Che cosa si può chiedere più a uno come Robert Plant? Frontman leggendario di una band scolpita a caratteri cubitali nella storia del rock, eroe generazionale e icona sempiterna, quindi battitore libero, deciso a inseguire ostinatamente le sue passioni - dal blues al folk, dagli spiritual alla psichedelia - infischiandosene delle strabilianti proposte a nove zeri che gli venivano recapitate per riformare i Led Zeppelin: tutte puntualmente cestinate in nome di una coerenza granitica. Più che un cantante, un highlander, uno sciamano, che dietro la folta capigliatura e l'andatura ciondolante mantiene ancora lo spirito fiero di sempre. Ma soprattutto: una voce ancora portentosa, considerate le 76 primavere che porta sul groppone. E già questa constatazione - in parte inattesa - rende speciale la serata che andremo a raccontare. Eppure - strano a dirsi - per chi scrive era la prima volta live al cospetto dell'ex-voce dei Led Zeppelin. Sarà stato il caso, sarà stata la diffidenza per progetti apparentemente distanti da quell'immaginario (ma in realtà neanche troppo), come era anche questo, in compagnia dei Saving Grace e dell'angelica Suzi Dian. Un progetto intimo, legato alle tradizioni musicali anglosassoni, con in primo piano strumenti come banjo, mandolino e percussioni leggere a ricreare atmosfere ancestrali, sospese tra sogno e realtà.
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A mezz'ora dall'inizio, è già gremita e carica di attesa, la splendida Sala Santa Cecilia dell'Auditorium, uno di quei luoghi in cui è un piacere ascoltare la musica a prescindere e che regalerà ancora una volta un
sound potente e cristallino. Scorgiamo qualche attempata fan dei
Led Zeppelin con magliette d'ordinanza, ma anche tanti giovani, proprio come lui, Robert Plant, uno che per definizione non potrà mai invecchiare, neanche a 100 anni. Come
Mick Jagger o come
Paul McCartney. A restituirgli la (eterna) giovinezza è anche uno show che lo riporta alle origini, un viaggio nelle atmosfere fiabesche e trasognate della
countryside britannica. Quell'universo ricco di storie e di leggende, in cui, proprio parallelamente all'ascesa dei Led Zeppelin, sbocciò il folk revival di gruppi storici come
Pentangle e
Fairport Convention. Da lì, Plant riparte per una cartografia dei sentimenti sonori che travalica i confini, spaziando dal suo amato Galles al Delta del Mississippi. A condividere con lui questo
transfert emozionale, anzitutto una partner vocale nonché multistrumentista di assoluto livello come la giovane Suzi Dian, a cui con grande umiltà Robert cederà più volte il centro del palco, come in un ideale passaggio di consegne generazionale: la sua voce celestiale aggiungerà profondità e dinamismo ai brani, creando momenti di pura magia. Poi, il gruppo: Oli Jefferson (percussioni), Tony Kelsey (mandolino, baritono e chitarre acustiche) e Matt Worley (banjo, chitarre acustiche e baritono, cuatro). Un
ensemble che ha mosso i primi passi proprio affiancando i
Fairport Convention in alcune date live nel Regno Unito.
Anticipiamolo subito: pochissime saranno le tracce della gloriosa era
zeppeliniana, in una scaletta affollata di brani che abbracciano diversi stili e influenze cari a Plant, in particolare la sua eterna passione per il folk britannico e americano, la
West Coast degli
anni 60, gli spiritual e il
blues tradizionale, tra cui anche classici di Gillian Welch,
Neil Young, Moby Grape e
Low e molti altri.
Brillano le rivisitazioni di alcuni
traditional, come l'incalzante "The Cuckoo" e l'intensa "Gospel Plow", a due voci con Dian, la canzone che ha ispirato la più celebre "Keep Your Eyes On The Prize", interpretata, tra gli altri, da
Bob Dylan,
Pete Seeger e
Bruce Springsteen. Emoziona anche la cover dei Low, "Everybody's Song" (da "
The Great Destroyer", 2005), con il pensiero che corre inevitabilmente al ricordo di Mimi Parker.
Plant si mostra affabile, dialoga col pubblico senza divismi di sorta, come al pub davanti a una birra. "Sono sul palco da 60 anni... ma non applaudite, vi prego, non c'è nessun merito particolare - ironizza rintuzzando l'ovazione - Ma voglio dire che bello è essere qui, in questa
remarkable city, con queste persone meravigliose che ho intorno a me". Si vede che ad alcuni brani tiene in modo speciale, come alla cover di "It's a Beautiful Day Today", dei Moby Grape "un gruppo psichedelico americano degli
anni 60... quanti di voi lo conoscono?".
Il vecchio leone di West Bromwich sa ancora ruggire, anche se gli rimproverano di non raggiungere più gli acuti dei tempi d'oro. Ma l'interpretazione... accidenti se ancora c'è! La sua voce è solo lievemente arrochita, ma è sempre potente, intonata, espressiva, e sa volare ancora, come ai tempi del magico Dirigibile. A proposito, sì d'accordo il coraggio di reinventarsi, di non cedere alle tentazioni nostalgiche e di aver audacemente smantellato la mitologia hard-rock dei
70's, però quando attacca "Rain Song", con quei soffici ricami di chitarra sullo fondo e quel cantato fatato e ineguagliabile, la lacrimuccia è inesorabilmente in agguato, così come quando, dalle spesse trame acustiche del set, rispuntano - trasfigurati e quasi irriconoscibili - altri gioielli nascosti dell'era
zeppeliniana come "Friends" e "Gallows Pole", entrambi dal capitolo "III" del 1970. Proprio "Gallows Pole", primo dei due bis, condensa idealmente le due anime di Plant, trattandosi della rielaborazione di un
traditional ("The Gallis Pole", interpretato da Red Gerlach, un amico del leggendario Leadbelly) che lui trasformò assieme a Jimmy Page, John Paul Jones e John "Bonzo" Bonham, e contenendo anche nel testo frammenti dell'epica "Black Dog".
Quindi per congedarci, dopo un'ora e mezzo di show, Robert Plant ci canta la ninnananna della buonanotte, in coro con i suoi compari, per la dolcissima "And We Bid You Goodnight". Tenera è la notte, se a risuonarti in testa è una delle voci più belle e inconfondibili del rock. Da preservare come patrimonio Unesco.
(Foto di Chiara Pasqualini-MUSA/ Auditorium)