Summer of Love. The Making of Sgt. Pepper

Autore: George Martin
Titolo: Summer of Love. The Making of Sgt. Pepper
Editore: Coniglio
Pagine: 190
Prezzo: 14,50 euro

george_martin_summer_of_loveSolo George Martin poteva parlare di "Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band", il capolavoro "tecnologico" dei Beatles, la "Hippie Symphony n. 1" per usare una definizione dello stesso Martin, illustrandone la genesi e tutti i meccanismi compositivi. E Sir George - classe 1926 - lo ha fatto. I fan dei Beatles e gli appassionati di musica rock gliene saranno per sempre grati.

Il libro di George Martin è uscito in Italia alla fine del 2008 per i tipi della Coniglio, ottimamente tradotto dall'inglese da Paolo Somigli, direttore del mensile "Chitarre". L'edizione inglese è però più vecchia di ben quindici anni. È molto strano che un libro sui Beatles, scritto da uno che i Beatles li conosceva assai bene, e che anzi è stato sempre e giustamente definito come "il quinto beatle", non abbia trovato nessuno in Italia disposto a tradurlo per tre lustri consecutivi. Ma forse, a ben vedere, una ragione c'è. Ne parleremo più avanti.

Il titolo del libro è in ogni caso "Summer of Love". Più che ovvio: Martin infatti sa bene che un disco come "Sgt. Pepper" è in una certa misura debitore del clima spensierato e sperimentale vissuto dal mondo della musica rock nel 1967, l'anno di pubblicazione del 33 giri. Non dimentichiamolo, il 1967 è l'anno del "Flower Power" e degli stili di vita alternativi, a cui molti giovani guardano con curiosità e interesse crescente. E la stragrande maggioranza dei musicisti rock erano all'epoca, per l'appunto, giovani, oltre che musicisti. Ma i Beatles, con il loro ottavo Lp, fanno qualcosa di più: influenzano a loro volta, prepotentemente, le mode musicali a venire.

 

Martin, dunque, illustra al lettore la strategia compositiva scelta e poi utilizzata per dare vita a questo notevole - "rivoluzionario e unico", direbbe lui - Lp dei Beatles. In effetti, come abbiamo anticipato in apertura, George Martin è l'unico che possa farlo con cognizione di causa, essendo egli, a differenza dei quattro componenti del gruppo, un valido musicista, un esperto conoscitore del mondo della cosiddetta musica colta ma, soprattutto, il produttore nonché consulente musicale dei Fab Four fin dal 1962. Quando perciò si dice che era "il quinto beatle" non lo si dice di certo a caso, o a sproposito. Era proprio così. È lo stesso George Martin a ricordarcelo quando sottolinea il ruolo da lui svolto nel processo di costruzione dei brani da inserire negli album della band o da pubblicare in versione 45 giri. Siamo nel capitolo 8, e Martin scrive: "Le mie personali specialità erano le introduzioni, le conclusioni, e gli assoli. Quando arrivavano da me con una canzone, mi mettevo a riflettere su come arrangiarla in modo che partisse nel modo migliore, avesse qualcosa di interessante nel mezzo, e finisse bene. In genere una canzone pop va costruita partendo da una strofa iniziale, che generalmente non è particolarmente lunga, poi c'è bisogno di un inciso, di un assolo di chitarra, di un'altra strofa che si ripete e di una conclusione. Una formula decisamente semplice, ma contavano su di me per realizzarla al meglio" (p. 96). Più chiaro di così...

Nel 1967 gli arrangiamenti delle canzoni dei Beatles diventano assai più sofisticati, come testimoniano brani simbolo - veri e propri classici della musica rock - quali "Strawberry Fields Forever" e "A Day In The Life", il primo dei quali non venne incluso in "Sgt. Pepper", insieme a "Penny Lane", solo perché entrambe le canzoni erano già state pubblicate in versione 45 giri, e dunque una loro eventuale aggiunta alla scaletta dell'album "sarebbe stato come chiedere alla gente di pagare due volte la medesima cosa" (p. 40).
Arrangiamenti sofisticati e, per usare un termine che ricorre spesso - e a ragion veduta - nel libro, sperimentali, come ad esempio (uno fra i tanti) la richiesta, continua, di John Lennon di cambiare la velocità di registrazione della propria voce in modo da distorcerla o alterarla. Un processo, in verità, iniziato l'anno prima con "Revolver" e in particolare con il brano "Tomorrow Never Knows", definito da Martin "una canzone strana, divertente da realizzare, all'interno di un album che dette il via a quel tipo di registrazioni sperimentali che avremmo usato per Pepper. [...] Fu un happening di tape loop, inseriti mentre tutti noi muovevamo cursori in modo assolutamente casuale, e volenti o nolenti fu un evento irripetibile" (p. 99).

 

Il risultato delle sperimentazioni realizzate all'interno di uno studio di registrazione, però, se da un lato fu innovativo e artisticamente affascinante, coinvolgendo nel 1967 anche gli artisti grafici che si occuparono della splendida copertina multicolore e multi-personaggi di "Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band" (Martin ne parla nel capitolo 14, intitolato, semplicemente, "La copertina"), dall'altro precluse ai Beatles, se mai ne avessero avuto il desiderio, la possibilità di suonare dal vivo le loro nuove composizioni. E questo vale per "Tomorrow Never Knows" così come per la maggior parte di "Revolver" e di (pressoché tutto) "Sgt. Pepper".
A proposito di sperimentazioni va aggiunto che fu fondamentale, e George Martin lo ha ricordato più volte nelle pagine del libro, il ruolo dei tecnici del suono degli studi Emi di Abbey Road, Geoff Emerick e Ken Townsend, senza i quali, con ogni probabilità, un album come "Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band" non sarebbe potuto essere neppure concepito.
Martin ovviamente continua, anche in questa fase, a dare il proprio contributo creativo agli arrangiamenti delle canzoni di Lennon, McCartney e - più di rado - Harrison, sovente con l'ausilio di orchestrali da lui diretti e, quando necessario, suonando personalmente il pianoforte e altri strumenti a tastiera, come nella citata "Penny Lane" e poi in "All You Need Is Love", "Fixing A Hole", "Being For The Benefit Of Mr. Kite!", "Lovely Rita" e "Getting Better", le ultime quattro dal 33 giri "Sgt. Pepper". E anzi, "siccome i Beatles avevano cominciato a farsi beffe di tutte le regole precedenti in fatto di musica pop, questo mi permise di essere totalmente libero di fare quello che più amavo: sperimentare, costruire immagini sonore, creare un'atmosfera particolare per una canzone, tutte cose che comunque avevo sempre desiderato fare. Il nostro fu un matrimonio molto felice. Non dovevo chiedere il permesso a nessuno: era una cosa meravigliosa quell'autonomia, quel potere. Finché ognuno di noi cinque era d'accordo, chiunque altro poteva pure andare al diavolo!" (pp. 100-101). Notare come Martin usi in modo del tutto naturale il "noi" e addirittura l'"io" quando si riferisce alla fase preparatoria e poi realizzativa delle composizioni dei Beatles. In questo senso non c'è dubbio che il produttore inglese si sentisse, in generale, parte integrante del progetto Fab Four, e, in qualche caso, persino come un elemento imprescindibile dello stesso. Quel "finché ognuno di noi cinque era d'accordo" vale, a mio parere, più di centinaia di disquisizioni accademiche per comprendere la natura e, per così dire, la "messa in opera" della musica contenuta nei dischi dei Beatles.

 

Il libro, ottimo per quel che riguarda la parte analitica riferita al 33 giri "Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band", presenta invece dei limiti per quel che concerne il contesto storico nel quale collocare artisticamente i quattro musicisti rock inglesi, sia considerati come gruppo e sia in quanto singoli artisti. Martin qui perde purtroppo di vista l'oggettività del suo modo di ragionare, in generale chiaro e impeccabile, lasciandosi andare a incensamenti esagerati e a tratti paradossali. Per esempio, parlando del suo paese e degli anni 60, egli sostiene che "l'Inghilterra, in quei giorni, era il posto giusto", e ricorda come "ogni settimana, quasi ogni giorno, dal 1963 in poi, un nuovo gruppo incredibile suonava in qualche locale; non vecchie glorie che riproponevano un vecchio sound, ma gente come i Kinks, i Rolling Stones, i Procol Harum, gli Who" (p. 16). Ora, come è evidente a chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la musica rock degli anni Sessanta, in questo passaggio, così come del resto in altri punti del volume, Martin incappa in una serie di lapsus di natura "storica" a dir poco preoccupanti, dimenticandosi colpevolmente di citare gruppi come gli Yardbirds dei chitarristi Eric Clapton e Jeff Beck - molto probabilmente la migliore formazione britannica di rhythm'n'blues della prima metà del decennio (gli Yardbirds verranno poi ricordati a pagina 54, unica volta in tutto il libro) - i Traffic di Steve Winwood e persino i Pink Floyd, per non parlare del sommo Jimi Hendrix, citato nel libro una sola volta, quasi che si trattasse di uno dei tanti chitarristi elettrici che, nel corso degli anni Sessanta, affollavano il grande circo della musica rock. Tra l'altro il primo epocale album di Jimi Hendrix, registrato con la Jimi Hendrix Experience e intitolato "Are You Experienced?", vide la luce prima del beatlesiano "Sgt. Pepper".
Insomma, pare che negli anni Sessanta ci fossero soltanto i Beatles, i Rolling Stones (una band, questa, tra l'altro nettamente inferiore agli Yardbirds da un punto di vista tecnico) e pochissime altre formazioni, tutte inglesi, a contendersi il ruolo di alfieri nel panorama in rapida mutazione della musica rock.

Analizzati poi singolarmente, Martin tende a considerare John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr come degli straordinari musicisti, tra i migliori degli anni 60. McCartney viene a un certo punto definito addirittura come "uno dei più grandi bassisti del mondo" (p. 62), e non se ne capisce davvero la ragione, a meno che Martin non si sia preso la briga di ascoltare i dischi di tutti i gruppi rock più noti degli anni 60, che erano centinaia, facendo un confronto tra le parti di basso suonate da Paul McCartney e quelle eseguite dai bassisti di tutte le altre band, e sia giunto infine, per questa strada, alla conclusione che McCartney è stato uno dei più grandi. È molto probabile, tuttavia, che non lo abbia fatto. Sicuramente Martin non ha mai ascoltato con attenzione i dischi dei Grateful Dead, altrimenti si sarebbe reso conto che perlomeno Phil Lesh, come bassista, e restando in ambito rock, era parecchio più grande di Paul McCartney (e dunque se Paul McCartney era "uno dei più grandi bassisti del mondo", allora Phil Lesh era come minimo di un altro pianeta! Di Lesh e dei Grateful Dead si ascolti, giusto per avere un'idea delle doti, eccellenti, del musicista statunitense, la lunga "Dark Star", celebre esempio californiano di improvvisazione "acid rock" tratto dall'album del 1969, "Live/Dead"). Neppure di Jack Bruce deve aver ascoltato molto George Martin, e infatti i Cream, il power trio britannico per eccellenza degli anni Sessanta, non vengono mai citati nel libro (il compianto Hugh Hopper, bassista dei Soft Machine tra il 1968 e il 1973, una volta citò proprio Bruce, insieme a Jaco Pastorius e altri, parlando dei bassisti elettrici che, a suo avviso, hanno dato il maggior contributo all'evoluzione dello strumento).

Un discorso analogo vale per George Harrison, del quale Martin menziona l'"incredibile lavoro di chitarra sui dischi dei Beatles" (p. 123). Anche qui, con tutta evidenza, Sir George esagera ingigantendo implicitamente, attraverso l'enfasi delle sue parole, le qualità chitarristiche di Harrison, non tenendo conto del fatto che a partire dal 1964-65 diversi pregevoli chitarristi rock avevano cominciato a esibirsi regolarmente nei locali londinesi e delle altre città della Gran Bretagna infiammando il pubblico con performance esplosive e di livello tecnico notevole. E infatti, a testimonianza dello scarso rigore con il quale George Martin affronta un tema importante come quello dei "rapporti con i contemporanei", Eric Clapton e Jeff Beck, solo per dirne un paio, non vengono mai citati nel volume. In compenso riceve ben due citazioni, nel diciannovesimo e penultimo capitolo, Frank Sinatra (p. 178 e p. 179).

 

Rimane da vedere ora la questione del perché un libro sui Beatles scritto dal "quinto beatle" abbia dovuto attendere la bellezza di quindici anni per una traduzione italiana. Semplice sbadataggine? Pigrizia? Non credo. Due esempi aiuteranno a chiarire meglio il mio punto di vista.

Mark Lewisohn, un attento studioso delle incisioni discografiche dei Beatles, ma pressoché sconosciuto in Italia fino al 1990, si vide tradurre nella nostra lingua il suo "The Complete Beatles Recording Sessions. The Official Story of The Abbey Road Years" - da noi "Beatles. Otto anni ad Abbey Road", Arcana editrice - due anni dopo la pubblicazione nel Regno Unito, avvenuta nel 1988. Quasi subito, dunque. Più fortunato di lui è stato però Ian MacDonald, anch'egli studioso dei Beatles e ormai notissimo a tutti i fan dei Fab Four e non soltanto a loro. MacDonald ebbe l'onore di una traduzione italiana del suo "Revolution in the head" - in Italia "The Beatles. L'opera completa", edito da Mondadori - lo stesso anno dell'edizione britannica, cioè nel 1994. Come mai, invece, al libro di George Martin nessuno ha rivolto la propria attenzione per tre lustri di fila? Io ho la mia idea, che è molto semplice. George Martin, a differenza di Lewisohn e MacDonald, è un musicista, perciò quando parla di una canzone o di un album tende a usare un linguaggio musicologico a cui i semplici fan del rock non sono abituati, e soprattutto fa uso della notazione musicale per illustrare meglio i concetti espressi a parole. Nel suo libro infatti, diversamente da una qualunque altra biografia sui Beatles di ampia o media diffusione, ci sono degli esempi su pentagramma, tre per l'esattezza, di quattro battute ciascuno. Queste dodici battute complessive indicano: 1) i primi accordi di "Strawberry Fields Forever" (p. 29); 2) l'inizio di "Lucy In The Sky With Diamonds" (p. 121); 3) la melodia di "A Little Help From My Friends" (p. 162), un brano cantato - fenomeno raro nella discografia dei Beatles - dal batterista Ringo Starr. È chiaro che solo chi conosce la musica sarà in grado di capire che cosa vogliono dire quelle linee e quegli spazi con dentro/sopra/sotto dei segni rotondi, o di altra forma, più o meno neri. Ma siccome in Italia la cultura musicale, specialmente pop e rock, è da sempre attestata a un livello estremamente basso, solo in pochi riescono a decifrare un siffatto linguaggio, che nel caso dei Beatles, tra l'altro, non è neppure, in generale, particolarmente complesso. Tutto questo le case editrici, il cui principale obiettivo consiste nel vendere un prodotto (né più né meno che le case discografiche), lo sanno benissimo, dunque difficilmente si arrischiano a pubblicare libri che, a causa degli esempi musicali, potrebbero spaventare anche i lettori più accaniti, dissuadendoli dall'acquisto. Di conseguenza passano gli anni e i lustri senza che succeda nulla.

 

Chiudo a tal proposito non con George Martin bensì con le parole, piuttosto amare, del giornalista musicale e scrittore Franco Fayenz, che sottoscrivo dalla prima all'ultima sperando che possano suscitare una qualche riflessione nei tanti lettori appassionati di musica, sia essa rock come di qualunque altro genere: "L'ascoltatore totale [...] se vorrà cavare dalla musica tutto il succo possibile dovrà alfabetizzarsi, avere familiarità almeno con uno strumento ed essere capace di seguire un concerto sulla partitura. L'invito va rivolto specialmente agli italiani, quasi tutti ciechi di fronte a un pentagramma. La musica, sia pure da dilettanti, bisogna saperla fare" (cfr. Franco Fayenz, "La musica jazz", Il Saggiatore, Milano, 1996, p. 89).

(01/11/2010)