The 13th Floor Elevators

Easter Everywhere, l'apoteosi psichedelica di Roky Erickson & C.

L’entrata del gruppo texano The 13th Floor Elevators nell'universo psichedelico durante l’estate-autunno 1966 rappresenta la naturale evoluzione di una impostazione sonora che, nella prima parte dello stesso anno, si era mossa nei distorti meandri di un garage rock sperimentale e di notevole qualità.
Dopo un singolo di mediocre successo commerciale, ma di pregevole fattura (“You’re Gonna Miss Me”), nell’ottobre 1966 la band pubblica un album di grande importanza storico-musicale, “The Psychedelic Sounds Of The 13th Floor Elevators”, facendo ingresso, con alcune delle tracce in esso incluse, nella psichedelia underground.
Tra la fine del 1966 e l’inizio del ’67, la formazione si sposta in California per una serie di concerti che la pone in contatto con il rock psichedelico della West Coast, il quale muoveva proprio allora i suoi primi elettrizzanti passi. Assorbendo questo affascinante influsso, il suono del gruppo, già pesantemente influenzato dall’abbondante assunzione di Lsd, sfocia definitivamente in atmosfere pienamente lisergiche, senza perdere però in ritmo e consistenza.
Due membri del quintetto originario, Ronnie Leatherman (basso elettrico) e John Walton (batteria) lasciano questa entusiasmante avventura musicale nel corso del ’67. Saranno sostituiti rispettivamente da Don Galindo e Danny Thomas. Il resto della line-up (Roky Erickson, chitarra ritmica, voce solista, armonica; Satcy Sutherland, chitarra elettrica solista; Tommy Hall, electric jug) accoglie i nuovi componenti procedendo a registrare il secondo episodio della discografia: “Easter Everywhere”, inciso dopo l’estate 1967 per poi essere immesso sul mercato americano in novembre (circa quarantatré minuti di durata).

Il materiale incluso in questo magnifico Lp è prevalentemente il risultato della luminosa ispirazione di Erickson, autore, per quanto riguarda la musica, di sei delle dieci tracce. Le altre composizioni si suddividono tra due cover (“(It’s All Over Now Baby Blue” di Bob Dylan e “Slide Machine” di Powell St. John, un folksinger amico della band) e due brani da attribuire al chitarrista Sutherland (“Nobody To Love” e “I’ve Got Levitation”). Ne scaturisce un rock psichedelico underground che trascrive le acide partiture elaborate dai Jefferson Airplane e dai Moby Grape accentuandone la carica melodica e distorcendone ulteriormente i contorni.
L’esperienza artistica recentemente acquisita consente alla band di compiere un passo in avanti rispetto al disco d’esordio, distaccandosi dai residui riferimenti rhythm and blues e garage rock per esplorare un rock lisergico, spiccatamente originale e maggiormente compiuto.
Facendo leva su una scrittura maturata e diversificatasi nell’anno intercorso dalle registrazioni di “The Psychedelic Sounds Of The 13th Floor Elevators”, Roky Erickson raggiunge in “Easter Everywhere” il picco del suo estro musicale e delle sue ottime capacità compositive. Ciò è evidente oltre ogni dubbio in due brani: “Slip Inside This House”, che apre l’Lp, e “Postures (Leave Your Body Behind)”, che ne decreta la fine.
La prima si snoda per circa otto minuti in un flusso magmatico sovrastato da coinvolgenti ambienti melodici (strofa-bridge-ritornello). Il punto più alto della composizione si ravvisa nel middle eight, ad esempio dal minuto 2.05 al minuto 3.03, suddiviso a sua volta in due eccezionali segmenti distinti. Se la prima parte del middle eight (ad esempio, dal minuto 2.05 al minuto 2.35) denota un carattere combattivo, sospinta da incalzanti coppie di ruvidi accordi, la seconda parte (ad esempio, dal minuto 2.36 al minuto 3.03) si dilata in malie psichedeliche irresistibilmente seducenti.

13th Floor Elevators - Easter Everywhere

 

Pur mantenendo la psichedelia come fantasioso ancoraggio, “Postures (Leave Your Body Behind)” determina un completo cambio di atmosfera, questa volta vivace e solare nel suo andamento deliziosamente irregolare e melodico (nella vena della stupenda “China Cat Sunflower” dei Grateful Dead, scritta pochi mesi dopo). Qui, Erickson decide coraggiosamente di inserire due middle eight diversi tra loro (ad esempio, dal minuto 0.57 al minuto 1.13 il primo e dal minuto 2.21 al minuto 2.44 il secondo) da alternare alla classica sequenza strofa-ritornello. La coesistenza di quattro sezioni differenti che si avvicendano ininterrottamente si tramuta in una danza sognante, che brilla di serena elettricità e contagiosa inventiva. I sei minuti e mezzo di questo incantevole brano scorrono con gaia eccentricità: una parata variopinta che si snoda per le strade di un ritmo disteso, diseguale e accattivante, esibendo abiti cuciti con note attraenti e trascinanti.
Gli altri sei numeri di rock psichedelico - “Slide Machine”, “She Lives (In A Time Of Her Own)”, “Nobody To Love”, “It’s All Over Now, Baby Blue”, “Earthquake” e “I’ve Got Levitation” - non sfigurano affatto nel tingere di emozioni irreali e caleidoscopiche l’approccio arrembante dei 13th Floor Elevators. Cori suadenti si contrappongono a distorsioni abrasive, note ondeggianti nel loro stesso riverbero fronteggiano suoni provenienti da altri mondi, il tutto tenuto assieme dal comune denominatore di strutture musicali solide, ben orientate e prive di eccessi labirintici. Questi pezzi ci trasportano in un viaggio che spesso accelera lungo misteriosi avvallamenti sonori, dove le scabre alterazioni delle chitarre insidiano melodie dinamiche e fascinose.
Tra le canzoni appena citate, risalta la sublime trasposizione di “It’s All Over Now, Baby Blue” (qui denominata solamente “Baby Blue”), originariamente registrata da Bob Dylan per l’illustre capolavoro del 1965 “Bringing It All Back Home”. La poetica dylaniana viene egregiamente sfumata dalle eteree allucinazioni del 1967, le quali ne rallentano il tempo, affondandola in una malinconica tessitura formata dall’intreccio di due chitarre elettriche soliste. Inoltre, la performance vocale di Erickson, che intona il testo abbreviandolo e modificandolo nell’ordine dei versi, muta la disillusa rassegnazione narrata da Dylan in una accorata e costernata invocazione, lanciata disperatamente contro il sordo firmamento. In questa cover, i 13th Floor Elevators esprimono l’estatico rapimento che la poesia raggiunge nell’incontro con l’istinto.

Roky Erickson si spinge in modo molto persuasivo anche su altri terreni, portando a compimento questo disco con due tracce che fuoriescono dal paradigma psichedelico meritando comunque entusiasti consensi.
La prima è “I Had To Tell You”: un folk-rock riecheggiante “She Belongs To Me” di Bob Dylan. Pur apparendo leggermente datata per essere stata registrata nel 1967 inoltrato, essa rimane un pezzo di struggente dolcezza, nel quale Erickson sovraincide una nostalgica armonica e si fa accompagnare alla voce dalla compagna di Tommy Hall (Clementine Hall).
La seconda, “Dust”, costituisce forse il momento migliore di questo album, una ballata cantautorale eccellente e significativamente articolata nello svolgimento: strofa, bridge, ritornello e post-chorus per terminare con due strofe di fila. L’esecuzione vocale, sentita e toccante, ne rende scorrevoli le appassionanti svolte tematiche: una profusione di idee vibranti, spontanee nella loro essenza ed efficaci nella forma, come stanze riccamente affrescate. Ad emergere è anche la rarefatta chitarra solista di Sutherland che dipinge con discrezione una scenografia di dolente bellezza.
Tra le rapide rotazioni del vinile si fa strada un suono stravagante e inusuale, utilizzato solamente dai 13th Floor Elevators e già comparso nel primo Lp della band (oltre che negli spettacoli dal vivo). Si tratta della electric jug, introdotta da Tommy Hall e da lui appositamente escogitata.
Lo strumento di partenza, una giara di terracotta o vetro (jug, appunto), risale alla Memphis degli anni 10 del ‘900 e attribuisce il nome alla fusione di country blues e New Orleans jazz detta jug band music. In questa colorita fusione di stili, la giara veniva usata espirando e facendo vibrare le labbra adiacenti alla sua imboccatura per riprodurre la sorda e grave vibrazione della tuba, troppo costosa per le possibilità economiche dei musicisti afroamericani dell’epoca. A questo “basso” improvvisato Hall aggiunge un microfono e una serie di vocalizzi, che vengono amplificati e distorti dalla giara per trasformarsi in una serrata cadenza di estroverse e irriverenti sfere elettriche.

L’esito sonoro di questa ardita e riuscita operazione di artigianato musicale costituisce l’eccentrico ornamento ritmico-melodico della maggior parte dei brani del disco, attraversati con fluttuante brio dalle ipnotiche correnti circolari create da Hall, tratteggiando sfumature inedite e sorprendenti sulla tela della psichedelia americana.
In aggiunta alla electric jug, un altro strumento, più convenzionale, caratterizza la dimensione ritmica di questo Lp. Si tratta dell’hi-hat (detto charleston in italiano), vale a dire la combinazione di due piatti sovrapposti orizzontalmente, collocati sul lato sinistro della batteria e, in questo caso, azionati con il piede sinistro per mezzo di un pedale.
Danny Thomas utilizza il regolare e sottile soffio metallico così ottenuto per definire, con elusiva costanza, l’impianto ritmico di otto dei dieci pezzi. Nessuna articolazione tecnica viene messa in evidenza, impiegando il medesimo stile percussivo conciso e solenne con il quale Maureen Tucker scandisce il meraviglioso Lp “The Velvet Underground And Nico”.
L’accostamento tra electric jug e hi-hat risulta particolarmente efficace in quanto i due elementi marcano il tempo delle composizioni completandosi vicendevolmente: in costante ebollizione l’una, imperturbabile nella sua espressiva ripetitività l’altro. Due voci del tutto diverse, ma complementari: da un lato il secco e inalterabile rigore delle lancette di un orologio cosmico, dall’altro la indaffarata agitazione di una incessante cascata sonora. Il dialogo ritmico che così prende vita è qualcosa di estremamente interessante, psichedelico e innovativo, oltre a sottolineare una creatività fuori dal comune da parte della band.

Nell’album, anche le due chitarre elettriche, ritmica e solista, entrano in una feconda collisione. Uno scambio reciproco dal sapore piacevolmente divergente, che vede Erickson distendere una coltre densa e distorta dal copioso riverbero, sulla quale Sutherland esegue aspri ricami e onirici arpeggi, eco di una musica indiana attualizzata dal rock. Una delle composizioni emblematiche di questo vivido contrasto chitarristico è “Earthquake”. In essa una chitarra (quella di Erickson) oscilla enigmaticamente sotto l’influsso dell’effetto tremolo, mentre il suono dell’altra (Sutherland) è fortemente frastagliato e pungente: due volti della psichedelia che si osservano riconoscendosi parte di una stessa filosofia sonora.
In altri casi (“Slide Machine”, “(It’s All Over Now) Baby Blue” e “Dust”) il dialogo tra gli strumenti dei due musicisti assume invece un aspetto diverso: alle ondulate e insinuanti evoluzioni raga rock predilette da Sutherland si contrappone delicatamente la chitarra acustica ritmica di Erickson.
Tra gli assoli, concepiti da Sutherland nello stile del rock lisergico californiano, citiamo “Nobody To Love”, dove un sinuoso pattern chitarristico percorre l’intera canzone fingendosi un sitar e chiamando in causa tanto i Byrds quanto i Buffalo Springfield. Altro assolo da menzionare è quello contenuto in “Slip Inside This House” (dal minuto 4.27 al minuto 4.54). Qui, un tema dal profilo indistinto e dall’incedere maestosamente evocativo si erge con lirica determinazione, come l’irrevocabile dispiegarsi del fato.

Una citazione a sé stante va certamente indirizzata al canto di Erickson, fattore centrale nell’ambito degli arrangiamenti di questo Lp e dal quale traspaiono tonalità suggestivamente discordanti: una viscerale emotività che risplende di vulnerabilità tanto quanto di minaccia. La sua vocalità, dal registro acuto e dal timbro insieme tagliente e pastoso, a metà strada tra Mick Jagger e Tim Buckley, suscita un incendio nel sottobosco della controcultura americana, bruciando di una intensità sacra e sacrilega nello stesso tempo. Ciò vale per nove delle dieci tracce, essendo “Nobody To Love” cantata con lisergico trasporto da Sutherland.
Da segnalare che nei brani “She Lives (In A Time Of Her Own)” e “I’ve Got Levitation” a suonare basso elettrico e batteria sono i precedenti membri John Walton e Danny Leatherman, in quanto incisi entrambi prima del loro abbandono in favore di Danny Thompson e Don Galindo.
La musica che abbiamo descritto si staglia in controluce su di un concetto di fondo, ideato da Hall, il quale comprende anche il titolo stesso e la copertina di “Easter Everywhere”. Esso è riassumibile in una personale e astratta elaborazione di spiritualità, un viaggio trasversale alle latitudini, tra Est e Ovest, contenente in sé induismo, cristianesimo, paganesimo, evitando però di tradurre questo afflato trascendente in anacronistiche regole e dogmi religiosi.
Un pensiero contemporaneamente alto e profondo, il quale si riflette con un bagliore surreale nei testi di sette delle dieci tracce (sei dei quali scritti da Hall). Le parole presenti nel disco si contorcono in immagini e frasi slegate tra loro, di stampo eminentemente psichedelico. Innalzando implicitamente l’uso di Lsd a mezzo con il quale raggiungere un livello inesplorato della propria coscienza, precluso a chi rifiuta questa radiosa illuminazione chimica, Hall intende partecipare alla frangia più estrema della controcultura statunitense. Sono esemplificatrici in questo senso “I’ve Got Levitation” e “Postures (Leave Your Body Behind”), entrambe incentrate, fin dal titolo, sull’abbandono della dimensione reale dell’esistenza per penetrare i misteri di quella metafisico-spirituale. A fare eccezione sono una manciata di canzoni d’amore (“Nobody To Love”, “Earthquake” e “I Had To Tell You”) i cui versi sono comunque stimolanti.

Per concludere, abbiamo di fronte un album rappresentativo della migliore psichedelia, superiore a classici ben più celebrati, un prodotto inconfondibilmente inserito nel clima del 1967 che, contemporaneamente, ci offre spunti cantautorali di fulgida bellezza. Un Lp enormemente sottostimato, collocabile al vertice della discografia dei 13th Floor Elevators, nonché tra i lavori migliori della storia del rock underground. Tutto ciò fa di “Easter Everywhere” un avvincente rock intarsiato di oniriche illusioni; una manifestazione dionisiaca e inebriante di arcano misticismo elettrico.
Purtroppo, nei mesi seguenti Roky Erickson inizierà a perdere lucidità a causa dell’abuso di droghe psichedeliche e dell’accanimento di leggi inique. Nel testo di “I Had To Tell You” egli sottovaluta, in una profezia amaramente errata, i suoi crescenti problemi personali: “Se hai paura che perderò il mio spirito, come il vino sprecato di un ubriaco, non pensarci neppure, mi sento bene”. Al contrario, il suo sarà un declino doloroso che si concluderà nel 1969 con la fine del gruppo e la temporanea uscita di scena del musicista, il quale è qui immortalato al suo massimo grado di espressività artistica.
Le vendite deludenti conseguite da questo splendido disco al momento della sua diffusione sul mercato e il riscontro tuttora tristemente inferiore alla qualità reale che detiene, impongono agli amanti della musica una sua urgente rivalutazione.

P.S. Avvertiamo il lettore che esistono diversi mixaggi di questo album, i quali corrispondono alle molteplici edizioni successive alla sua pubblicazione ufficiale. Diviene quindi indispensabile tenere conto di queste differenze e cercare con attenzione la versione in cui il suono è il più nitido possibile e gli strumenti sono equilibrati al meglio tra loro.

27/05/2025