È in uscita al cinema dal 27 febbraio al 5 marzo, come evento esclusivo, “Becoming Led Zeppelin”, il primo documentario autorizzato dalla band inglese, diretto da Bernard MacMahon e co-sceneggiato e prodotto da Allison McGourty. Si tratta in realtà di un ibrido tra documentario e film-concerto, che si focalizza su un arco di tempo molto preciso della vita dei Led Zeppelin, quello che intercorre dalle origini fino al 9 gennaio del 1970, data del loro concerto alla Royal Albert Hall di Londra. Un tempo decisamente breve quindi, nel quale i quattro del Dirigibile crescono giorno dopo giorno in affiatamento, abilità e notorietà, firmano un ottimo contratto discografico con la Atlantic, grazie anche a un manager lungimirante, e pubblicano due album entrati nella leggenda: “Led Zeppelin” e “Led Zeppelin II”. Nel 1968 hanno in media 20 anni, si stanno costruendo un repertorio di tutto rispetto… e il bello è che “Stairway To Heaven” è ancora di là da venire.
È, insomma, l’età dell’innocenza, vera o presunta, che tutte le band hanno vissuto, o vorrebbero aver vissuto, agli albori della loro carriera: non sono stati ancora travolti da sesso, droga e alcol (quest’ultimo fatale per la vita del batterista John Bonham); c’è solo il rock’n’roll, unito a una profonda amicizia, a far volare alto i quattro ragazzi inglesi, permettendo loro di affrontare difficoltà economiche e scarso apprezzamento iniziale da parte del pubblico e della stampa; tutto in nome della musica.
Non si può parlare adeguatamente dei Led Zeppelin senza mostrarli dal vivo: la realizzazione del docu-film non è stata facile proprio perché del primo periodo della band non esistono molti filmati. Il regista ha dichiarato di aver usato “solo pellicole e negativi originali, con oltre 70.000 fotogrammi restaurati manualmente”. Lo spettatore può così immergersi nel concerto del marzo 1969 al Gladsaxe Teen Club in Danimarca, tappa di una tournée scandinava in cui i Led Zeppelin si esibirono come The New Yardbirds, prima ancora di essere definitivamente ciò che la storia ci avrebbe consegnato. Spiccano poi alcuni spezzoni originali tratti dai tour, ben tre, che in quel periodo la band britannica fece negli Stati Uniti sconvolgendo il pubblico americano con la furia del suo sound, come accadde ad esempio al Fillmore West di San Francisco. E non mancano i concerti in terra natale di Bath e della Royal Albert Hall di Londra: quest’ultimo è un vero ritorno a casa per i membri della band, che finalmente, dopo estenuanti e necessarie tappe negli Stati Uniti, potevano mostrare con gioia e orgoglio al pubblico inglese e alla proprie famiglie fino a dove erano riusciti ad arrivare all’inizio del 1970.
Le riprese dei concerti si intrecciano con altre tipologie di materiali. Innanzitutto, c’è un’intervista recente a Jimmy Page, Robert Plant e John Paul Jones, oltre a una testimonianza inedita resa in passato da John Bonham, scomparso nel settembre del 1980. Sono poi presenti filmati di repertorio che documentano alcune vicende della storia contemporanea alla band, dalle immagini dell’Inghilterra nel secondo dopoguerra, alle manifestazioni del ’68 con i figli dei fiori, all’allunaggio; infine il regista, ispirandosi alla tecnica espressiva del film “Singing In The Rain”, ha fatto ricorso a fotomontaggi rapidi di poster, biglietti e viaggi, per ricreare visivamente il senso di frenesia della storia, realizzando un documentario che somigliasse più possibile a un musical.
Per evidenziare la crescita del gruppo si procede per accumulazione. Questo è evidente nel cambiamento delle reazioni del pubblico dei concerti: all’inizio gli spettatori sono i bambini che si tappano le orecchie e le mamme che sbuffano, poi sono i giovani che si lasciano andare a balli scatenati e infine sono i fan in delirio che sfondano le porte delle venues e inneggiano ai Led Zeppelin.
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"Becoming Led Zeppelin" riesce efficacemente ad andare a ritroso nel tempo, cogliendo anche alcuni elementi dell’industria discografica britannica, già presenti negli anni Cinquanta, che hanno senz’altro contribuito alla nascita della band.
Prima di tutto, gli innumerevoli stimoli musicali: dal rock al blues al soul; e ciascun membro dei Led Zeppelin, nella costruzione della storia, prima di far parte del gruppo, dichiara di avere già in testa molto chiaro il tipo di suono che vuole ottenere: cosicché, quando si troveranno a fare le prove insieme per la prima volta nell’estate del ’68, ne scaturirà un sound che è come un’esplosione collettiva.
In secondo luogo c’era la possibilità anche per i più giovani di fare esperienza: basti pensare che John Paul Jones e Jimmy Page, prima di entrare nei Led Zeppelin, facevano i sessionmen per i Rolling Stones e tanti altri nomi di spicco dell'epoca. Jimmy Page racconta addirittura di essere stato convocato nel ’64, ventenne, agli Abbey Road Studios, a suonare con l’orchestra per accompagnare Shirley Bassey in “Goldfinger!”, con tanto di scena da brividi documentata nella pellicola.
Infine, anche gli studi di registrazione più ambiti di Londra non erano roccaforti inespugnabili: i Led Zeppelin registrano i primi due album agli Olympic Studios. Certo, in orario notturno e con un produttore “in casa”, ovvero il poco più che ventenne chitarrista Jimmy Page. Un predestinato, del resto. Tuttora, alla veneranda età di ottant’anni, a Page brillano gli occhi quando, nel corso delle interviste montate nel film, racconta di effetti, nastri suonati al contrario, archetti e riverberi. Suggestiva, in particolare, la sequenza che, in un vertiginoso montaggio, passa in rassegna tutta la scaletta di “Led Zeppelin II” collegata ai luoghi di registrazione.
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Il recupero di tanto materiale live d’archivio dell’epoca, oltre a mostrare la resa sonora devastante delle loro esibizioni dal vivo, sempre fisiche e viscerali fin dagli esordi, consente di cogliere la straordinaria maturità artistica che caratterizzava i Led Zeppelin anche agli albori della loro carriera: i quattro suonano vicini sul palco, si intendono con un affiatamento straordinario, nessuno cerca di prevalere sull’altro. Emerge anche con inedita nettezza il ruolo di “facilitatore” del gruppo, svolto da John Paul Jones che sostiene col suo basso la band come una spina dorsale, lasciando respiro ai compagni. Tra tutti, Robert Plant appare forse il più disincantato. A un certo punto durante l’intervista si chiede: “Avevamo vinto il disco d’oro, cosa potevamo volere di più?”. Nel suo sguardo c’è una malinconia che lascia presagire tutto ciò che di bello - e di brutto - sarebbe successo dopo il 1970. Ma questa è un’altra storia…
25/02/2025