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Progressive soul

A cavallo fra gli anni Sessanta e i Settanta, l’etichetta “progressive” era un po’ ovunque. C’erano il progressive rock (anche se in un senso un po’ differente dall’attuale), il progressive folk (da Tim Buckley ai Pentangle), il progressive jazz (d’altra parte l’aggettivo trovò in quell’ambito la sua prima diffusione musicale), il progressive blues, il progressive pop… E c’era il progressive soul. Con questa espressione si indicavano molti degli autori di black music più ricordati dell’epoca: Marvin Gaye, Curtis Mayfield, Isaac Hayes, Isley Brothers, Funkadelic, i primi Earth Wind & Fire e Kool And The Gang. Un articolo del tempo ne scriveva così:

C’è un importante mercato di giovani e sofisticati acquirenti neri che vanno al college o hanno poco meno di vent’anni […] Questo mercato desidera prodotti che abbiano l’elemento eccitante e funky delle band r&b tradizionali. Ma richiedono anche l’elevata qualità produttiva che è stata sviluppata per i dischi rock
(Nat Freedland, Billboard, 1974)

Un campo piuttosto largo, insomma, che andò restringendosi man mano che stili come la disco si facevano più definiti. Dopo il picco nella prima metà dei Seventies, “progressive soul” diventò un binomio poco citato, tant’è che oggi - almeno dalle nostre parti - se ne è pressoché persa la memoria. In tempi recenti, tuttavia, alcuni commentatori statunitensi hanno ripreso l’espressione, vedendola come un utile denominatore per connettere alcuni degli artisti più avventurosi del soul/r&b del passato e del presente. Oggi il filone ha una pagina Wikipedia dedicata e conta alcuni studi accademici dedicati. Con questa playlist, si tenterà di ritracciarne gli sviluppi.

Un altro "prog"?

 

6c03a8978a526a84ebb8a51e4784cb7bNel seguire questa storia, è essenziale premettere un’osservazione: “progressive soul” non è un calco di “progressive rock”, e l’etichetta non va intesa come trasposizione in ambito black dei tratti caratterizzanti del prog-rock sinfonico. Piuttosto, entrambe le espressioni sono declinazioni tardo-sessantiane dell’allora imperante idea di “progressive music”: una nozione piuttosto vaga e senz’altro assai modaiola, che identificava in generale quella parte della popular music che cercasse di superare gli schemi consolidati, ibridando gli stili, abbracciando nuove tecnologie, sfruttando il formato album per elaborare opere coerenti e spingendo i musicisti oltre al ruolo di “marionette dell’industria discografica” in cui precedentemente si erano visti relegati.
I primi artisti a essere descritti in modo ricorrente come “progressive soul” furono quelli della ventata autoriale e a suo modo sinfonica della prima metà degli anni Settanta: fra tutti gli esponenti, il più citato era senz’altro Curtis Mayfield. Accanto a lui, altri nomi frequentemente associati all’espressione erano Funkadelic e, soprattutto, War: formazioni allargate, con un orizzonte musicalmente aperto e - circostanza fondamentale - un taglio ineditamente rock (anche se, in interviste dell’epoca, proprio i War informavano di sentirsi “insultati” dall’accostamento alla rock music). Altro tratto ricorrente è la valenza politica e sociale della musica, “progressiva” (e, in qualche caso, anche piuttosto radicale) non solo nelle scelte compositive ma anche nel messaggio di emancipazione razziale che molto coscientemente veicolava.

Con il procedere degli anni, tuttavia, sempre più “progressive soul” fu inteso come sinonimo del funk strumentalmente raffinato di Earth Wind & Fire, The O’Jays, Ohio Players, Isley Brothers, meno connotato sul piano civile. È invece di qualche tempo successiva l’associazione, che si farà poi più prominente, con autori completi come Isaac Hayes, Marvin Gaye e Stevie Wonder. Quest’ultimo e la sua quadrupletta “Talking Book”/“Innervisions”/“Fulfillingness’ First Finale”/“Songs In The Key Of Life” sono oggi spesso indicati come principali simboli del filone, ma all’epoca la visione pareva essere diversa.
Retrospettivamente, si può notare quanto ampie fossero le sovrapposizioni col “soul psichedelico” di Sly & The Family Stone, dei Temptations o dei Rotary Connection. L’arrangiatore e membro dei Rotary Connection Charles Stepney è in effetti una figura imprescindibile per inquadrare le inclinazioni progressive della soul music a cavallo fra anni Sessanta e Settanta. Oltre ad aver dato forma alle rigogliose riletture sinfoniche di classici rock per cui i Rotary Connection sono ricordati, Stepney lanciò la carriera solistica di un altro membro della band, Minnie Riperton, e curò produzione, arrangiamenti e parti tastieristiche del memorabile “What Color Is Love” di Terry Callier, un album nel quale anche i più scettici non faticheranno a riscontrare elementi comuni con la progressive music comunemente intesa.
Per chi volesse indagare ulteriormente le connessioni più esplicite fra funk/soul e prog propriamente detto, la compilation include qualche riferimento più esoterico: i detroitiani Rare Earth (fra i pochi musicisti bianchi a firmare per Tamla/Motown), i rockettari Demon Fuzz e Mandrill, l’eclettico mix pomp-rock/proto-disco di Peter Brown, l’enfatico smooth soul di Billy Paul e Lamont Dozier.

Declino e ritorno in auge

 

d925dbd232414b6d9ec1e35e0e1617fcCon la seconda metà degli anni Settanta e il consolidamento della disco music, figlia in buona parte degli stessi artisti ma più coesa sul piano stilistico e più espressamente votata alle piste da ballo, l’espressione “progressive soul” lentamente scompare dall’uso. Torna ad affacciarsi sporadicamente nel corso degli anni Ottanta, soprattutto in riferimento a formule percepite come “arty” e ricercate sul piano compositivo: la maggior parte delle due menzioni riguarda due nomi, Prince (specie dalle parti del variopinto “Around The World In A Day”) e Sade.
Nel corso degli anni Novanta, l’avvento del neo-soul spinge i critici a rispolverare l’etichetta, sottolineandone le risonanze con l’approccio autoriale e musicalmente eclettico di artisti come D’Angelo, Erykah Badu, Maxwell, Lauryn Hill, Me’Shell NdegéOcello. Se i risvolti progressivi nella musica dell’ex-Fugees Hill possono apparire poco evidenti, lo stesso non può dirsi per le continue evoluzioni di NdegéOcello, i cui album coinvolgono maestri della fusion di ogni epoca come Jack DeJohnette, David Torn, Pat Metheny, Robert Glasper, Marcus Miller, Mino Cinelu, David Fiuczynski.
Il relativo revival prog-soul trova nel giornalista del Washington Post Geoffrey Himes il suo alfiere più convinto: cita l’espressione nel 1988 per disquisire del filone britannico capitanato da Sade (“U.S. Soul, Reborn In Britain”), nel 1994 la inserisce nel titolo della sua disamina di Seal e Des’ree (“Two Who Revive Progressive Soul”), e la riprende ancora nel 2001 in riferimento al debutto di Bilal (“Bilal ‘1st Born Second’”). La prospettiva di Himes contribuisce non posto a ridefinire il “canone” del filone, centrandolo sulle figure di Stevie Wonder, Marvin Gaye e Curtis Mayfield.

Varcata la soglia del millennio, la quantità di musiche che risultano ben descritte dall’etichetta aumenta considerevolmente. Tratti progressivi e rimandi ai classici del funk/soul settantiano, già vistose in alcune code acid jazz (si pensi ai Jamiroquai), diventano evidenti in svariati artisti broken beat (su tutti Mark De Clive-Lowe) e nu jazz. Lo stesso può dirsi per la fusion ipercinetica di Esperanza Spalding o di tanti musicisti accasati presso Brainfeeder (da Thundercat agli Hiatus Kaiyote), il cui suono wonky deve tanto alle intuizioni ritmiche di D’Angelo quanto alla passione per i beat unquantized di J Dilla e del patron dell’etichetta, Flying Lotus.
Anche Geoffrey Himes è tornato nel 2013 a esprimersi sulle evoluzioni post-2000 (con l’articolo “The Curmudgeon: Black Bohemian Music from Sly to Prince to Janelle Monáe”, uscito su Paste). In questa occasione, il giornalista ha tracciato un filo che da Jimi Hendrix, Sly Stone e Sun Ra passa per Prince, Tracy Chapman e i Roots e con Janelle Monáe giunge infine ai giorni nostri. Il rischio di creare raggruppamenti spuri è forte, e forse anche Himes lo intuisce, proponendo dunque di passare da “progressive soul” alla più ampia espressione “black bohemian music”, volta a sottolineare la forte vocazione espressiva dei suoni che catalogherebbe. Sono numerosi, in ogni caso, gli osservatori che individuano nell’inventiva formula retrofuturistica di “The ArchAndroid” una stretta affinità progressiva.

Nuove prospettive

 

ef19b3db5468bc66f7af8a3dbceb6e6c_01In tempi ancor più recenti, uno studio condotto dal musicologo Jay Keister ha contribuito a un’ulteriore ridiscussione dei termini della questione. “Black Prog: Soul, Funk, Intellect and the Progressive Side of Black Music of the 1970s”, uscito nel 2021 sull’American Music Research Center Journal dell’università di Boulder, in Colorado, sottolinea come negli anni Settanta il termine “progressive” non designasse esclusivamente il prog-rock “bianco” di matrice britannica, ma includesse con pari titoli anche musiche dalla forte identità afro-americana. Oltre a Marvin Gaye, Stevie Wonder, Jimi Hendrix e Arthur Lee, Keister cita anche Miles Davis, George Clinton e Sun Ra. I complessi universi musicali di questi ultimi due artisti, accomunati dall’influente prospettiva afro-futuristica, sono al centro dell’articolo, che sulla base dei case study esaminati enuclea alcune caratteristiche chiave del “progressive nero”.
Fra questi, il primo è la rivendicazione dell’individualità artistica del musicista. Nel “black prog”, questa non è solo svincolata dai desideri dei discografici, ma anche dall’estetica del “Black Arts Movement” anni Sessanta, i cui intellettuali erano esplicitamente ostili all’idea di un'“arte per l’arte” che non fosse espressione diretta della comunità e delle sue battaglie sociali. La vocazione attivistica che caratterizzò una parte del prog-soul degli esordi non sarebbe insomma un elemento essenziale della black music progressiva. Un altro tratto distintivo è poi per Keister il superamento della forma-canzone attraverso strutture estese; a differenza che nel prog-rock sinfonico, tuttavia, questa espansione non è ottenuta segmentando il brano in sezioni parzialmente scorrelate sul piano ritmico, melodico e armonico. Al contrario, la musica tende a presentare un groove incessante, sul quale si innestano evoluzioni e reiterazioni strumentali marcate dall’alternanza fra timbri, texture e gradazioni di intensità. Infine, l’ampio ricorso all’ibridazione stilistica e la costruzione di immaginari articolati sono aspetti in comune con il progressive rock comunemente inteso, che però trovano negli artisti “black prog” una loro specifica declinazione (legata al jazz, alla psichedelia e all’estetica afro-futurista nei due casi oggetto d’indagine).
Sebbene l’attenzione di Keister sia concentrata sugli anni Settanta e gli artisti trattati non siano rappresentativi dell’intero spettro “progressive soul”, le sue analisi si riportano in modo efficace su una buona parte degli altri artisti della compilation.

 

Etichetta dalle alterne fortune, il “progressive soul” è più che un genere una chiave di lettura trasversale, utile a svelare connessioni fra artisti apparentemente distanti e fornire stimoli agli ascoltatori. Può anche essere vista una tessera aggiuntiva nel mosaico prog, un contributo per riconsiderare le accuse di “sciovinismo bianco” che nei decenni sono state pretestuosamente addossate alla musica progressiva. Quale che sia il modo in cui le si approccia, le quaranta tracce della playlist offrono uno spaccato ricco e cangiante di cinquant’anni e passa di black music. Se nell’immediato futuro l’espressione sarà destinata a un’ulteriore diffusione o a una nuova fase di oblio, sarà poi il tempo a mostrarlo.

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