Ok, potrei aver mentito. Il tema di “Miami Vice” non passa mai di moda. E la combo vaporwave+synthwave potrebbe aver reso le pomposità sintetiche più sfrenate degli anni Ottanta meno respingenti di qualche tempo fa. Ma meglio così. Nelle tarde carriere di big del rock seventies e fra le one-hit wonder mai trasmesse al di qua dell’oceano, ci sono perle sfolgoranti che raccontano un’epoca in cui lo stadium rock non si faceva problemi a impossessarsi delle macchine più avveniristiche sulla piazza, a flirtare con dance, new wave e power pop e a spingere al massimo sul pedale della grandeur.

 

Qualche protagonista lo conoscete per forza. Gli Yes, rinati in terra americana sotto la protezione di Trevor Horn e del sudafricano Trevor Rabin, e poi i loro fortunati spinoff Asia e Anderson, Bruford, Wakeman, Howe. I Genesis, nel vivo del loro astrattismo sintetico era Banks-Collins-Rutherford. I Rush, Hall&Oates, gli Starship (furono Jefferson Starship, che sarebbe poi a dire Jefferson Airplane), i Chicago — con un bel po’ di acqua sotto i ponti a separarli dal brass rock di “I’m A Man”.
Nomi arcinoti ce ne sono altri, ma non più umani. Strumenti, tecnologie il cui uso/abuso avrebbe esposto il sound dell’Aor anni Ottanta a critiche i cui echi ancor oggi non si sono spenti. Inespressivo, pacchiano, “di plastica”: così è stato etichettato lo sposalizio hi-tech di nuovi sintetizzatori, drum machine ed espedienti di studio che ha finito per identificare nell’immaginario collettivo non solo la musica degli artisti in esame, ma quella dell’intera decade. Fra i tanti riferimenti possibili, sono irrinunciabili almeno quattro: il sintetizzatore digitale Yamaha DX-7, il primo a dischiudere le possibilità della modulazione di frequenza (o sintesi Fm) e fra i primissimi a presentare un’interfaccia Midi; la batteria elettronica Simmons; la drum machine LinnDrum — con suoni campionati che la rendevano notevolmente più dinamica delle rivali Roland 808 e 909. E poi il trucco dei trucchi anni Ottanta, quel gated reverb messo a punto da Phil Collins in combutta con Steve Lillywhite e Hugh Padgham, durante le sessioni di “Intruder” di Peter Gabriel.

Ma non di soli pezzi da novanta vive un genere, e più di tanti altri l’hi tech Aor è definito dalle decine (centinaia?) di formazioni di successo meno dirompente e che tuttavia per i fan (sì, ce ne sono!) hanno saputo rappresentare con il loro stile l’essenza del filone. Ci sono formazioni come i canadesi FM e Saga, nate in coda all’epopea prog/pomp e capaci di adattarsi magistralmente al nuovo verbo sintetico, e altre nate qualche anno più in là, ma ben contente di recuperare lo sfarzo e la caleidoscopicità del progressive che fu (It Bites, Toy Matinee). Una corrente di peso combina il versante più progressivo alla componente heavy, tenendo comunque al centro l’immediatezza pop e lo sbrilluccicante sound sintetico: Simon Chase, Aviator, Shooting Star sono alcuni esempi, ma i due nomi più rispettati sono lo one-man-band Jeff Cannata e i britannici Magnum, anello di congiunzione fra rock progressivo ed epic metal. Il tutto a confermare che l’eredità del progressive rock negli anni Ottanta non è stata raccolta solo da Marillion e fuggiaschi post-punk come i Chameleons.
L’espressione hi tech Aor è poi associata a una miriade di progetti più leggeri, talvolta dal piglio decisamente synth-pop (si veda la celeberrima “Sunglasses At Night”) e in altri casi assai vicini ai fasti new romantic di Duran Duran e Spandau Ballet (Device, Nik Kershaw - quest’ultimo inclusione invero un po’ borderline).

La selezione proposta è poco ortodossa, e volutamente sbilanciata sugli elementi di continuità con il sound sinfonico anni Settanta. L'inserimento di alcuni artisti poco paradigmatici vuol essere un modo per valorizzare la varietà del filone, oltre che per suggerire ipotetiche connessioni con altri ambiti. Al lettore curioso il compito di lanciarsi nelle esplorazioni di suo maggiore interesse!

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