Autrice: Margo Price
Titolo: Maybe We'll Make It
Editore: University of Texas Press
Pagine: 271
Prezzo: US$ 27,95
Lingua: Inglese
Maybe we’ll make it across the country without this ancient vehicle wearing out. And maybe we’ll make it, break out, and get discovered.
Per Margo Price la strada per il successo è stata tortuosa, lunga e sofferta. Nel memoir “Maybe We’ll Make It”, pubblicato nell’autunno del 2022 dalla University of Texas Press, la cantautrice racconta in maniera particolareggiata il suo tormentato percorso di vita e le difficoltà ripetutamente incontrate nel tentativo di “farcela” nell’industria musicale.
Nata il 15 aprile 1983, Margo è sempre stata uno spirito ribelle e anticonformista (“as a little girl, I was plagued by rebellion”, afferma nel prologo). Durante il suo sophomore year al college decide di abbandonare tutto e di trasferirsi nella music city di Nashville, Tennessee, per intraprendere la carriera di cantautrice. Questa decisione fu in realtà dovuta a una folgorante epifania avvenuta durante un trip da funghetto allucinogeno. Un trip, insomma, che le ha cambiato completamente la vita.
Da busker per le strade di una cittadina in Colorado a cameriera nei ristoranti di Nashville, da operatrice in un cinema e centro culturale a insegnante di danza per bambini e bambine, Margo, per sopravvivere biologicamente mentre cercava di avviare la sua carriera di musicista, è stata costretta a svolgere una moltitudine di lavori, la gran parte dei quali sottopagati. La sua carriera però, nonostante i sacrifici, non sembrava mai essere sul punto di decollare per davvero. Durante una decade trascorsa a Nashville i fallimenti e i buchi nell’acqua parevano fossero destinati a verificarsi in continuazione. E se per certi aspetti potrà anche risultare ripetitivo leggere di una lunga serie di concerti deludenti, con un pubblico pressoché inesistente, incapaci di costituire una reale entrata a livello finanziario, tale situazione, reiterata quasi ossessivamente, enfatizza lo sfinimento a cui è arrivata pericolosamente vicina la cantautrice. Uno sfinimento sfiorato anche a causa delle condizioni di vita spesso precarie in cui si trovava: dalle settimane in tenda nelle montagne del Colorado, vissute con brio avventuroso insieme al compagno Jeremy Ivey, divenuto poi suo marito, all’inverno trascorso con i caloriferi spenti per evitare le spese del riscaldamento, divenute insostenibili, Price ha dovuto adattarsi a diverse situazioni non proprio ottimali, affrontate di volta in volta con la consapevolezza che un giorno ogni suo sforzo le sarebbe stato in un modo o nell’altro ripagato.
Ma l’industria musicale le oppone resistenza in maniera spietata, soprattutto perché Margo è una donna non disposta a scendere a compromessi. La consapevolezza di essere svantaggiata per il suo genere trova riscontro in rifiuti sessisti da parte di etichette discografiche (“abbiamo già due ragazze nel nostro catalogo, non possiamo ingaggiarne altre”) e nelle viscide avances da parte di uomini con fantomatiche “connections”. Il sesto capitolo racconta dell’incontro con un musicista di nome Doc, il quale propone a Price di scrivere insieme nel suo studio privato un paio di canzoni più commercializzabili. Quando sei giovane e al verde e non ti si prospettano altre possibilità, perché non provarci? Peccato però che la session di scrittura fosse tutta una farsa e che Doc e un suo amico avessero drogato la donna, aggiungendo delle sostanze stordenti al suo drink. Da una situazione del genere Margo uscì illesa solo grazie a un tempestivo messaggio inviato a Jeremy, il quale, pur non avendo un indirizzo preciso, riuscì miracolosamente a trovarla e a portarla in salvo a casa.
La vita on the road ricopre una parte consistente della seconda metà del memoir ed è rappresentata nelle sue diverse sfaccettature. Nuovi luoghi, nuove persone, tanti incontri e nuove esperienze, il tour è da un lato pura adrenalina, ma dall’altro sfibra e, nel caso di Price, esacerba le dipendenze, in particolare quella da alcol. Dapprima quello con la precedente band di Margo e Jeremy, i Buffalo Clover, e in seguito quello da artista solista, prima di pubblicare “Midwest Farmer’s Daughter”: i due tour descritti si rivelano infruttuosi e non le permettono di venire notata. Trovare venue decenti, in grado di offrire un cachet dignitoso, è difficilissimo per un’artista donna indipendente, priva peraltro di un contratto discografico con una qualsivoglia etichetta. Ecco allora che Margo e Jeremy escogitano l’esilarante trovata di inventare la figura di un booking manager, il tale John Sirota, personaggio fantasma che aiuterà la coppia e la loro band a farsi ingaggiare da bar, ristoranti, festival e sale concerti.
Ma tra una peregrinazione per gli States e l’altra, la narrazione si impernia sempre su un luogo cruciale: Nashville. Città-crocevia che pullula sempre di nuovi artisti e artiste, la capitale del Tennessee è il centro a cui tendere, un quasi-personaggio con cui confrontarsi, una figura da battere. Qui Margo incontra le persone con cui suonerà: Lilly Hiatt, per cui Price fu batterista per un breve periodo, l’amico Sturgill Simpson, che avrebbe poi prodotto il bellissimo “That’s How Rumors Get Started”, una giovanissima Brittany Howard, quando lavorava part time per le poste e gli Alabama Shakes, non erano ancora diventati il nome sulla bocca di tutti e tutte. Ma soprattutto Jeremy Ivey, marito, compagno di vita e anima affine, che dal momento della sua entrata in scena nel racconto rimane una figura pressoché costante, nonostante le varie avversità.
Il successo giunge improvviso e inaspettato e tutto accade poi rapidamente. Dopo aver firmato per la Third Man Records di Jack White, interessata a pubblicare il debutto di Price registrato già da un anno, si susseguono la performance al The Late Show di Stephen Colbert, la partecipazione al festival texano SXSW e soprattutto quella a una puntata di SNL, che conclude di fatto l’autobiografia, come se fosse la destinazione ideale a cui tutta la narrazione tendeva fin dall’inizio.
Non c’è dunque spazio per gli eventi successivi, per le canzoni di “All American Made” e per i due dischi a seguire. Il libro si concentra sugli anni degli insuccessi, su una decade di fallimenti che però non ha privato la musicista della sua perseveranza e determinazione. Price stessa aveva del resto descritto il memoir come una storia di liberazione dall’abuso di sostanze e dalle dipendenze, di una lotta per riuscire a “farcela” nell’industria musicale senza snaturarsi, senza svendersi. E forse proprio le pagine che rappresentano il baratro della depressione e dell’alcolismo sono quelle più pregnanti, limpide e senza filtri, così come le canzoni nel repertorio della Price.
“Maybe We’ll Make It”, pur con qualche imperfezione stilistica, costituisce l’appendice ideale e complementare al canzoniere autobiografico della musicista statunitense. Ma è anche un sentito tributo alla città di Nashville, a quella scena vivida e ricca da cui sono fuoriusciti artiste e artisti ormai celebri, ma che custodiva, e immaginiamo custodisca ancora oggi, tanti segreti musicali, palpitanti nel limbo dell’attesa di essere scoperti. Forse anche loro ce la faranno, forse no. Il memoir di Margo Price è in fin dei conti dedicato anche a loro, a quelli che resistono e a quelli che soccombono. Maybe they’ll make it too.
*Photo credit: Alysse Gafkjen