Doppio appuntamento con la nostra rubrica. Carlo Massarini racconta (e fotografa) due mostri sacri: Roger Waters, alle prese con la tappa milanese del nuovo tour di "The Wall", e John Mayall, re del blues, che, a 75 anni suonati, si esibisce con immutata verve all'Auditorium di Roma.
Roger Waters
The Wall
Mediolanum Forum di Assago (Mi)
4 luglio 2011
Album concettuale e auto-terapeutico se mai ce n'è stato uno, "The Wall" è un lavoro quasi esclusivamente da attribuire a Roger Waters, quando i Pink Floyd erano (ma presto non sarebbero più stati) ancora quattro ed erano indiscutibilmente sul podio dei gruppi rock.
Lo spunto nasce nell'ultima data del loro tour di due anni prima, quando a Montreal un gruppo di fan davanti schiamazza fino a spingere Waters a sputargli addosso (l'anno era sì quello del punk, ma dubito che quella fosse la intenzione estetica...). Roger nel backstage pensa che gli stadi non gli piacessero più, anzi: avrebbe volentieri costruito un bel muro fra la band e "la gente".
Ma l'opera (sontuosa nelle dimensioni, allora su due long-playing) diventa poi una vera seduta auto-psicanalitica, prendendo molti spunti dalla sua vita personale di "figlio della guerra" (come tutta la generazione rock degli anni 70, del resto): la morte del padre - che non conobbe mai - pilota della Royal Air Force nella battaglia di Anzio del '44; l'educazione repressiva e brutale nei College inglesi e una madre esageratamente soffocante.
Limato e riscritto il concept con il produttore Bob Ezrin, "The Wall" fu presentato ai compagni come si fa con un testo teatrale - letto ad alta voce - e fu evidente a tutti che le 40 pagine della trama erano materia straordinaria. E così fu il prodotto finito, uno dei grandi dischi del tempo.
Ne fu fatta una versione live di grande fantasia teatrale, poi un film misto animazione/realtà (il protagonista, Pink, era un giovane Bob Geldof), e nel tempo - e nella mente dei fans - è sempre rimasto IL disco di Waters, padrone assoluto e risoluto. Era la sua redenzione esistenziale, la sua catarsi, la sua elaborazione di un'infanzia che aveva rischiato davvero di isolarlo per sempre dal mondo. Perché Il Muro divenne la metafora della separazione, della chiusura, dell'isolamento di ognuno di noi - potenzialmente - di fronte alle emozioni troppo forti da accettare, e delle repressioni troppo forti da sopportare.
Portato in scena con una lenta costruzione di blocchi di cartone che, a metà show, bloccavano totalmente la band dietro un gigantesco muro, che alla fine crollava con spettacolare effetto, la sua consacrazione avvenne nel 1990, quando nella zona di nessuno fra la Porta di Brandeburgo e Potsdammer Platz, a pochi metri dal vero Muro di Berlino appena caduto, Waters (ormai ben fuori dai Floyd) lo inscenò con megaproduzione e cast delle meraviglie: Joni Mitchell, Van Morrison, Sinéad O'Connor, Cyndi Lauper, Marianne Faithfull, Scorpions, tre membri della Band. Mai simbologia fu più azzeccata. Anche se i Muri, valga per tutti quello palestinese-israeliano, si continuano a costruire.
Certe cose, lo sappiamo bene, non muoiono mai. E non mi riferisco tanto all'amore per una band molto amata in Italia che ormai non esiste più, quanto ai sentimenti e alle vibrazioni profonde che "The Wall" porta in scena: la difficoltà di crescere, la viscosità dei legami familiari, l'alienazione, l'odio per i totalitarismi e il loro prodotto primo, la guerra. Il personale diventa universale, senza tempo.
Il lungo tour mondiale con cui Waters e la sua band di superturnisti (suono potente come quello dei Pink Floyd originali, magari qualche raffinatezza solista di Gilmour in meno) riporta in scena a distanza di vent'anni la sua opera più personale è un successo annunciato. Grandi spazi e Palasport, del resto mica si può innalzare un muro in teatro, no? Lo spettacolo è grandioso, ricco di simbolismi, ma esplicito e terribile nel mostrare "l'aggiornamento" da nuovo millennio: non più il Vietnam e il Nazismo, ma Afghanistan, e Iraq, e Iran, e gli altri luoghi di morte e sofferenza dei nostri anni.
L'inizio è lo stesso, i bombardamenti e un aereo vero che attraversa il Forum e plana dietro al Muro che a poco a poco si comporrà, quasi senza farsene accorgere. Mitragliatrici tutt'intorno e immagini di battaglia nei cieli. Il padre Eric Waters, che nell'intervallo verrà proiettato sul muro insieme agli infiniti caduti di guerra, ci riporta alle battaglie sui cieli di Inghilterra. La storia può cominciare, e appena il ragazzo è in età, il terribile Teacher compare, gigantesco e incombente, su un'intera scolaresca che arriva sul palco in uniforme, solo per ribellarsi: una maglietta, un messaggio: "Fear builds walls". La creatura, frutto della visionaria fantasia di Gerald Scarfe e realizzata per i cartoon del film dell'82, animata e inquietante, ondeggia e si inarca, aggredisce e si ritrae, mentre quel coro, il pezzo forte, sale altissimo... Teacher! Leave them kids alone!
Da lì in poi è un viaggio, articolato e spettacolare, che ruota su un'elica a due catene: l'alienazione personale, e quella planetaria, fatta di brutalità, guerre, violazioni dei diritti umani. In vent'anni abbiamo avuto guerre violente, o striscianti, e ci sono i volti, i nomi, le date della morte, le foto della disperazione, dell'impotenza, della paura. Il momento più emozionante, per me: una bambina, americana, che impazzisce di gioia quando vede il papà tornato salvo a casa. Il muro ormai quasi terminato è uno schermo dilatato, mega-Cinemascope. Gli aerei sganciano, invece che bombe, simboli: la Shell, la Mercedes, il Dollaro, la Croce, la Falce e Martello. Ogni arma attivata, ci ricorda una frase di Eisenhower, il Generale americano della Seconda Guerra poi eletto Presidente, è una sottrazione di cibo per gli affamati, di protezione per quelli lasciati al freddo. Il Muro sale e si chiude, come a lasciare fuori immagini e violenze, a potersi isolare e sentirsi "comfortably numb", piacevolmente anestetizzati. Brano gentile, quasi acustico, un morbido nirvana che accoglie come un bozzolo il piccolo spaventato che è in ognuno di noi.
Is there anybody out there? Si chiede all'inizio del secondo tempo, in altre parole il disco 2. E il Muro comincia lentamente a aprire una finestra, a offrire qualche crepa. Riportate a casa i ragazzi! Alla fine, dopo la lunga e drammatica parodia del totalitarismo con gli eserciti di martelli, Waters in nero cappotto di pelle e berretto simil-nazi, mentre i cartoon di Scarfe rappresentano le mostruosità dell'animo umano, i grandi mattoni crollano, crollano le mura come quelle di Jericho, forse anch'esse esplose per una musica capace di abbattere muri invisibili. Il cerchio è completo, chiamiamolo lieto fine, metafora compiuta. La marea del destino si è invertita, e la band - solo chitarre acustiche e voci in mezzo alle "rovine" del crollo - sfilano via sorridenti, uno ad uno, presentati da Roger che rimane, ultimo, a godersi l'applauso liberatorio.
"The Wall" rimane grande musica, ci riporta a un'epoca in cui il grande rock aveva ambizione creativa, spessore, più livelli di interpretazione, intimista e di massa. Intorno a noi, invece, cos'è cambiato? La consapevolezza, l'esperienza del terrore, forse. L'alienazione, la spersonalizzazione, quelle sembrano addirittura cresciute. "The Wall" è show business con un messaggio, un intento, una profondità. Bello spettacolo che sa anche farti riflettere, e ancora estremamente attuale. Purtroppo.
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John Mayall
Auditorium Parco della Musica
Roma
27 giugno 2011
L'Università è sempre aperta. Settantacinque anni non sono pochi, neanche per un bluesman - che non deve fare il fico, saltare qua e là, insomma fare il divo. 75 anni! Il rettore dell'Università del Blues Inglese, occhiali e capelli bianchi e pony tail, ancora capace di soffiare dentro l'armonica in quei lunghi assolo che lo hanno reso famoso, è ancora un piacere da vedere e sentire.
Tutto meno che una serata revival, con nella mente tutti i laureati, da Eric "Slowhand" in poi. Fedele alla regola "sul palco non si invecchia mai", gira con un power trio di buoni strumentisti, morbidi o belli duri a seconda delle circostanze (del resto, tutto si può dire meno che non se li sappia scegliere bene), e a giudicare dai brani nuovi anche la sua vena compositiva non si è inaridita.
Pesca anche nel suo vecchio repertorio ("California", dal leggendario "Turning Point" del '69), come anche fra classici delle negro music prima dell'esplosione del r'n'r e del blues bianco ("Parchman Farm" di Mose Allison, un jump blues di Louis Jordan), divertendosi, citandosi, lasciando spazio per applauditi i break strumentali, sempre comunque consoni al progetto. Con l'aria da chi si diverte ancora, sempre fedele a quelle 12 battute che - è evidente - sono tutto quel che serve. 75!.... hey, Vasco, hai sentito? Te ne dà 15, ed è felice così. Inossidabile British Generation degli anni 60. Solo il Signore li può far smettere, ma forse anche Lui - a pensarci bene - non sa perché dovrebbe.
God bless you, vecchio capitano di ventura della nota blu, e già che ci siamo, O Lord, continua a benedire anche il blues. A 100 anni dagli inizi, ne abbiamo ancora tanto ma tanto bisogno.
E, a proposito, ciao Ernesto, c'eri anche tu nella calda aria di un'estate romana.
Foto di Carlo Massarini