Weezer

Pinkerton, un meraviglioso disco di cui vergognarsi

weezercoverDopo aver scritto la pietra miliare del “Blue Album” mi sono promesso e ripromesso di scrivere la monografia degli Weezer. Però sapete che c’è? Non se la meritano. Troppi dischi e troppi brutti.
Sono sicuro che Rivers Cuomo capirebbe. Si incazzerebbe, ma capirebbe.
Però alcuni dei quindici dischi che hanno dato seguito all’immortale esordio del 1994 meritano di essere raccontati: il poco profetico “Everything Will Be Alright In The End” del 2014, l’album bianco di due anni dopo e, perché no, il colpo di coda acustico “OK Human” di qualche anno fa. Ma soprattutto “Pinkerton”, il mio disco dei Weezer, prima che acquisissi l’ironia giusta per sentirmi vicino anche all’illustre predecessore. Perché “Pinkerton”, lo si voglia considerare un po’ meno bello o tanto bello quanto il predecessore, è a tutti gli effetti un passo indietro. Un ritorno.

Crucialità stilistica e grandiosità produttiva a parte, “Weezer” del 1994 fu un successo enorme. Singoli consegnati alla storia, melodie cristalline, ritornelli eterni, video (a cura di quel genio di Spike Jonze) in heavy rotation su Mtv e destinati a entrare nell’immaginario collettivo eccetera eccetera. Dopo nemmeno due anni dalla loro formazione, quel disco miracoloso strappò i quattro squinternati californiani dai palchetti di qualche confraternita alcolica e li proiettò direttamente nell’olimpo dell’alternative rock a stelle e strisce. Quando questo faceva i soldoni, peraltro. Del resto, con quei riff solari quanto fragorosi e quei ritornelli a uncino cantati da quella voce un po’ scema, una sorta di antidoto autoironico al serioso istinto drammatico del grunge, il contrario sarebbe stato impossibile.
A ben pensarci un successo così straripante non era il luogo mentale giusto per quattro studenti losangelini dal dubbio gusto in fatto di vestiario e dal bagaglio di ascolti college rock. “Pinkerton” non è dunque una sorpresa, ma una reazione quasi naturale a quanto successo. Un ritorno al passato. Alle sale prove scassate, alle moquette imbrattate di vomito, ai sogni bagnati di una post-adolescenza incazzata. Un fallimento annunciato. Un disco inevitabilmente da rinnegare. Fulgido e potente, rabbioso e incontinente. Necessariamente un unicum – come ci racconta tutto quanto sarebbe venuto dopo, a partire dal disco verde.

I quattro cazzoni che sbucavano dal blu della copertina di "Weezer" avevano lasciato il posto a un paesaggio invernale popolato da tristi figure che arrancano nella neve (si tratta di una stampa di Hiroshige, artista della scuola giapponese Ukio-e, quella di Hokusai per intenderci), le chitarre si erano irruvidite oltremodo e l’allegria contagiosa aveva fatto spazio a un’ironia sgraziata e incazzature psicotiche. È chiaro che una mossa del genere non avrebbe potuto non disorientare un mondo che stava ancora fischiettando "Buddy Holly" sotto la doccia.
A dispetto dello scarso successo di critica e di vendite ricevuto dal disco alla sua uscita, gli anni avrebbero però dato ragione a “Pinkerton”, che sarebbe stato presto considerato un capolavoro, alla stregua del suo predecessore. Intorno ad esso si sarebbe sviluppato un culto e band emo come i Jimmy Eat World lo avrebbero erto a punto di riferimento.
Ovviamente Cuomo non sarebbe stato d’accordo. Per lui “Pinkerton” è una vergogna. In un’intervista a Rolling Stone, lo avrebbe definito pressappoco come un’ubriacatura molesta di cui pentirsi il giorno dopo. E infatti il bassista Matt Sharp, identificato come il principale fautore del progetto, avrebbe lasciato la band poco dopo il tour promozionale e quest’ultima avrebbe evitato i brani del disco come si evita un herpes.

E io un po’ lo capisco, Rivers. Dicevo che “Pinkerton” era il mio disco dei Weezer e infatti un po’ me ne vergogno. Di quei giorni da studente medioborghese, nichilista e maledettista, che faceva sfoggio di cultura alternativa e ascolti sotterranei durante improbabili dj-set intramezzati da letture di stralci di Bret Easton Ellis, Marcel Proust e John Fante. Ci chiamavamo Durden e io il mio compare, che non nomino per evitare di venire cacciato dal gruppo come Sharp – o dall’amicizia, che per fortuna il duo non esiste più. Il culmine del nostro show era proprio la canzone che apre “Pinkerton”, “Tired Of Sex”. Il mio sodale la mixava mentre io mi denudavo svelandone il titolo scritto col rossetto sul mio torace secco e peloso.
Ecco, ancora una volta, io Rivers lo capisco. E Rivers capisce me. Non siamo più quegli studenti arroganti e idioti, almeno finché non decidiamo di svuotarci in gola una bottiglia di Talisker, ed è giusto ricordarcene con un misto di compassione e vergogna.

Ma veniamo alla musica: si tratta di un vero e proprio vertice degli anni 90 più rumorosi, nel quale l’attitudine per il suono in presa diretta di questa decade incrocia melodie travolgenti. Alla maniera schizofrenica dei Pixies e dei Pavement, ma con un’attitudine radiofonica più smaccata degli illustri ispiratori.
Si parte con una canzone geniale quanto semplice, la succitata "Tired Of Sex". Un basso gracchiante che si agita come un elefante in una cristalleria e una tastierina casareccia strombazzante guidano un testo strillato, spesso fuori sincrono, che lamenta il troppo sesso ai tempi del college. Letteralmente: “Lunedì mi faccio Jen, martedì Lynn e mercoledì Jasmine”. La triste verità è però racchiusa nel verso seguente: “Oh, why can't I be making love come true?”.
Si apre così un mondo, quello di "Pinkerton", fatto di illusioni disattese e cuori infranti. In poche parole: il mondo del passaggio all’età adulta. Dove gli istinti festaioli iniziano a cozzare con il proiettarsi del giovane adulto verso maggiore stabilità emotiva. Dove le notti in bianco spese a bere disperandosi per qualcosa per cui non ne vale la pena iniziano a sembrare troppe e a pesare come macigni.
Questo delicato limbo viene declinato dalle chitarre arrembanti di Sharp, da una batteria in quattro indiavolata e, soprattutto, dalla cantilena sguaiata di Rivers Cuomo. Trentaquattro minuti per dieci pezzi di power pop grinzoso e devastante. I singalong si sprecano, si potrebbe evidenziarne uno per brano senza difficoltà alcuna. Più numerose d’essi sono solo le donne, alcune con nome e alcune senza, che buttano benzina sul fuoco dell’esaurimento nervoso di River.

Mai come per questo disco sarebbe superfluo spaccare in quattro le canzoni e suggerire i suoi must listen: “Pinkerton” è un disco di punk rock duro e puro, i suoi brani non sono segnati da evoluzioni particolari o da soluzioni scenografiche. No, la sua grandezza è nella sua semplicità, nell’immediatezza, nell’urgenza travolgente. Nel fatto che ciascuno sarà libero di cantare a squarciagola il ritornello che sente più vicino, quello che sembra sbucato dalle proprie viscere, da una di quelle notti ai tempi dell’università.
Così come la traccia di apertura, anche la chiusura di questo disco, affidata alla dolente “Butterfly”, si distanzia però dal resto del pacco-canzoni. È infatti una fievole ballad per chitarra acustica e voce, dove Cuomo, mai prima d’ora così docile e pentito, rivolge le sue scuse agli oggetti dei suoi sfoghi furibondi e a capo chino s’avvia ad accettare finalmente le sue responsabilità.

Nel mezzo: chitarre a rotta di collo e voci singhiozzanti (“Getchoo”), concessioni beffarde alla rotondità melodica del disco blu (“No Other One”), dadaismo music-lirico (“El Scorcho”), bassi tonanti e strilla isteriche assortite (“Why Bother?”) e altre brutture ficcanti, istrioniche, sarcastiche. E, va da sé, commoventi.
A testimonianza di quanto sia cambiata la percezione di “Pinkerton” nel tempo, si può citare Rolling Stone. Alla sua uscita la rivista di musica americana lo definì “worst record of the year”, affibbiandogli zero stellette a corredo una recensione ferocissima. Per poi cambiare integralmente idea nel 2002, anno in cui lo avrebbe posizionato al sedicesimo posto della propria classifica dei migliori dischi di tutti i tempi. Reazioni schizofreniche a un disco schizofrenico. Chi non cambierà mai idea è Cuomo, così come io mi vergognerò sempiternamente dell’uso che facevo di “Tired Of Sex”.