Una musa dark sui generis, con quello spleen teutonicamente decadente e l’irresistibile fascino della chanteuse da cabaret. Un immaginario tutto seta e piume di struzzo, poesie maledette e sensualità di velluto, istantanee color seppia e frammenti di vecchie pellicole noir. Le nevrosi della Germania iper-tecnologica di oggi che si saldano ai languori da night-club della Mitteleuropa perduta, con un filo elettrico d’inquietudine a serpeggiare sempre nel vortice impetuoso dei versi. Tutto questo, e anche di più, offre il repertorio di Andrea Schroeder, poetessa, oltre che cantautrice e musicista. Il suo canzoniere ha raccolto l’eredità di numi quali Leonard Cohen, Nico e Nick Cave, filtrata attraverso le sue fascinazioni per le atmosfere da film noir e per le tinte teatrali del cabaret brechtiano e del glamour anni Trenta alla Marlene Dietrich. Nelle sue composizioni, tanto scabre quanto elegiache, a dominare è la sua voce ammaliante, da aristocratica femme fatale, che regola l’intensità dei suoi sermoni notturni, sempre in bilico tra soffuse litanie acustiche e vibranti torsioni elettriche, in una sorta di altalena onirica tra letargia spettrale e bruschi climax emotivi. Un repertorio che nel corso della carriera si è fatto sempre più maturo e versatile, anche grazie ad alcune fortunate collaborazioni, come quella del 2018 con gli svedesi Sällskapet.
I fantasmi di BerlinoNata e cresciuta nella Vestfalia orientale, Andrea Schroeder si forma come graphic designer dopo essersi diplomata al liceo. Quindi, inizia a lavorare come modella. Parallelamente, avvia l’attività di cantante, seguendo dapprima un corso di canto classico, quindi dedicandosi al gospel. “Mi piacevano molto Cecilia Bartoli e Maria Callas mentre Donizetti era il mio compositore preferito – ha raccontato a OndaRock – mentre per quanto riguarda il rock apprezzavo soprattutto Nick Cave, Lou Reed, Bob Dylan e Leonard Cohen, artisti in cui i testi sono una parte determinante della loro opera. Ho avvertito una forte esigenza di liberare completamente la mia voce e, per questo motivo, sono passata a cantare musica gospel imparando a usare la mia voce in tutta la sua espressività e in tutta la sua potenza”.
Comincia anche a scrivere le sue canzoni. Nel 2007 ne pubblica alcune sulla sua pagina MySpace, costruendo già una piccola community di fan. All’inizio predilige ambientazioni folk da camera, poi – sulle orme della musa Nico - inizia a suonare l’harmonium e si orienta verso atmosfere più cupe e melanconiche. Ma dovranno passare cinque anni prima del suo album d’esordio.
Nel frattempo, Andrea si trasferisce per alcuni anni a Copenaghen - dove conosce il chitarrista e compositore danese Jesper Lehmkuhl, che si rivelerà fondamentale per la sua evoluzione artistica - finché nel 2011 non si stabilisce definitivamente a Berlino, la città-simbolo della Guerra Fredda che diverrà non solo la sede ma anche l’ispirazione principale delle sue opere.
Poesie in bianco e neroPubblicato dalla etichetta indipendente tedesca Glitterhouse e prodotto da Chris Eckman (Walkabouts), Blackbird (2012) viene alla luce proprio nel quartiere Wedding di Berlino, un vecchio distretto operaio. Andrea scrive le liriche, mentre Lehmkuhl, con la sua chitarra, compone splendide melodie fatte di pochi accordi. Il risultato è un disco che sprigiona un’energia a cui è difficile resistere, tanto che sembra quasi di rivivere i fasti del duo Patti Smith/Lenny Kaye. “Bebop Blues” e “Blackberry Wine” rappresentano proprio i richiami più vicini alla sacerdotessa del rock e sono anche i momenti più elettrici dell’album, nei quali la voce cupa e struggente di Andrea si erge sopra un tessuto sonoro composto da chitarre graffianti e dalle pulsazioni del basso. Spesso, invece, la tensione resta rappresa, sottopelle, ma pronta a esplodere in crescendo impetuosi, come nella notturna “Dark Nightingales”.
Bastano pochi orpelli: una chitarra in filigrana, una batteria spazzolata per infondere pathos e solennità a una voce capace di emanare tristezza e dolcezza al tempo stesso. Ascoltare per credere una ballata irresistibilmente melanconica come “Winter Days”.
La produzione di Eckman colpisce per equilibrio e raffinatezza, riuscendo a valorizzare al meglio, da una parte, gli arrangiamenti minimali e, dall’altra, la potenza e l’intensità della voce della Schroeder. L’inserimento degli archi contribuisce invece a donare al disco un’atmosfera ancora più avvolgente e melanconica, vicina agli episodi più noir di Nick Cave e Leonard Cohen.
Litanie in bianco e nero come “Paint It Blue” (con una melodia e un crescendo d’archi da spezzare il cuore), “Wrap Me In Your Arms” e “Blackbird” sembrano uscite da “Before The Poison” di Marianne Faithfull (i cui brani erano stati composti, guarda caso, da PJ Harvey e da Nick Cave), mentre “Death Is Waiting” è una dolente ballata country-folk dominata dalla durezza dei versi, cupi e apocalittici, che si susseguono come in una sorta di cantilena noir, dall’inizio alla fine dell’intero brano (“Death is waiting, round the corner, death is waiting just for me, death is waiting, round the corner, and it comes to set me free”).
Chiude la solennità di “Kälte”, quasi un omaggio a Nico, la dark lady per eccellenza: un brano cantato in lingua tedesca per sola voce e harmonium, chiuso dall’incedere di un rullante che suona a ritmo di bolero.
Innervato di elettricità, teso e sinistro, il folk-noir di Blackbird getta le basi della carriera musicale della poetessa tedesca, qui ancora molto legata alle sue fascinazioni liriche ed elegiache, ma con già la piena consapevolezza delle sue potenzialità da chanteuse notturna e fatale.
Dentro l’oceano selvaggioDue anni dopo esce Where The Wild Oceans End (2014), ed è un nuovo tuffo nel passato. Un passato sospeso tra l’atmosfera retrò della Berlino anni Trenta e quella decadente e sfocata degli anni Settanta. Registrato presso i gloriosi Hansa Studios dove capolavori come “Low” e “Heroes” di Bowie hanno visto la luce, l’album vede ancora Jesper Lehmkuhl in veste di co-autore dei brani (assieme alla stessa Schroeder) e Chris Eckman in cabina di regia. E proprio l’effetto sinergico tra questi tre artisti è la carta vincente dell’opera seconda della poetessa tedesca. Un lavoro più compatto e continuo, che riflette anche l’energia e la grande coesione della band. Rispetto al disco precedente, gestito interamente dal duo Lehmkuhl/Schroeder, ogni musicista è stato coinvolto maggiormente alla composizione dei brani dando giovamento al sound finale del disco, un oceano selvaggio di devastante bellezza e poesia decadente.
Mentre le tematiche del debutto erano più intime e, per certi aspetti, più romantiche, Where The Wild Oceans End è un disco apertamente influenzato dalla magica atmosfera berlinese: “Berlino, ammette la stessa Schroeder, è una città in continuo mutamento dove la storia, le rovine, i ricordi si interfacciano con la modernità. Una città vera, reale dove la gente ti parla sinceramente senza bisogno di nascondersi dietro una maschera”.
Ancora una volta colpisce la qualità compositiva di tutti i brani in scaletta. Un fatto quasi in controtendenza con le attuali logiche di mercato, sempre più incentrate sulla vendita di un singolo brano o sulla sua fruizione in streaming. Where The Wild Oceans End è un’opera d’arte proprio come lo è una scultura. Un disco alla vecchia maniera, registrato con macchine esclusivamente analogiche. Il risultato è un viaggio in atmosfere melanconiche che hanno lo stesso pathos di quelle evocate da artisti come Nick Cave, Leonard Cohen, Patti Smith e Nico.
La voce profonda e carismatica di Andrea domina la scena, rivestendo di sublime lirismo dark un tessuto sonoro a base di arpeggi ipnotici, distorsioni elettriche e arcate di violino che sono lì ad avvolgerci brano dopo brano. Spettrale e implacabile, la traccia d’apertura “Dead Man’s Eyes” inchioda l’ascoltatore con i suoi arpeggi ficcanti e il canto altero e sinistro della Schroeder. Quasi un instant classic da neocabaret del Duemila. La tensione sottile dark che pervade l’intero disco si condensa nel crescendo elettrificato della tenebrosa (e splendida) title track, nella liturgia blues angosciosa di “The Spider” e nella sfuriata rock dirompente di “Rattlesnake”.
Ma funzionano a meraviglia anche episodi più morbidi, come la malinconica “Ghosts Of Berlin” che, volando leggiadra sulle ali di un violino, trasforma in fantasmi gli angeli sopra Berlino di Wim Wenders, oppure l’altra ballata funerea di “Until The End”, con il canto singhiozzante della Schroeder che pare trasportare lo storico mantra quasi omonimo dei Doors in un fatiscente night-club della Repubblica di Weimar o in una vecchia cattedrale mitteleuropea sconsacrata.
Tra le dieci canzoni in scaletta, merita una particolare menzione “Helden”, affascinante rilettura in lingua tedesca dell’epocale “Heroes” di David Bowie: il difficile esame è superato a pieni voti e la versione che ne scaturisce è così profonda e potente da sembrare, alla fine, una composizione della stessa Schroeder.
Where The Wild Oceans End conquista più di un’attenzione nelle scelte della critica dell’anno 2014 (a partire dalla nostra webzine) e consacra la Schroeder come un’artista di primo piano nel panorama rock internazionale. Anche la stampa tedesca inizia finalmente a coccolare la sua nuova musa, scomodandosi in ingombranti paragoni con artiste come Nico, Patti Smith e Marlene Dietrich. Ma la realtà è che Andrea Schroeder non ha bisogno di raffronti per affermare la sua arte, tanto questa è personale, riconoscibile e ormai pienamente sbocciata. Un trademark estetico che si riflette anche nella sua gestione di grafica, artwork e poster dei tour.
I consensi ottenuti con l’opera seconda consentono all’artista tedesca di intraprendere un tour europeo e di partecipare a “The Jeffrey Lee Pierce Session Project Axels and Sockets” (2014), tribute-album per Jeffrey Lee Pierce dei Gun Club, assieme a nomi prestigiosi del calibro di Iggy Pop, Nick Cave, Debbie Harry e Mark Lanegan.
Un vuoto metallicoDue anni dopo, sempre su Glitterhouse, esce il terzo album Void (2016), registrato tra Berlino e Stoccolma e composto da undici tracce. Le musiche sono ancora firmate dal duo Schroeder/Lehmkuhl. La cantante tedesca, invece, è l'autrice di quasi tutte le liriche del disco, ad eccezione di due poesie: "Was Poe Afraid" di Charles Plymell e "Black Sky", ad opera del poeta underground Rob Plath che, in questo caso, si tramutano in due meravigliose ballate melanconiche dalle sfumature noir alla Nick Cave. A dar man forte al progetto, anche un paio di guest star: Kristoph Hahn (Swans) e Pelle Ossler (Thåström; Sällskapet).
"Pray to the God, pray to the Devil, whatever you share, it all goes down, in the void". Con queste parole, declamate al ritmo incalzante e selvaggio dei tamburi, quasi fosse una danza nelle tenebre, si apre la title track. E già dalle prime note del disco ci rendiamo subito conto che l'atmosfera si è fatta più oscura rispetto ai due lavori precedenti, grazie anche alla produzione affidata a Ulf Ivarsson e Victor Van Vugt (Nick Cave, PJ Harvey) che hanno indirizzato la sonorità su un sentiero più selvaggio. Pochissime le concessioni acustiche e il suono è, nel complesso, più duro ed estraniante.
A giovarne è proprio la flessibilità della voce della Schroeder, potente e raffinata allo stesso tempo, che dimostra di aver raggiunto una grande consapevolezza dei propri mezzi espressivi, con le sue tonalità profonde e la sua compostezza algida da dama aristocratica. Se ne facciano una ragione i nostalgici della "Factory Epoque", ma in tutta franchezza, nel 2016, l'accostamento con Nico non vale più. Basti ascoltare brani come "My Skin Is Like A Fire" e "Kingdom", in cui la voce della poetessa tedesca sembra quella di una sacerdotessa gotica che, tenendo una fiaccola in mano, ci conduce inesorabilmente verso gli abissi della disperazione mentre canta "Deep inside there is sadness, there is wilderness and pain, when the sweet river flows my skin is like a fire", quasi come fosse una sorta di mantra catartico. La sezione strumentale fa da contrappunto a questa grande potenza emotiva.
Nella marziale "Burden" – con il chitarrista degli Swans Kristof Hahn in qualità di ospite d'eccezione - le atmosfere si fanno ancor più fredde e il suono più industrial, con risultati assolutamente spettacolari. La ritmica solida e martellante, ad opera di Maurizio Vitale alla batteria e di Dave Allen al basso, le dissonanze distorte e graffianti della chitarra di Jesper Lehmkuhl, le vibrazioni dell'hammond di Mike Strauss sono come il motore di una locomotiva che viaggia, brano dopo brano, verso il cuore delle tenebre.
Il disco ci coinvolge e procede dritto. Poche le concessioni a momenti intimi e riflessivi, come nel caso di "Little Girl", una melanconica ballata sussurrata con teutonico sussiego nella quiete della notte che, attraverso il racconto delle tristi vicende di una rifugiata, vuole denunciare il dramma dei profughi in fuga dalla guerra. Quando sembra non esserci più speranza, ci pensa il violino di un angelo dal nome di Catherine Graindorge a riportarci verso orizzonti finalmente più sereni e sognanti con la bellissima ultima traccia del disco, la tenerissima "Endless Sea".
"Creatures" ricorda alcuni episodi della Marianne Faithfull più noir (ovvero quella di "Before The Poison") e "Don't Wake Me" è, forse, l'unica concessione alle atmosfere più morbide dell’album precedente, ma si tratta di un episodio isolato.
Asciutto e fiammeggiante, Void non fa che confermare Andrea Schroeder come una tra le più grandi interpreti in circolazione: un disco dalle tinte decadenti come quelle di un autunno bramoso di tramutarsi in inverno.
Un anno dopo, la Schroeder partecipa alla raccolta delle "Intoxicated Women" di Mick Harvey, sfornando tre performance strepitose, nella conturbante "Striptease", nella versione teutonica della celeberrima ode sensuale "Je t'aime... moi non plus" di Serge Gainsbourg ("Ich Liebe Dich... Ich Dich Auch Nicht") e in quella "God Smokes Havanas (Dieu Est un Fumeur de Havanes)" composta dal Bad Seed proprio in compagnia del cantautore francese.
Sacerdotessa industrialAd accrescere il contributo offerto da Andrea Schroeder alla musica del nuovo millennio, arriva nel 2018 la collaborazione con la rock band svedese Sällskapet. Il risultato, Disparition, è uno dei migliori prodotti di musica ambient/industrial uscito in questi ultimi anni. Ai clangori metallici del trio svedese - composto da Pelle Ossler, Niklas Hellberg e Joakim Thastrom - si salda quindi la voce calda e penetrante della poetessa tedesca, perfetto contrappunto al sound industrial della band. Sembra quasi di ritrovarsi nelle gloriose atmosfere retrò di molta musica prodotta tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta. I riferimenti musicali sono molteplici: si parte dalle sonorità kraut-rock (Kraftwerk e Neu! in primis), fino ad arrivare alla trilogia del Bowie berlinese; dal post-punk degli Einstürzende Neubauten e degli Swans fino ad approdare al beat martellante e gelido di certa musica new wave/elettronica di inizi anni 80 (Human League, New Order, Depeche Mode). Non a caso, il disco è stato mixato da Michael Ilbert agli Hansa Studio di Berlino e il suono non può che trarne beneficio. Tutto è molto ben calibrato, i musicisti sembrano suonare assieme da sempre e il risultato finale è davvero sorprendente.
Le immagini scaturite da tutta questa miscela di suggestioni sono decadenti, leggermente sfocate e ricche di malinconia. È come se stessimo passeggiando in un parco in un giorno di pioggia e vedessimo la nostra flebile immagine riflettere su una pozzanghera. Disparition, in fin dei conti, potrebbe anche essere la perfetta colonna sonora per un film di David Lynch o di Wim Wenders.
Nove, in tutto, i brani, Schroeder canta in lingua tedesca in otto di questi.
Spettacolare la title track “Disparition” (presente in due magnifiche versioni), in cui i vocalizzi armoniosi di Andrea si innestano su un ribollente magma elettronico di synth e clangori, per una riuscitissima fusione a freddo tra industrial e cantautorato noir. “Morgenlicht”, da cui è tratto anche uno splendido video, si muove attraverso un muro sonoro costituito da una drum machine che pulsa incessante come una locomotiva, dal suono algido e tagliente della chitarra di Pelle Ossler (già collaboratore della stessa Schroeder su “Void” del 2016) e dal suono caldo e avvolgente di un synth analogico. Alla sommità di questo muro si erge la voce solenne e profonda di Andrea, che canta con una potenza e una bellezza tali da lasciarci stregati.
“Westerplatte” è un altro brano dalle suggestioni molto forti, introdotto dal suono di una chitarra che ti ferisce come una lama mentre dalle retrovie si leva il ritmo martellante di una batteria che batte minacciosa come il calpestio degli stivali dei soldati in marcia. Il brano, ovviamente, rievoca le suggestioni dell'assalto nazista alla Polonia nel 1939 e il suono straniante, che si fa sempre più intenso, sta lì a sottolinearne la cui tragicità: è come se stessimo vivendo un incubo nel buio della notte in una foresta spettrale.
“L’autostrada” (evidente, in questo caso, la citazione dei Kraftwerk) vede la voce della poetessa tedesca affiancarsi a quella di Joakim Thåström. Il brano parte forte, è una sorta di una danza ipnotica dalle tinte industrial eseguita sui fili dell’alta tensione con la voce solenne ed enigmatica della Schroeder che torna a rievocare il fantasma di Nico. La batteria sembra un martello che batte su dei tubi d’acciaio, mentre le chitarre sferrano un suono cupo e tagliente tra le scintille analogiche emesse dai sintetizzatori.
Il duo “Waltzer”-“Die Zeit Vergeht” vede il ritorno ad atmosfere più intime, con affreschi dal sapore di rugiada invernale che spaziano dal Leonard Cohen più struggente fino agli abissi oscuri di Nick Cave e Blixa Bargeld. Schroeder canta alla stregua di una melanconica chansonnier, con più di qualche affinità rispetto ad alcuni episodi presenti nei suoi album. “Tiefenraush” è un piccolo gioiello dal sapore dark (i riferimenti, in questo caso, sono Dead Can Dance, This Mortal Coil e le suite elettroniche del Bowie di “Low”): il brano ha una intro costituita da un tappeto sonoro composto da effetti elettronici, vintage synth strings e chitarre che risuonano come lame. La voce riverberata della Schroeder entra progressivamente e intona un coro di disperazione e tristezza, quasi volesse dichiarare lo stato di decadenza in cui la nostra società sia precipitata. Un crepuscolo privo di speranza.
Con Disparition, i Sällskapet hanno allestito un affresco noir cupo e ricco di suggestioni decadenti, impreziosito da una Andrea Schroeder in stato di grazia, che canta sempre meravigliosamente.
In attesa delle nuove prove soliste della cantautrice tedesca, non resta che sperare che finalmente ottenga i meritati riscontri e il suo seguito si allarghi, magari creando le condizioni per un tour europeo in grado di approdare anche in Italia. Noi – possiamo già dirlo con certezza – ci saremo.
ANDREA SCHROEDER | ||
Blackbird (Glitterhouse, 2012) | 7,5 | |
Where The Wild Oceans End (Glitterhouse, 2014) | 8 | |
Void (Glitterhouse, 2016) | 7 | |
SALLSKAPET FEAT. ANDREA SCHROEDER | ||
Disparition (BMG Rights Mgmt Scandinavia AB) | 7,5 |
Blackberry Wine | |
Helden (cover di "Heroes") (videoclip, da Where The Wild Oceans End, 2014) | |
Ghosts Of Berlin | |
Void | |
Little Girl | |
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