Comets On Fire

Comets On Fire

Spiritualismo iconoclasta

Quintetto proveniente da Santa Cruz (California), i Comets On Fire sconvolgono i tradizionali fondamenti rock per far loro assumere le sembianze di rituali sciamanici. Il loro originale repertorio spazia dall'hard-rock alla psichedelia

di Michele Saran

I Comets On Fire sono un quintetto proveniente da Santa Cruz (California), uno degli ultimi capisaldi del movimento hippie, nonché fucina della prima scena psichedelia americana. Già questo può dirla lunga sulla band.
I due fondatori del gruppo sono Ethan Miller (poi chitarra e voce) e Ben Flashman (basso), due compagni di college (quello stesso college che ha visto l'incontro e l'unione dei Camper Van Beethoven, ndr) che decidono di fondare un gruppo hard-rock. L'urgenza di mettere nero su bianco la loro voglia di vocalizzi e cori sguaiati, di riff duri e puri e di distorsioni acide a tutto volume li porta a contattare altri due ragazzi: Noel Harmonson (tastiere ed Echoplex, un dispositivo in grado di fornire effetti analogici di eco e delay), e Utrillo Kushner (batteria). Così, alla fine del 1999, la preparazione del combo può dirsi completata.

I quattro pubblicano nel 2000 il primo Lp omonimo, Comets On Fire, disponibile solamente in formato vinile e in tiratura limitata. Il disco è una delle rivelazioni dell'underground americano tutto, e insieme uno dei migliori debutti dell'anno. Come coniugare acid-rock con rumori laidi e barocchi ("One Foot"), blues martellanti e riff hard orrendamente storpiati ("Got a Feel In"), viraggi punk a rockabilly da Cramps sotto adrenalina ("The Way Down")? I Comets on Fire sanno come si fa. Tramite quest'opera, la band propone una destrutturazione basata sulle abrasioni di brada rabbia, su capitolazioni apocalittiche basate sulle efferatezze sperimentali di un Sun Ra, più che di un Jeff Beck. Sketch acustici funestati da urli e gemiti animaleschi, canzoni che amalgamano furiosamente l'hard-blues con il psych-noise di ultima generazione, galoppate-pallottola che annullano la cognizione per farsi flusso indistinto di magma incandescente. E' un disco che punta sulla brevità immediata, pur non rinunciando a sfregi profondi e alle scalfiture inquietanti ai danni delle tradizionali icone del tempio dell'hard-rock più cupo. Eccezionale parte di batteria di Kushner. Inizialmente in edizione limitatissima in vinile ma poi ristampata dalla Alternative Tentacles.
Le loro spericolate cavalcate a perdifiato, attraverso MC5, Hawkwind, Blue Cheer e psichedelia, si mischiano a effetti elettronici tra il dirompente e il dissacrante, e che gli conferiscono lo status dei migliori dischi di noise-rock del passato.

Il successo è bissato dal successivo Field Recordings From The Sun (su Ba Da Bing; 2002), un ulteriore balzo in avanti nelle sperimentazioni rumoristiche, che riesce a sfiorare i vertici delle band free-form fondendo free-jazz, spirito hardcore e inserzioni industrial.
Si inizia con una intro affidata a tintinnii e sbatacchiamenti di campanacci, e si termina con assordanti baccanali noise che chiudono il disco nella maniera meno rassicurante possibile. In mezzo vengono riff feroci, che quasi arrivano a mischiarsi con la sezione ritmica, improvvisazioni libere e aperte, free-noise di indemoniati. Se nell'opera prima erano presenti abrasioni mortali, qui c'è un virus iniettato nelle più profonde fibre dell'hardcore, e la contrapposizione tra puntate virtuosistiche ed effetti sconquassanti è diventata brutale e caotica compenetrazione: le jam diventano più che altro orge industriali, mentre la scatenata batteria detona colpi sempre più efferati. C'è una piece call-and-response percossa da lampi di chitarra, garage-rock afflitti da maniacalità congenita ("Return to Heaven"), variazioni istupidite da tango per chitarre svampite; ci sono gli Steppenwolf sull'orlo del collasso, contrasti drammatici tra riff, contorni noise e canto deformato ("ESP"), terribili vergate di chitarra con diaboliche inserzioni di piano ("The Black Poodle"). Uno dei dischi del nuovo millennio che non si può far finta di non vedere. Come per la precedente, anche quest'opera è affollata da effetti vibrati che inducono a malessere supremo, e in più la band introduce la variazione come strumento al servizio di sonorità sconcertanti, sinistre, pregne di violenza fredda. I cinque brani che compongono l'opera sono lunghe carrellate che servono a mostrare gli sviluppi inconsci del genere stilistico, e insieme il suo carico di catartica salvazione. Presente per la prima volta Ben Chasny alla chitarra.

Dopo queste due convincenti prove in studio, la band si dedica a tempo pieno ai live set. E i risultati non sono da meno, tanto che - nel 2003 - i Comets on Fire decidono di utilizzare a tempo pieno un secondo chitarrista, quale Ben Chasny (proveniente dai Six Organs of Admittance), già prezioso collaboratore alla realizzazione di Field Recordings e di pubblicare il loro primo album dal vivo, a nome Bong Voyage (Ba Da Bing, 2003).
Collage di performance live, pur non dimostrandolo ampiamente (sia per la qualità di incisione che per la produzione eccessivamente scheletrica), questo disco documenta come i Comets on Fire dal vivo siano una band anche più impressionante di quella udita nei due album di studio. Le improvvisazioni collettive di free-hard-noise trovano qui il loro apogeo, anche se non così profonde e meditate come nelle due opere precedenti, mentre il clima si fa quello di una garage-band perfettamente a suo agio con pubblico e palcoscenico. Tiratura limitata a 800 copie dalla Ba Da Bing.

Nel 2004 la band passa alla Subpop, e il risultato di questo sodalizio è il loro ultimo long-playing, Blue Cathedral. Si tratta di un album che associa episodi melodici, da teatrino zappiano, alle ormai consuete cavalcate space-hard, o a puntate progressive o acustiche maggiormente allineate a un revivalismo che lo rende più vario e fruibile, ma non meno ironico e tagliente.
Significativamente ripartito in due brani ampi e complessi in apertura ("The Bee and the Cracking Egg", "Whiskey River"), intervallati da due interludi strumentali più leggeri ("Pussy Footin' the Duke", "Organs"), tre brani medi più o meni tipici ("The Antlers and the Midnight Sun", "Brotherhood of the Harvest", "Wild Whiskey"), e una lunga divagazione finale ("Blue Tomb"), Blue Cathedral è un album maggiormente vario. Importa comedy, puntate progressive, gag da parodia zappiana, sbandate Floyd-iane e King Crimson-esche e le loro ormai consuete inserzioni folk. Le devastazioni cacofoniche e indefinite sono volutamente messe in secondo piano, per far posto a una gerarchia sonora più solida e meno torbida, che privilegia le parti di canto (mai così watersiano) e di chitarra distorta, aggrovigliata e contorta come nel recitativo strumentale da Hawkwind lisergici che apre "Blue Tomb", o come negli intarsi memori del loro rumorismo più sconcertante di "The Antlers and the Midnight Sun". A parte un certo schematismo ideologico e musicale di fondo, si tratta di uno spiritualismo già dato per assodato e in cui si rispecchia la fantasia reazionaria dei primi anni 70, quando non addirittura quella della gaiezza e del brioso umorismo psichedelico.

I Comets on Fire partono dall'hard-rock. O meglio, partono da tutti quei generi precedenti e successivi all'hard-rock: si può dire che l'hard-rock sia sfiorato senza mai essere pienamente abbracciato. Basti vedere le loro influenze maggiori, quali MC5, Blue Cheer, Stooges, per capire che la volontà principale della band è quella di volgere lo sguardo alle realtà degli anni d'oro, quelle forse più sincere e innovative di ogni tempo.
Ma non basta. A questa volontà "pre", ne è associata una del tutto "post", e anzi si può dire che il fascino della band stia tutto in questa associazione. La potenza dello stoner, l'atonalismo noise e l'eccentricità della cosiddetta neo-psichedelia convivono in uno stuolo di grovigli chitarristici indiavolati e corpi sonori che si contorcono in raccapriccianti distorsioni. Questo insieme già ampiamente informe di sconvolgimenti acustici in rapida successione è ulteriormente sconnesso da sommovimenti industrial e quasi free jazz. Lo spirito hardcore della band è così smaterializzato e sfaldato da elementi di contrasto, ma che - accostati con fare quasi dadaista -, diventano parte integrante del loro programma iconoclasta di dissoluzione dei tradizionali "segni" rock.
Anzi, si può dire che quello dei Comets on Fire sia una sorta di "spiritualismo iconoclasta", cioè una volontà di massacrare, dissezionare e decostruire i tradizionali fondamenti rock per sconvolgerli e far loro assumere le sembianze di scorribande sciamaniche dal piglio di catartico rituale. Le sterminate parabole space-rock (Hawkwind) si arricchiscono così di nuovi spunti stilistici che vanno dalla psichedelia al free-jazz di Cecyl Taylor, dal noise (Big Black, Chrome) alla musica industriale più metafisica. Sono puntate musicali forti che, se prima non si parlavano che timidamente, ora trovano decisa e quasi forzosa unione metamorfica. E' un ritorno allo stile archetipico della prima scena detroitiana (MC5, Stooges): come già allora si tentava di modellare il nascente punk tramite le più svariate influenze, così i Comets on Fire riprendono quel discorso arricchendolo e aggiornandolo alla generazione post-noise.

Il procedimento della band è quello di inscenare - attraverso danze rituali scalmanate e interminabili - maciullamenti di strutture apparentemente lineari tramite sciami sismici, sabba infernali di ventricoli noise, maelstrom apocalittici di esplosioni chitarristiche. Tutto questo, dapprima roccioso, diventa man mano metafisico e informe; la ripetizione estenuante degli sfaldamenti del tradizionale 4/4 produce profondo stordimento nell'ascoltatore.
I riff sono arroventati, scardinati, sommersi da valanghe di feedback, distorsioni e effetti sonori sconquassanti, vibrati chitarristici che disperdono linea ritmica, melodia, armonia, struttura e svolgimento canonici. Non è più dato ascoltare accompagnamento sincronico, ma solamente perenni e instancabili punti di rottura, che forzano l'attenzione sullo smembramento delle strutture lineari. Si approda così a masse sonore ostinate e distruttive: ma è una distruzione fredda e distaccata, è nichilismo che vuole approdare alla salvezza spirituale con ogni mezzo, anche con quello più estremo. L'improvvisazione e la variazione dei lati oscuri degli elementi canonici del più stereotipico delle filiazioni del rock serve a piegarlo a esigenze sacrificali, a produrre arcane celebrazioni di misteriose icone sonore che elidono qualunque ortodossia semiotica.

E' sbagliato classificare la musica dei Comets on Fire come anacronistica o, peggio, come revivalistica. Per prima cosa, ogni componente dei loro brani (canto distorto, chitarra lasciva e sfuggente, batteria irrefrenabile a dirigere i terremoti collettivi) è vista come potente processo di astrazione che ingloba molteplici influssi creativi. C'è un'affinità con le opere maggiori di Red Crayola e Royal Trux, da questo punto di vista. E', come in quei casi, un ritornare alle origini primigenie che è - contemporaneamente - una gelida negazione attraverso la dissoluzione irriverente, e un rovesciamento dei principali insegnamenti rock. C'è pure un debito con certo kraut-rock (Faust su tutti), attraverso l'esposizione di rumori come sovrapposizione artefatta e fittizia, a mostrare la vacuità del dato artistico preso in sé, e la necessità di calarlo nel dato naturale da cui inevitabilmente proviene.

Infine, le immersioni nella musica industriale corrispondono alla volontà di mimare i movimenti convulsi delle sovrastrutture della modernità, e riempirli di stordimento supremo non più fisico, ma cerebrale e spirituale. E' l'annullamento definitivo dell'uomo (post)moderno, una sorta di sentenza insensibile a modificazioni che scontorna anche l'ultima parvenza di umanità rimastagli. E' forse questo il significato delle inserzioni di folk-noise per chitarra acustica e modulazioni electro - un'altra delle loro influenze, in perfetto coordinamento con il loro personale "retro-nuevo" - di sapore Led Zeppelin-iano, come metafora-rievocazione dei sentimenti umani atrocemente cancellati e della scoperta di un mondo fatto di depravazione e malvagità.
Non c'è nulla del revivalismo garage-rock sempliciotto e modaiolo di Strokes, Libertines e Vines: quello dei Comets on Fire è un vero e proprio faustiano patto col diavolo per ottenere una parvenza di redenzione. La musica dei Comets on Fire è semplicemente "altro". E' un'illusione sonora data dalla volontà di flusso, di artefatto, di costruito. I brani sono in realtà giungle caotiche di suono che vivono solamente di sfregi dissacranti, dei quali viene peraltro continuamente spostato il punto di vista: ora martellamenti di batteria industriale, ora fulminee puntate free-jazz, ora terrificanti modulazioni lo-fi.

Residual Echoes (Big Drum, 2004; Holy Mountain, 2005) è il progetto di Adam Payne, compagno di viaggio dei Comets On Fire fin dai tempi della loro formazione. Le atmosfere presenti nell'album riportano alle allucinazioni catartiche e alle lunghe devastazioni free-form del secondo disco dei Comets On Fire, sebbene in modo vagamente più tradizionale, e più arcaicamente spacey.
I due brani iniziali sono gemme di montaggio sonoro, iperdistorsioni al calor bianco, found sound e colossali jam rumoristiche. "Slant", il primo dei due, procede dal marasma di pulsazioni electro, fino a sprofondare via via in regioni ad altissima instabilità armonica. "Diamond Drops" attacca con un concertino di chitarre acustiche scordate e dissonanti, ma è il feedback sardonico a essere il centro della scena, assieme a un imponente crescendo di colate laviche in sormonto continuo. "A Stardt 3 And 3 And A Half" è un nuovo affresco para-Zappiano, forte di un riff di chitarra borbottante, mentre conati free-kraut creano una sorta di scampolo di jamming acido, a scoprire nuovi scenari apocalittici.
Con la supervisione di Ethan Miller e Ben Chasny, recuperati anche per i live show, Adam Payne ("guitars, hollering, shitty bass, drum lessons, reeds, Korg MS 2000, fuzz, auto-harmonium, computer din and migraine"), ha composto, suonato e registrato una torbida compilation di devastazioni e di transizioni, di sviluppi inattesi, che parte dall'acid e dallo space e si arricchisce via via di eccessi sonori e di sagacia terrifica. Tolto l'anacronismo di torno, ma non è facile, rimane l'esorbitanza di un solido compositore in erba. Disco di Gennaio 2005 per "Head Heritage/Unsung", la webzine di Julian Cope.

L'irrilevante Collaboration LP (Yik Yak, 2005) è un mini-cd contenente due jam improvvisate in studio con i Burning Star Core.

Se i progetti paralleli hanno dunque accontentato ancora una volta il lato hardcore della questione space-rock impostata dai Comets On Fire (lo split con i Burning Star Core, gli spasmi di Residual Echoes, i Lowdown), da un punto di vista non meno significativo è possibile rilevare la volontà di spostamento verso le direttrici dell'intrattenimento. L'ormai consolidata avventura solista avant-folk di Ben Chasny (Six Organs Of Admittance), e l'imminente progetto di Ethan Miller (gli Howlin Rain), sono strumenti in grado di dare spessore organico e musicale alle rivendicazioni stilistiche dei musicisti orbitanti attorno al complesso principale. Non stupisce, dunque, che il nuovo album dei Comets On Fire, Avatar (Sub Pop, 2006), sia un album che non esclude nulla, in termini di trovate soniche. "Jaybird", ad esempio, è la naturale evoluzione delle loro inserzioni folk del passato (intrigante riff basso-batteria, mentre "The Swallow's Eye" si occupa di ringalluzzire l'elemnto elettronico verso nuove autonome stilistico-creative, direttamente dipendenti da sbalzi emotivi del tutti strumentale. "Sour Smoke" richiama Faces e Zombies nei suo accordi solenni di piano elettrico, "Holy Teeth" è riff power-garage degno dei Seeds, e "Dogwood Rust" rende addirittura omaggio alle modulate contorsioni dei coevi Mars Volta. Rimangono nuove conferme della sottigliezza ironica assaporata tramite il precedente "Blue Cathedral", nei teatrini vaudeville di "Lucifer's Memory" e nella chiusa di nuovo Floyd-iana di "Hatched Upon The Age", ma l'estetica della band sembra ormai leggibile sia in prospettiva globale (completezza stilistica, competenza) che in quella spicciola (espressività melodica, buon godimento), al punto da poter quasi soprassedere agli incubi distorti del "Field Recordings".

Comets On Fire

Discografia

COMETS ON FIRE

Comets On Fire (2000)

7

Field Recordings From The Sun (Ba Da Bing, 2002)

7,5

Bong Voyage (Bad Glue, 2003)

6

Blue Cathedral (Sub Pop, 2004)

7

Collaboration Lp (Yik Yak, 2005)

4,5

Avatar (Sub Pop, 2006)

6,5


RESIDUAL ECHOES

Residual Echoes (Holy Mountain, 2004/2005)

7

Pietra miliare
Consigliato da OR

Comets On Fire su OndaRock

Comets On Fire sul web

Sito ufficiale