Giorgieness

Brividi e lividi

intervista di Fabio Guastalla

Una delle novità della stagione italiana sono senza dubbio i Giorgieness, formazione milanese capitanata dalla carismatica Giorgie D'Eraclea. Tre singoli pubblicati lo scorso anno e finalmente, questa primavera, l'uscita del primo album "La giusta distanza" (Woodworm). Abbiamo colto l'occasione per rivolgere qualche domanda a Giorgie.

Quando ho ascoltato per la prima volta le canzoni, l'immediata impressione che ho avuto è quella di un'artista molto grintosa e in grado di esprimere ciò che pensa senza giri di parole (che poi è uno dei limiti più macroscopici e atavici del cantautorato italiano). Vado subito al dunque: come nasce un tuo brano? Da un'idea, un tema, una situazione... oppure nasce prima la musica?

La musica e il testo nascono spesso insieme, anche se poi quasi sempre accade che tengo solo la linea vocale e il resto cambia. Tendenzialmente incamero per un certo periodo un tot di esperienze, di volti, di situazioni e sensazioni, periodi nei quali difficilmente scrivo canzoni, e poi c'è un momento in cui naturalmente tutto esce spontaneo. Altre volte mi viene un'idea completa di quello che voglio dire e cerco di snellire i pensieri fino a farli diventare il testo del pezzo.

Tra l'altro, anche sotto il profilo musicale, i passaggi più propriamente “rock” sono comunque funzionali a un lato melodico che non cerca di compiacere ma risulta comunque efficace e diretto. Visto che parliamo di te per la prima volta, ci racconti quali sono stati gli artisti che più ti hanno influenzato e con i quali sei cresciuta a livello di ascolti? E a quale età hai deciso di diventare una musicista?
Mah, non c'è stato un momento in cui ho pensato di “fare la musicista”, nel senso che a un certo punto mi sono resa conto che era la cosa che volevo fare. L'unica cosa che volevo fare, con tutta me stessa. Da bambina volevo fare musical! O l'attrice. O la macellaia. Ho cominciato con le band, come quasi tutti, verso i quattordici/quindici anni, avevo un gruppo punk tutto femminile chiamato Wrong Choice. Scrivevo in inglese e ci ispiravamo ai Distillers, ai Rancid, Pennywise, Devotchas, Social Distortion. Penso che quel tipo di suono, che riusciva a unire la melodia alla rabbia, mi abbia segnata moltissimo. Bisogna però dire che fin da piccolissima ho tenuto in mano una chitarra, scritto canzoni e ascoltato ciò che la mia casa offriva. Quindi da papà ho preso i classiconi (Pink Floyd, Bruce Springsteen, Oasis, King Crimson, Nick Drake...) e da mamma i cantautori e gli Smiths. A questo, bisogna unire un po' la cultura pop – americano – della fine anni 90 inizio 2000, dalle Destiny's Child agli Evanescence a Eminem. Quelle cose lì.
Verso i diciannove anni mi sono avvicinata al rock italiano degli ultimi tempi, che sicuramente è stato fondamentale durante il passaggio dall'inglese alla mia lingua madre e nello stesso periodo ho conosciuto artisti immensi tipo Nick Cave, Bjork, James Blake, Radiohead, PJ Harvey. Ascolto davvero un sacco di musica diversa, e poi cerco di frullare tutto e farlo uscire nel modo più personale possibile.

La giusta distanza” è stato largamente anticipato da tre singoli pubblicati lo scorso anno. Verrebbe da pensare che le registrazioni siano state molto lunghe e che non si volesse lasciare nulla al caso. Ci racconti com'è andata la prima volta in studio, e come sono state modellate le canzoni nella loro versione definitiva?
In realtà le registrazioni non sono durate neanche così tanto, un mesetto e mezzo. Però sicuramente durante tutto il periodo dei singolini, abbiamo lavorato durissimo per capire cosa si volesse effettivamente fare e come. Luca (batterista) si è unito a noi per ultimo, ormai un anno fa, e ci siamo fatti tanta saletta per conoscerci e creare una sintonia che, per fortuna, si è creata e penso si veda anche nei live. Fatto questo, lavorare ai pezzi poi è stato abbastanza naturale, quantomeno per fissare l'idea, e poi io e Davide (produttore, chitarrista) ma anche Andrea Fognini (assistente di studio, nonché nostro fonico), ci siamo presi del tempo per trovare suoni e mondi per ogni canzone. Il caso fa il suo, perché tante cose sarebbero potute essere diverse, abbiamo fatto duemila prove, però capitava sempre che a un certo punto ci si guardasse e si dicesse: “figata. Teniamolo così”.
Non è stato facile, per me, un po' maniaca del controllo e abituata a fidarmi solo di me stessa, lavorare con una vera produzione. C'è da dire che Davide ci teneva a far uscire ciò che avevo dentro, spesso proponendomi soluzioni alle quali io per vari limiti, anche normali per l'età e l'esperienza, non avrei mai pensato. E ha avuto molta pazienza, perché prima di accettare un cambiamento dovevo sbraitare per qualche ora. Allo stesso tempo è stato fondamentale avere con me Andrea (basso) che ormai sono anni che mi sopporta e mi porta in giro a suonare. Ho imparato tanto durante questo anno all'Edac Studio.

All'inizio citavamo il lato piuttosto “ruvido” e diretto di certi tuoi pezzi, ma in realtà l'album presenta una scaletta varia anche a livello stilistico: penso ad esempio alla ballata elettroacustica “Che strano rumore” o al piglio più levigato e in un certo senso ancora più intimo di “Lampadari”. Ci racconti qualcosa in più a proposito di queste due canzoni?
Sono due canzoni scritte in periodi molto diversi, da una persona in crescita e in costante ricerca, non si sa bene di cosa. Forse, banalmente, di una felicità spudorata. "Che strano rumore" è un pezzo molto diverso dagli altri, ci ho messo un po' di cose che mi sono successe nell'ultimo anno, che non è stato il più roseo della mia vita. Parla di sentire tutto o non sentire niente, come se stesse cadendo il cielo e dopo un primo momento di paura folle, non si riuscissero più a provare emozioni. Sai che sta succedendo, tu te ne fai una ragione e guardi gli altri che si affannano e un po' sorridi. Tristissimo, lo so. Fondamentale per questo pezzo è stato "Melancholia" di Lars Von Trier, la scena iniziale con la madre, la sposa e il bambino l'ho guardata per mezza giornata in loop.
"Lampadari" invece ha avuto una lunga gestazione, era presente già nel primo Ep in una versione molto più acustica. Adesso è diventata scurissima, molto più ossessiva, con questi cori tipo sirene. Essendo una canzone che parla di notti lunghissime, penso abbia trovato il suo vestito giusto. Entrambe le canzoni fotografano dei momenti, ma in quest'ultimo caso è come se fosse la cronaca di qualcosa che ti sta succedendo ma tu vedi da fuori, da spettatore.

Se ti guardi attorno, come giudichi l'attuale scena italiana? Sia a livello di band che di locali, opportunità, stampa specializzata, eccetera...
Non so, io non penso vada così male, no? Cioè alla fine si fa un gran parlare male della “scena”, però mi sembra che stiano uscendo un sacco di artisti bravi e di dischi belli. E anche che ci siano sempre più realtà che lavorano benissimo, ci credono tantissimo e offrono sia ai musicisti che al pubblico delle proposte interessanti. Se devo scegliere cosa guardare, in questo caso, guardo il bicchiere mezzo pieno. Le difficoltà sono tantissime e le cose brutte idem, ma quasi tutte le persone con un reale talento e che si sono impegnate, che ci hanno messo tutti loro stessi, che ho conosciuto in questi anni, sono riuscite a farlo vedere. Magari non si diventa ricchi, però la gente vuole ascoltare musica, andare ai concerti e suonare. Come in tutti gli ambienti, c'è il buono e il cattivo, ci sono quelli che arrivano per merito e quelli che arrivano perché sono amici di. Ma alla fine tu puoi solo andare avanti onestamente e non farti troppo sangue acido.

Hai già suonato con tanti “mostri sacri” in questi ultimi anni, ma se potessi condividere il palco con un artista o band (italiano o straniero) a tua scelta... chi sarebbe?
Se devo sognare, sogno in grande e penso a PJ Harvey!  

Discografia

La giusta distanza (Woodworm, 2016)
Siamo Tutti Stanchi (Woodworm, 2017)
Mostri (Woodworm. 2021)
Pietra miliare
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