DJALE – Spaceman (Night Vibez, 2018)
deep-house
Deep-house mutante, ricca di contaminazioni soulful e rielaborazioni elektro-clash. “Spaceman” è un Ep contenente quattro tracce, che prosegue il percorso space-funk e neo-fusion della giovane label italiana Night Vibez, che in questo caso fornisce supporto alle nuove composizione di Djale, al secolo Alessandro Sarsano. “Spaceman” e “Music For Heroes”, i primi due brani in scaletta, partono lievi, decisamente balearici, e si arricchiscono cammin facendo di substrati basati su bassi profondi e beat grezzi. La produzione suona comunque pulita e ben rifinita, centrata su pad eterei e ricercati, il tutto immerso in un caldo sound analogico. I beat si fanno più aggressivi, quasi contundenti, in “Space Walking”, per poi tornare ad ammorbidirsi ed essere resi malinconici dalla presenza del piano nella conclusiva “Other Communication”, perfetto meccanismo basato sulla ripetizione. Quasi mezz’ora per rilassarsi e ballare downtempo. Sunset music buona per qualsiasi ora del giorno, e della notte, che conferma i nostri producer ai livelli dei migliori nomi internazionali (Claudio Lancia 7/10)
GINO PAVAN - Absolute (Adesso, 2017)
elettronica, musica cosmica
L’etichetta Adesso nasce da un progetto di Carlo Simula col nobile intento di “preservare e tutelare l’eredità culturale della musica di puro intrattenimento”. Il polistrumentista Gino Pavan, dopo il lontanissimo esordio del 1981 di “Magico”, entra a far partire di questo progetto col suo secondo Lp solista “Absolute”, ambizioso viaggio nell’elettronica strumentale vintage con rimandi kraut in stile Kraftwerk, echi di
Vangelis ("Il grande silenzio”) e i ritmi degli
Alan Parson Project (Evolution Theory”). Un viaggio cosmico tra mondi futuristici alla Blade Runner e disco music con persino cenni di percussioni tribali (“Absolute”). Sono svariati i riferimenti di Pavan, probabili anche quelli del pioniere della musica cosmica italiana Baffo Banfi e il suo “Galaxy My Dear” del 1978. Gli elementi in comune sono almeno due; un approccio elettronico mai troppo cupo o claustrofobico (non ci sono mai sonorità in stile “Zeit” dei Tangerine Dream o “Irrlicht” di Klaus Schulze) e i riferimenti temporali, ben delimitati all’elettronica della seconda metà degli anni 70 e agli anni 80, con quasi nessuna influenza rispetto ai mostri sacri della scena contemporanea. Pur smaccatamente vintage il tardivo ritorno di Pavan ci è molto gradito (
Valerio D'Onofrio 7/10)
I’M NOT A BLONDE - The Blonde Album (Inri, 2018)
techno-pop
Le milanesi Chiara “Oakland” Castello e Camilla Matley debuttano a nome I’m Not A Blonde con un trittico di Ep a cadenza trimestrale, “EP01” (2014), “EP02” (2015) e “EP03” (2015), poi raccolti su “Introducing” (2016). Il debutto su lunga distanza, “The Blonde Album”, le stabilizza ancor più saldamente sui binari del post-foxcore di Telepathe e Electrelane, ma con un precipuo cuore d’anticaglia italica rimissata. Nonostante sia un’imitazione e pure tardiva, è dinamite di ritmi appiccicosi (“Not Today”, twist elettronico a velocità ed enfasi fantascientifiche, il pezzo col maggior tiro) o anche virali (“Waterfall”), e refrain algidi ma ben arrangiati (niente male quello quasi cartoonesco di “Daughter”, il singolo di traino), impeccabilmente decorati con una sfilza di “pa-pa-pa” o “ta-ta-ta” retrò a cappella che qui assumono un che di lisergico (miglior esempio: “Five Days”). A parte l’italodisco esistenziale di “A Reason”, c’è anche una zona di crepuscolo: l’Eurythmics-iana “Walls Coming Down” e specialmente l’oceanica, cullante “The Road”. Co-scritto con Gian Maria Accusani di Prozac+ e Sick Tamburo, mixato da Matilde Davoli con interventi ("A Reason") di Daniel Hunt, Ladytron. (Michele Saran 6,5/10)
LAPSUS - Speculum Ep (Beng! Dischi, 2018)
shoegaze, indie-folk
"Speculum" nasce come un esorcismo al proprio dolore nella mente del pisano Marco Marino, che registra in un piccolo magazzino con l'aiuto di un computer e di qualche strumento. Il risultato è un disco dai suoni ariosi e claustrofobici nello stesso tempo, a volte più inclini a uno shoegaze dalle trame lente e cupe (è il caso della title track "Speculum", forse il miglior brano del conio), altre volte più votato al folk intimista di Bon Iver ("Last Train", "To The Bone"), specie quando la voce si tramuta in un candido falsetto. Nel resto del catalogo, la parola d'ordine è quella di un indie-folk piacevole ma non molto originale, macchiato ogni tanto da un inglese non sempre impeccabile. (
Valeria Ferro 6,5/10)
ENJOY THE VOID - Enjoy the Void (Autoprodotto, 2018)
rock
I salernitani Enjoy the Void fanno capo al talento di Sergio Bertolino (autore, compositore, cantante e tastierista originario di Reggio Calabria); è sua l’idea di dare vita all’intero progetto, nato quando era in soggiorno a Manchester. Ad affiancare il leader e vocalist della band, troviamo il batterista Francesco Magaldi, i chitarristi Lucio Filizola e Giuseppe Bruno, il fonico e chitarrista Giovanni Caruso. Ciò che balza subito all’attenzione è una pregiata capacità narrativa. Le parole evidenziano una discreta vena poetica, al netto dell’utilizzo della lingua inglese, presa integralmente in prestito e adottata con una pungente licenza poetica: “The panic claws/Have taken out the pearls set in my eyes/Drinking a drink of clouds/ Blaming insights, feelings and time/ Thinking of the loss/Disclosure, naked decline” – “Gli artigli del panico hanno estratto le perle incastonate nei miei occhi/Bevendo una bevanda di nubi/Incolpando percezioni, sentimenti e tempo/Pensando alla perdita/Disvelamento, nudo declino” (da “Nanaqui”). Musicalmente siamo dalle parti degli
Afghan Whigs più statici con la voce di Greg Dulli nel mirino, e passaggi che talvolta mettono in luce similitudini di peso, come la seconda parte di “Our Garden” richiamante qui e là “
Comfortably Numb”. La capacità di utilizzare un’elettronica mai invadente e da contorno alla formula blues-rock acida e nichilista risulta una scelta vincente (“The Usual Blues”, la ). Le cose funzionano egregiamente soprattutto nelle ballate più spedite ed emotivamente ispirate (l’intensa “A Prayer”). Cresceranno (
Giuliano Delli Paoli 6,5/10)
RANTER'S GROOVE - Musica per camaleonti (Kaczynski Editions, 2018)
avant-folk, experimental
Primo album per i Ranter's Groove e per l'etichetta Kaczynski Editions, "Musica per camaleonti" richiama nel titolo il romanzo di Truman Capote, contrassegnato da uno stile schietto e giornalistico. Nello stesso modo, anche la band ci tiene a dipingere pennellate di vita e ritratti a sangue freddo, ambendo ad allestire una sorta di colonna sonora del quotidiano, in tutte le sue crudeltà. A tale scopo, il duo utilizza strumenti tradizionali come la chitarra, il violoncello o la tromba abbinandoli a dispositivi elettronici, field recording, voci e suoni stranianti di dubbia provenienza. Il risultato sono 8 brani in cui l'ascoltatore si ritrova spiazzato e privo di punti di riferimento, soprattutto dinanzi a composizioni come "Bobby Beausoleil And The Lucifer's Rising", che sembra evocare lo spirito del noto criminale della family di Manson (
Valeria Ferro 6,5/10)
PRISCILLA BEI - Facciamo finta che sia andato tutto bene (Lapidarie Incisioni, 2018)
songwriter
Già studentessa di canto jazz e insegnante, la cantautrice romana Priscilla Bei debutta a proprio nome con l’Ep “Una storiavera” (2015), umile e nudamente folk, improvvisato e registrato in presa diretta in una sola sessione. Tutt’altro affare è il primo lungo “Facciamo finta che sia andato tutto bene”: elettronico, nevrastenico, studiato e rifinito in produzione e post-produzione. Vi sono autentici gioielli, anzitutto “Caos”, il suo ripieno di suoni discordanti, i suoi assoli fuori sincrono di clarino. “Livorno” assimila per la prima volta gli stilemi di Julia Holer (cantilena su vocalizzi in loop, sospensione irreale, suoni giocattolo), mentre nel dub di “Ivano” l’autrice si arrovella cubista e dissonante, il canto arretrato e smarrito (un sub-ritornello di sole sillabe con echi distorti): un sabotaggio, più che un arrangiamento. Il flusso di coscienza alla Brunori di “Cose serie” disintegra le parole in sintetizzatori ostili e un battito dance sopra le righe, e la ballata “Faccio a meno” sembra suonata e incisa in una centrale elettrica in corto circuito. Più fiacchetto, a caccia del refrain e quindi meno free-form, il singolo “Keplero” (comunque epico col suo inizio di tam-tam). Incompiuto d’autore: le ultime quattro canzoni non solo non sviluppano né mantengono le promesse, ma proprio perdono la bussola, riempitivi in un’opera già corta e ancora un po’ timida. Stefano “Tashi” Pala, scenografo e regista al fianco di Bei, garantisce comunque momenti da camera degli specchi, un illusionismo sordido, disciolto, spesso e volentieri debordante nella dissociazione tout-court. Bravi anche i comprimari, Marco Colonna (fiati) per primo (
Michele Saran 6,5/10)
OTU – Clan (Dischi Bervisti/Hashtag, 2018)
cinematic instrumental hip-hop
Francesco Crovetto e Isaia Invernizzi sono i titolari del marchio OTU, approdato all’esordio ufficiale attraverso le dieci tracce che compongono “Clan”, un viaggio esplorativo all’interno della musica elettronica contemporanea, eseguita scandagliando in particolare territori hip-hop, techno e ambient, con l’aggiunta di chitarre ed inserti parlati raccolti da film del passato. Il duo utilizza
sample e sviluppa
groove per creare una sorta di
cinematic instrumental hip-hop sperimentale e ambizioso. Sulla batteria (quasi sempre acustica) di Crovetto (che si è impegnato anche nella produzione del tutto) si stagliano le chitarre di Invernizzi, spesso taglienti, ai quali possono sovrapporsi
beat perfetti per il
dancefloor (“Santos”, “Q/Ter”), adagi post-rap (“Ali”) talvolta fusi con tensioni
rock oriented (“Mark”), oppure brani più atmosferici, che giungono a lambire i confini con il post-rock (“Wendy”, “Edward”, “Hal”, notare come quasi tutti i titoli siano nomi propri) o con la musica etnica (“Jay/G”). Produzione e idee dal profilo internazionale (
Claudio Lancia 6,5/10)
ENDRIGO – Giovani leoni (Ammonia Records, 2018)
alt-rock
Giovani leoni crescono, nuovi
Fast Animals And Slow Kids dilagano. L’accostamento più naturale, ascoltando le nove tracce dell’opera seconda dei quattro musicisti di Brescia, è proprio con la band umbra guidata da
Aimone Romizi. I ragazzi hanno preso in prestito il cognome di un noto cantautore per farne la proprio ragione sociale, e narrano i piccoli grandi malesseri quotidiani che affliggono gli adolescenti degli anni 10. Il trittico iniziale delinea subito il
mood generale: “Il ritorno dello J**i”, “Transenna” e “Lettera” si lanciano subito a pieni giri, ed il tiro resterà il medesimo per l’intera durata dell’album, salvo trovare lieve serenità verso il finale, con l’intimismo incentrato sul pianoforte di “Questa è la casa”, e il
divertissement a tinte folk de “La migliore band death metal esistita in tutta Brescia”. L’alt-rock chitarristico imbevuto nel “punk” degli Endrigo per il momento funziona benissimo così. Per il futuro il quartetto si troverà “costretto” a formulare una proposta dotata di maggior personalità, per non restare imbrigliati nel vicolo cieco di chi rischia di somigliare per sempre a qualcun altro. Quel qualcun altro che magari nel frattempo ha saputo crescere e spostarsi altrove. Da segnalare con forza il featuring di
Giorgieness nella speditissima “Il ragazzino” (
Claudio Lancia 6/10)
IL FIENO - Riverberi (Uma, 2018)
alt-pop
Dichiarato punto di svolta per
Il Fieno di “Riverberi”, la volontà di lasciarsi alle spalle il ritornello, la rima, l’affabilità. Pubblicità ingannevole: c’è tutto questo e pure ribadito. I quattro lombardi suonano effettivamente più disperati che in passato nelle liriche (precisamente sincronizzate col loro avanzare d’età e i rispettivi problemi), perlomeno nell’alto inno “Everest”. Ma già “Galassie”, “Porno” e “Lucertole” puntano di nuovo tutto sul motto canticchiabile e il battito ballabile a presa sicura. Il lato introspettivo è spesso poco più di una serenata rabbuiata (“Canzone semplice”), o un valzerino in crescendo (“1983”), o a un riff ben scodellato (“Lotus”). Secondo album lungo (però di breve durata, punto a favore), seguito de “I Vivi” (2015), ma primo per una label, l’appena nata Uma Records. La produzione (Lele Battista) è infatti l’unica differenza sostanziale e sostanziosa in un impianto non scadente ma di condotta molle e piatterella. Album-scommessa, buon presupposto per varcare quel Rubicone che separa underground da commerciale, come altri del vivaio alternativo prima di loro (
Michele Saran 5,5/10)