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Quando il prog inventò la new age

Viviamo in tempi così perversi che dobbiamo sfuggirne per il nostro stesso bene. Abbiamo bisogno di musica che non ci catapulti su e giù per strutture prevedibili. In una società che enfatizza la competizione, questo album è passivo. Anziché tentare di affettarsi l’un l’altro come be-bopper assetati di sangue, questi musicisti improvvisano collettivamente. Preferiscono una stasi pacifica che un inerpicarsi a capofitto da una cadenza all’altra.
(Tony Scott, 1964, citato in Judie Eremo, “New Age Musicians”, 1988)

A una prima impressione, pochi fenomeni musicali appaiono più distanti di progressive rock e new age. Cambi vorticosi ed enfasi dinamica da un lato, serafica ricerca della stagnazione dell’altro. Virtuosismo vs. sottofondo, scontri intergalattici vs. calma interiore. Eppure, potrà stupire o meno, la lista dei musicisti che abbia operato a cavallo fra i due filoni è sterminata. Al punto che raccoglierne una quarantina per compilare una rassegna significativa ha comportato esclusioni importanti.

 

Ma a connettere i due campi non è soltanto un elenco di nomi in comune, e se si abbandonano gli stereotipi la contiguità diviene addirittura evidente. Il progressive ha giocato molto, soprattutto coi voltafaccia flash-rock della sua versione sinfonica, sui contrasti di intensità, e per farlo ha esplorato a fondo le possibilità dei pianissimo, delle atmosfere dilatate e delle stratificazioni in lenta evoluzione. Da buon figlio del big bang psichedelico, poi, ha spesso messo in primo piano la dimensione interiore, finanche spirituale dell’esperienza musicale, e valorizzato più di ogni altro ramo del pop-rock forme espanse e tessiture strumentali. Ha scommesso sulla commistione stilistica e sulla costruzione di nuovi territori musicali in cui fuggire con la mente, creduto nella rivoluzione offerta dagli strumenti elettronici e dalle manipolazioni in studio, messo a punto espedienti per indurre nell’ascoltatore le sensazioni più diverse — fra cui focus, comfort, tranquillità.
La musica new age, dal suo canto, è stata ed è molto più che una costola della elevator music buona per riempire compilation a tema piramidi e chakra. Per un arco di tempo che va almeno dalla seconda metà degli anni Settanta all’inizio degli anni Novanta, ha costituito un territorio estremamente libero e prolifico in cui musicisti interessati all’espansione dei linguaggi musicali hanno potuto operare al confine fra pop, musica tradizionale, rock strumentale, jazz sincretico e improvvisazione, musica colta, sperimentazione elettronica. Inizialmente lontani dalle logiche di mercato, e poi appoggiandosi a una nicchia sempre più protesa verso il mainstream, gli artisti hanno creato musica non ancorata alla forma-canzone, spesso lungo percorsi che traevano la loro ispirazione da esperienze pionieristiche sviluppatesi qualche anno prima in ambito progressivo.
A svolgere un inatteso ruolo di aprifila, formazioni “di confine” come Third Ear Band e Jade Warrior in Gran Bretagna, Clearlight in Francia, oppure in Italia Aktuala e Telaio Magnetico.

A confluire nell’estetica new age, chiaramente, è molto altro oltre al prog. Alcuni ingredienti, come il minimalismo di Glass, Reich e Riley, il folk elettrico dei celtici Pentangle e il jazz elettrico poi mutato nella fusion di marca Weather Report, Embryo o Passport sono ispirazioni comuni ai due filoni. Altri elementi musicali, dalle fluttuazioni kraut e kosmische allo space rock alle sonorità tardo-hippie dei festival liberi, sono frutto di percorsi simultanei al progressive e non privi di abbondanti intersezioni. Due carriere sono emblematiche di quanto forte sia stata, da un certo punto degli anni Settanta, l’attiguità fra i fenomeni in questione: quella di Mike Oldfield e quella di Vangelis. Tutt’altro che esempi isolati, i due personaggi sono la punta di un iceberg che vede altri nomi significativi in David Bedford, compositore in orbita canterburiana e collaboratore di Oldfield e Kevin Ayers, Jon Anderson, Robert Fripp… a cui si sarebbero poi aggiunti, col progredire degli anni, l’ex-Yes Patrick Moraz, l’ex-Genesis Anthony Phillips, l’ex-Nucleus e Soft Machine Karl Jenkins, l’ex-Happy The Man ed ex-Camel Kit Watkins, Richard Pinhas degli Heldon, il tastierista di Peter Gabriel Larry Fast e perfino, anche se solo per progetti sporadici, Phil Collins (in compagnia dei Brand X nell’album “Marscape” del 1976), il funambolico chitarrista dei Focus Jan Akkerman e l’altro ex-Genesis Steve Hackett.

 

Anche il campo jazz-rock/jazz fusion, che da un lato e dall’altro dell’oceano ebbe col progressive rock confini quantomai sfumati, diede un contributo fondamentale al filone. Jan Hammer della Mahavishnu Orchestra, Jean-Luc Ponty, Shadowfax, Pat Metheny, Terje Rypdal e, più in là nel tempo, David Torn e il Group 87 di Mark Isham e Terry Bozzio sono tutti autori di album dal sound ibrido, in continuità palese sia con la focosità prog che con le sfumature new age. Per i nomi chiave di questo continuum, così come per orientarsi nel vasto pantheon degli artisti “autoctoni” della new age progressiva, è utile fare riferimento a “The Billboard Guide To Progressive Music” di Bradley Smith, uscito nel 1997. È un testo di difficile reperibilità, che grazie al suo approccio non convenzionale al concetto di progressive può essere tuttavia illuminante nel tracciare connessioni post-1977 fra i prosecutori del filone.
Fra gli altri artisti ampiamente discussi sulle pagine del libro, figurano la violinista Vicki Richards (coinvolta anche nei Black Tape For A Blue Girl), il duo fiati-sintetizzatori Emerald Web, il chitarrista acustico Steve Tibbetts e l’iperprolifico flautista e chitarrista Georg Deuter. Non compaiono nella selezione di Smith, ma risultano comunque molto efficaci per ampliare la panoramica alcuni dei nomi più in vista della new age music: i due virtuosi di basso e chitarra acustica Michael Manring e Michael Hedges (entrambi accasati - come Isham e Shadowfax - presso Windham Hill, etichetta leader del settore), l’arpista svizzero Andreas Vollenweider (vincitore nel 1987 del primo Grammy per la categoria new age), il tastierista e chitarrista David Arkenstone, gli eroi sintetici Kitaro e Yanni, giapponese e greco rispettivamente.
Completano il quadro due scelte fra artisti dal debutto più recente, entrambi francesi e capaci di ispirarsi contemporaneamente al campo neoprog e a quello new age: il solista Jean-Pascal Boffo e l’ensemble XII Alfonso.

Tutto cambiò negli anni Ottanta. […] La musica progressiva si separò in piccoli gruppi molto differenti. L’emergere di una musica più calma, meno orientata al rock e alle band - ciò che aveva preso a essere chiamata 'musica new age' - mise ulteriormente in discussione le nozioni assodate di cosa per molte persone fosse la musica progressiva. […] Sotto l’ombrello 'new age', la musica progressiva continuò i suoi obiettivi e le sue forme astratte (musica strumentale dai toni seri, pezzi lunghi), nonostante lo sviluppo delle fazioni più orientate al rock rimase in sospeso o condusse a vicoli ciechi.
(Bradley Smith, “The Billboard Guide To Progressive Music”, 1996)

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