822King Crimson – Beat (1982)
Robert Fripp l’ha ripetuto più volte: i rinati King Crimson degli anni Ottanta non hanno nulla in comune con la “prigione” rappresentata dal progressive rock. A dire il vero, diceva grosso modo lo stesso all’epoca di “Starless” e “Red”, eppure sia quegli album che la tripletta eighties “Discipline”-“Beat”-“Three Of A Perfect Pair” sono visti da artisti, appassionati e buona parte della critica come una tappa fondamentale nell’evoluzione del prog. Se oggi il genere è considerato la patria naturale di ogni forma di incastro ritmico o astrazione strumentale, è in buona misura grazie alla rimessa a fuoco indotta da Fripp e soci. Certo, le atmosfere urbane e l’affilatezza wave del nuovo corso della band hanno poco di fiabesco, ma soprattutto su questo “Beat” non è difficile scorgere in filigrana una stessa propensione al lirismo chitarristico e alla mutevolezza delle sensazioni. Robert Fripp, insomma, aveva ragione e aveva torto: quello suo e di Bruford, Levin e Belew non è il prog-rock degli anni Settanta - è un terreno inesplorato, distante ma attiguo, destinato a donare al genere nuova linfa e possibilità che ispireranno molti negli anni, e lo fanno ancora oggi.

"Debuttanti"

 

r1097385215074797523885England – Garden Shed (1977)
Un album che nei decenni si è conquistato un culto presso gli appassionati, “Garden Shed” è fra i pochissimi debutti pubblicati dopo il 1975 su un’etichetta di primo piano (Arista, in questo caso) da parte di musicisti perlopiù alla prima esperienza discografica. Il sound è un mix molto ben giocato di Yes, Gentle Giant e, soprattutto, Genesis, band con cui il quartetto del Kent condivide parte della strumentazione oltre che svariati elementi stilistici: stando al sito Planet Mellotron, uno dei Mellotron MkII che compaiono sul disco è il primo appartenuto a Tony Banks. Spigliate e ricche di incastri e voltafaccia, le sei tracce del disco sono un tripudio di tastiere e ingegnoso sound design sintetico. Pezzi come l’iniziale “Midnight Madness” offrono un assaggio delle stratificazioni accordali che sarebbero diventate uno standard per molti artisti negli anni successivi: non disponendo di un sintetizzatore polifonico, tuttavia, il tastierista Robert Webb dovette ottenere l’effetto con un ordinario Minimoog e un certosino lavoro di multitracking.

 

r553684713959295686762Skywhale – The World At Mind’s End (1977)
Usciti tardi e su un'etichetta minore, i bristoliani Skywhale non riscuotono successo di pubblico né riscontri di critica. Un peccato, perché il loro jazz-rock melodioso e articolato è fra i più fantasiosi del periodo. La loro formula interamente strumentale presenta un interplay serrato ma arioso, che unisce spunti canterburiani e virtuosismo senza mai farsi frivolo. Slanci zappiani, inseguimenti di fiati e chitarra pulita e occasionali innesti funky sono alcuni degli elementi delle loro caleidoscopiche composizioni, poco valorizzate da una copertina suggestiva ma inadeguatamente inquietante per un album così brioso. Dopo essersi esibiti a Glastonbury nell’anno di uscita dell’unico album e aver presenziato ad alcuni altri festival, nel 1979 si sciolgono e le strade dei musicisti coinvolti si separano: il chitarrista Steve Robshaw accompagnerà Peter Hammill nel suo percorso solistico, il batterista Roy Dodds suonerà con Korgis e k.d. lang, mentre il tastierista Howard Scarr (aka Gwyo Zepix) si unirà molti anni più tardi alla scuderia del compositore Hans Zimmer, militando anche in Gong, Here & Now e Zorch.

 

UK – UK (1978)
cover_53411029112010Conclusa l'acclamata esperienza dei King Crimson e non ancora avviata quella assai remunerativa degli Asia, il bassista e cantante John Wetton cerca un nuovo progetto musicale. Si unisce così al batterista ed ex-sodale crimsoniano Bill Bruford, e i due si impegnano a reclutare un ulteriore musicista ciascuno: Wetton coinvolge il tastierista e violinista Eddie Jobson (Curved Air, Roxy Music, futuro Jethro Tull), mentre Bruford ingaggia il funambolico chitarrista Allan Holdsworth (Soft Machine, Pierre Moerlen's Gong) per dar vita agli UK. La caratura dei componenti garantisce alla band la massima versatilità, ma anche uno dei sound più personali dell'epoca: Aor e jazz-rock, pop energico e cupi slanci sintetici si combinano in atmosfere dinamiche e futuribili, che rendono ruvide le melodiosità smooth e irresistibili i più astratti incastri fusion.

 

r16787141307243516National Health – Of Queues And Cures (1978)
I National Health sono il più in vista fra i progetti legati Canterbury sound nella seconda metà degli anni Settanta, e nascono dalla sostanziale fusione di due formazioni importanti della scena, gli Hatfield And The North e i Gilgamesh. Dopo un primo album nel 1978, il gruppo accoglie gli ex-Henry Cow John Greaves e Georgie Born e dà alle stampe un secondo Lp, che oggi come allora risulta il più apprezzato dai fan. Rispetto ad altri frutti del filone, il sound è qui più focoso e ardito, con poche aperture pop ma molta cura, sia delle melodie che degli incastri strumentali. In più passaggi riemerge, oltre al quintessenziale organo fuzz, anche l’attitudine sperimentale che aveva caratterizzato gli Egg. Imperdibile per gli appassionati il racconto attraverso i live della transizione fra Hatfield And The North e National Health contenuto nel romanzo “The Rotters’ Club” (“La banda dei brocchi”) di Jonathan Coe.

 

81uira4rful._ac_sl1500_Jeff Wayne – The War Of The Worlds (1978)
Già tastierista e arrangiatore per David Essex, nel 1974 Jeff Wayne si mette in testa di orchestrare una versione musicale del classico della fantascienza di H.G. Wells, che vede l’umanità impegnata in un conflitto disperato con invasori marziani. Il progetto raccoglie l’interesse di Cbs e porta a un anno e rotti di registrazioni, fra il 1976 e il 1977, con un cast stellare comprendente musicisti di Moody Blues, Manfred Mann’s Earth Band, Thin Lizzy oltre che lo stesso David Essex, il chitarrista Chris Spedding e la star cinematografica Richard Burton come voce narrante. Il doppio album risultante, oggi raramente citato, è uno dei massimi successi discografici degli anni Settanta britannici, e ancora oggi risulta essere fra i cinquanta album più venduti di sempre nel Regno Unito (in campo progressive è secondo solo a “The Dark Side Of The Moon”). Senz’altro oggi un po’ démodé coi suoi dialoghi di synth, orchestra e porzioni recitate, è un lavoro stilisticamente molto variegato con ottimi spunti strumentali e intriganti slanci disco.

 

51afgvittcl._ac_sx425_Magnum – Kingdom Of Madness (1978)
Proprio negli anni in cui la stampa musicale britannica riverisce come semidei gli artisti del newyorkese Cbgb, una band di Birmingham guarda ad altri modelli americani per costruire una propria strada all’Aor. L’accorata magniloquenza dei Kansas e l’ossessione boogie-rock dei Boston sono, insieme al giusto di Rush, gli ingredienti chiave che i Magnum reimpastano con Yes, Led Zeppelin e nascente New Wave Of British Heavy Metal nel loro primo album: il suono risultante è tagliente e diretto, ma fantasioso e capace di levigatezze. I brani mantengono un gusto nettamente progressive, pur preludendo all’epico sinfonismo hi-tech che troverà compimento negli anni successivi (si veda “On A Storyteller’s Night”, del 1985). Il primo esempio di “progressive metal”?

 

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Magazine – Secondhand Daylight (1979)
Forse nessuna band quanto i Magazine mostra quanto una parte del post-punk sia stata una prosecuzione del progressive rock con premesse diverse. Ancor più del debutto “Real Life”, l’album successivo pare situato in un elseworld in cui l’intera evoluzione progressiva del rock sia incominciata a Settanta inoltrati. Stia alla larga chi per forza cerca rimandi diretti agli stilemi sinfonici: tolti alcuni passaggi di tastiera particolarmente genesisiani, le connessioni con la precedente ondata progressiva sono subliminali. Atmosfere cangianti ed evocative (per quanto spesso virate dark), forte presenza strumentale, incedere epico e salti stilistici. Qualche rivista all’epoca storce il naso, ma il tono penetrante dell’ex-Buzzcocks Howard Devoto e la chitarra ombra-e-luce di John McGeoch saranno cruciali per l’evoluzione dell’estetica goth, traghettando così nei decenni successivi l’influenza di questa nuova visione progressiva.

 

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Punishment Of Luxury – Laughing Academy (1979)
Provengono da Newcastle, traggono il loro nome da un dipinto di Segantini conservato a Liverpool e si formano nel 1977, ispirandosi a un pantheon caleidoscopico comprendente King Crimson e Sex Pistols, Sparks e 10cc, Frank Zappa e Todd Rundgren. I Punishment Of Luxury (PuniLux per gli amici) sono fra le formazioni più eccentriche nate sulla frontiera fra punk e prog. Appassionati di teatro sperimentale, si esibiscono con maschere e movenze da burattini e costruiscono brani caustici che sono un tripudio di stralunatezze e spigoli vivi. Funk-punk schizoide che presenta molteplici punti di contatto con Cardiacs e Devo.

 

71vkc5k5jas._ac_sx355_The Enid – Six Pieces (1980)
Diplomato al conservatorio e storico collaboratore dei Barclay James Harvest, nel 1973 Robert John Godfrey dà vita al proprio gruppo e crea i The Enid, destinati a diventare la nerd-band definitiva per i giovani britannici dei secondi anni Settanta. I compagni di avventure sono tutti amici stretti di Godfrey, che ha vissuto con loro per alcuni anni alla Finchden Manor, una “comunità per ragazzi delinquenti, disturbati o disturbanti”. La band diventa di culto presso un pubblico variegato, attratto in particolar modo dai bizzarri live in cui reinvenzioni classiche si alternano a cover di Troggs e Sex Pistols. Fra i tanti album a fuoco, il quarto “Six Pieces” è scelto soprattutto per l’apertura “The Punch and Judy Man”, che combina Gentle Giant e armonie alla Debussy in un tour de force a dir poco camaleontico.

 

513whwqd2il._ac_sy450_Sky – 2 (1980)
La band del chitarrista anglo-australiano John Williams si impone nelle classifiche britanniche ed europee al passaggio fra i due decenni con uno stile classical crossover ampiamente sconfinante nell'easy listening: un segnale di quanto forte fosse ancora l'interesse del pubblico per le fusioni di classica e pop. Doppio album interamente strumentale, “Sky 2” raggiunge in tempi record lo status di disco di platino sfruttando il traino della rivisitazione bachiana “Toccata”, lanciata come singolo. Molte comunque le frecce all’arco della band, che conta fra le proprie fila anche Herbie Flowers (T. Rex, bassista per Lou Reed su "Walk On The Wild Side") e l'ex-Curved Air Francis Monkman. Episodi tradizionali, brani per chitarra classica, riletture di Vivaldi e Rameau, nonché una suite da 17 minuti assicurano la varietà della tracklist, anche oggi capace di appagare chi non si senta intimidito dalle eventuali incursioni nel kitsch.

 

a0489268329_10The Astronauts – Peter Pan Hits The Suburbs (1981)
Gruppo associato al filone anarcho-punk, gli Astronauts di Mark Wilkins sono la prova (una delle tante) della permeabilità delle categorie musicali a cavallo fra Settanta e Ottanta. Il loro primo Lp presenta un suono ibrido folk/avant/post-punk che, oltre a Crass, Stranglers e forse Fall, agli ascoltatori italiani potrà ricordare i nostrani Franti. Svariati i richiami alla prima parte del decennio Settanta, e agli artisti progressive in particolare: fra ballad decadenti che evolvono in cavalcate grintose, cambi di tempo ed echi floydiani, è chiara la passione dei musicisti coinvolti per le atmosfere cangianti degli artisti sinfonici. Sezioni più impervie incentrate su piano, violino e flauto (ospite l’ex-Hawkwind Nik Turner) svelano anche la familiarità coi percorsi radicali di Henry Cow e soci. La carriera della band prosegue lungo gli anni Ottanta, e da metà del decennio il polistrumentista Phil Thornton avvia una ricca produzione in ambito new age/space ambient, entrando poi negli anni Novanta nei neopsichedelici Mandragora.

 

landscapefromthetearoomsofmarstothehellholesofuranusextrabig100816Landscape – From The Tea-Rooms Of Mars.... ....To The Hell Holes Of Uranus (1981)
Inclusione senz’altro borderline, il secondo album dei Landscape è un techno-art-pop che ha più in comune con la Yellow Magic Orchestra e le invenzioni aliene dei Godley & Creme che con qualunque altro artista citato nell’articolo. Ma il mastermind del progetto, Richard James Burgess, ha trascorsi jazzistici con Nucleus e Neil Ardley e ha collaborato con Kate Bush: è insomma “uno del giro”, e un ascolto del disco rivela una familiarità vistosa con gli stratagemmi classici del prog propriamente inteso. Atmosfere che costruiscono man mano la loro maestosità, voltafaccia flash-rock, diagonali guizzanti di synth che paiono chitarre. Il buon successo del giocoso singolo “Einstein A Go-Go” spingerà l’album alla sedicesima posizione nella classifica, ma i migliori record per Burgess arrivano da altre vie: come produttore, l’anno prima, del debutto degli Spandau Ballet, è un importante traghettatore del fenomeno new romantic dai club londinesi alle fortune commerciali.

Rarità

 

r29127811306964760Planet Gong – Live At Floating Anarchy 1977 (1978)
Giunta la metà degli anni Settanta, la compagine Gong si disgrega, dando vita a un groviglio di traiettorie e intersezioni personali. Il titolare del nome originale rimane il batterista Pierre Moerlen, che con musicisti eccellenti porta avanti un percorso jazz-rock/fusion più disciplinato rispetto alla prima parte del decennio. Steve Hillage, Gilli Smyth e Daevid Allen proseguono invece lungo strade proprie, e quelle degli ultimi due incrociano fra 1977 e 1978 le vicende degli Here & Now, formazione prog/punk/space-rock con un ruolo crescente nel circuito dei festival liberi. L’unica testimonianza discografica dei Planet Gong (questo il nome della creatura comune) è una registrazione live, che affianca alla consueta indole “svalvolata” di Allen un sound ruvido e tirato, reso ancor più inebriante elettronica psichedelica e ripetizioni kraute. Ristampato in cd nel 1996.

 

r144500413995006733714Arthur Brown & Vincent Crane – Faster Than The Speed Of Life (1980)
Fra i numi tutelari dell'underground londinese alla fine degli anni Sessanta, Arthur Brown impressionò col granguignolesco teatro-rock dei suoi Crazy World e Kingdom Come, indicando la via ad artisti come Alice Cooper e Peter Gabriel, David Bowie e King Diamond. Nel 1979 si mette in combutta con l'ex-tastierista degli Atomic Rooster Vincent Crane e scommette su una formula altamente sinfonica per un album che vede Klaus Schulze nel ruolo di produttore esecutivo. Fra abbondanti passaggi sull'Hammond e sferzate d'archi e fiati, il risultato è cupo e maestoso ma mai tronfio, nonostante l'interpretazione enfatica di Brown. Ristampato in cd nel 2011.

 

mikerutherford_smallcreepsday_cdMike Rutherford – Smallcreep’s Day (1980)
Il bassista e chitarrista dei Genesis non è certamente uno sconosciuto, ma nonostante le ristampe, il suo primo album solistico rimane poco celebrato e manca dalle principali piattaforme di streaming. I fan del periodo più prog della band lo apprezzeranno per il suo legame con atmosfere e suoni seventies, ma il disco è notevole anche per le brillanti prove del cantante Noel McCalla e del batterista Simon Phillips, nonché per le atmosfere luminosamente malinconiche di alcuni pezzi — un tocco new age forse portato in dote dall’ex-Genesis Anthony Phillips, qui alle tastiere. Ristampato in cd nel 2022.

 

edgesquare11980The Edge – Square 1 (1980)
Formula alquanto sorprendente quella dei londinesi The Edge, autori di un unico album che, fra le molte fusioni di progressive rock e new wave dell’epoca, è probabilmente la più paritaria. Vantando fra i propri componenti due ex-Damned (chitarra e batteria) e un membro dei Jade Warrior (voce e basso), la band dispone di ottime credenziali per entrambi i filoni; sono tuttavia le sagittanti parti di tastiera, a cura dell’esordiente Gavin Povey, la vera carta vincente del disco. Tredici brani di power-pop elettrizzante, da qualche parte fra Stranglers, Genesis e Xtc. Peccato per l’insuccesso e l’assenza di ristampe (l’uscita per la scalcagnata Hurricane Records non deve aver aiutato su nessuno dei fronti).

 

r110193314415511633986Walkie Talkies – Surveillance (1980)
Fra Canterbury, Police e King Crimson periodo “Discipline”, una formula difficilmente classificabile dal taglio decisamente wave e, al tempo stesso, incontrovertibilmente jazz-rock. Le menti del progetto, che per non guastare ha anche qualche accento dei Godley & Creme, sono due altrimenti sconosciuti residenti dell’isola di Guernsey, Dave Fuller e Rob Spensley. Per l’occasione vengono ingaggiati però anche Dave Stewart e Amanda Parsons degli Hatfield And The North, nonché Stuart Elliott dei Cockney Rebel. Il risultato è un album a fuoco e sui generis, purtroppo mai ristampato.

 

r323456813512683705104Gizmo – Victims (1981)
Quasi una combinazione di Genesis e Ultravox, i canterburiani Gizmo fondono i toni della band di Peter Gabriel (chiaramente rievocato dal cantante Dave Radford) con decadenti atmosfere elettroniche, spesso sconfinanti in un’oscurità strisciante. I sintetizzatori del tastierista Brian Gould (già attivo qualche anno prima coi Seventh Wave) indugiano raramente su motivi classicheggianti, preferendo invece un incedere robotico che nei frangenti più cyberpunk ricorderà Gary Numan. L’abbondante presenza del violino in alcuni brani arricchisce la tavolozza di un disco dal carattere decisamente ibrido e sorprendente, la cui unica ristampa risale al 1991 (sulla label neoprog UGUM Productions).

 

gracegracecoverartGrace – Grace (1981)
Sfacciatamente genesisiani, ma con un piglio pop e ruspante che facilmente ricorderà i primi Marillion. Fondati nel 1977 a Stoke-on-Trent nello Staffordshire, i Grace non riescono a lasciare il segno con il loro unico album dell’epoca, che rimane tuttavia una testimonianza significativa degli stili “intermedi” fra prog sinfonico settantiano e neoprog ottantiano. Improbabile un’influenza sulle band dell’ondata revivalistica che si farà strada nelle chart dalla fine del 1982, ma le somiglianze sono notevoli, come le analogie con altre formule proposte altrove in Europa in quegli anni (ad esempio dai tedeschi Neuschwanstein). Mancato il successo in ambito progressivo, cantante e fiatista torneranno nel 1983 con un progetto new romantic, i White Door, con qualche fortuna commerciale in più ma nessuna hit. Mai ristampato.

 

5124ioowhkl._ac_sx450_The Work – Slow Crimes (1982)
I The Work di Tim Hodgkinson (Henry Cow) e Bill Gilonis sono facilmente la più anti-prog delle band in questa selezione. Fra chitarre sferraglianti, voci deliberatamente stonate e frammenti rumoristici, il disciplinato sperimentalismo che si è soliti associare al termine “progressive” pare davvero lontanissimo. D’altra parte, anche nei primi anni Settanta Hodgkinson e compari si vedevano come radicalmente alternativi non solo a Yes ed Emerson, Lake & Palmer, ma anche ai King Crimson. Allora come un decennio dopo, però, le mele tendono a cadere poco lontane dall’albero, e non è difficile ritrovare un gusto frippiano (pardon, frithiano) nelle diagonali elettriche di “Like This”, o l’ossessione tipicamente progressiva per gli incastri ritmici nei controtempi (dispari) di “Cain & Abel”. Non un ascolto per tutti, ma chi ama This Heat e Family Fodder troverà in questa band pane per i suoi denti. Ristampato in cd nel 2019.

 

r266831814606397877047The Ghoulies – Dogged By Dogma (1982)
A inizio anni Ottanta l’hype sulla scuola di Canterbury è ormai pressoché dissipato, e questo progetto passa sostanzialmente inosservato nonostante la presenza di Dave Stewart e Pip Pyle degli Hatfield And The North/National Health. Architetto dell’operazione è il gallese Charlie Summers, che si mette in contatto con i due tramite un conoscente comune (Green Gartside degli Scritti Politti). I brani, tutti firmati e cantati da Summers, combinano l’obliquità jazzata tipica della scena con influssi più recenti, dal dub alle frange più funky del post-punk. Un album raccomandato a tutti i fan del mood canterburiano e delle sue evoluzioni. Mai ristampato.

 

sl400_1Mazlyn Jones – Breaking Cover (1982)
Dopo due album di folk-rock molto giocati sulla dodici corde, il chitarrista Nigel Mazlyn Jones decide di dare spazio alle trame ambientali e ai trattamenti elettronici coi quali aveva iniziato a sperimentare nel secondo Lp. Reclutato Guy Evans dei Van Der Graaf Generator alla batteria, si concentra su delay e stratificazioni e approda a una formula molto personale, equidistante da new wave, new age ed echi di Gilmour, Fripp e John Martyn. “Breaking Cover” è un album unico nel suo genere, chiaramente legato alle sonorità degli anni Settanta ma in qualche modo già proiettato verso il cammino tessiturale che dai Durutti Column condurrà ai Dif Juz, ai Disco Inferno, ai Bark Psychosis e al post-rock. Ristampato in cd nel 2012.

Discografia

Pietra miliare
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