“Go away. We want a grunge band.” Ad ascoltare Rivers Cuomo, lui e i suoi Weezer se la sono sentita dire spesso questa frase, quando cercavano disperatamente qualche data in giro per le venue di Los Angeles, rimediando più che altro porte sbattute in faccia. Eppure i quattro già avevano in repertorio pezzi come “The Sweater Song” o “Say It Ain't So”, roba che di lì a poco avrebbe fatto sfracelli, di critica e di pubblico.
Ma niente da fare, erano i tempi a cavallo tra il ’92 e il ’93 e il mondo (in particolare gli Stati Uniti) era assetato di grunge. Insomma, pensateci ai Weezer di quell’anno. Date un’occhiata attenta alla leggendaria copertina su sfondo blu di “Weezer”, se non li avete presenti. Niente camicie di flanella, niente jeans strappati all’altezza delle ginocchia e niente chioma selvaggia lasciata cascare selvaggiamente sulle spalle. Men che meno espressioni corrucciate, trasudanti sensualità e tormento. Al posto di tutto questo: quattro facce da coglioni sbucano fuori da tremende camicie rubate a papà e combinate ad anonimi pantaloni chino in tinta neutra.
Per non parlare della musica. Okay, le chitarre belle distorte c’erano, ma la rabbia? Dov’era la rabbia? E la capacità o condanna, chiamatela come volete, di dare voce alle angosce di una generazione? Anche il grunger più nichilista e ritorto su se stesso finiva in qualche modo con lo sfornare hit capaci di farsi carico, più o meno intenzionalmente, di una qualche fisima della Gen X. I Weezer di tutto ciò se ne fregavano, le loro canzoni rinunciavano a qualsiasi vezzo di universalità e non si facevano carico di nulla. Piuttosto borbottavano con ironia di quella gran stronza di una ex o dell’incidente d’auto di un fratello. Due tematiche queste che costituiscono buoni tre quarti della narrazione di “Weezer”, insieme ovviamente al trascorrere la giornata chiusi in garage a provare con la propria band. Insomma, tutto il contrario di quello che chiedeva il mercato. Perlomeno in apparenza, perché poi che il grunge e il rumoroso power pop dei Weezer fossero due facce della stessa medaglia, due reazioni opposte alla stessa insofferenza, viene da sé.
Era semplicemente il momento sbagliato, niente di più e niente di meno. Ma con le canzoni che Cuomo e gli altri si trovavano per le mani, era solo questione di aspettare un po’ di tempo e di azzeccare la giusta strategia di produzione, affinché le loro melodie e la loro irriverenza travolgente deflagrassero in tutte le radio e le tv del mondo; quasi come una reazione liberatoria alla cupezza dei vari Nirvana e Pearl Jam, la cui presenza prevaricante su Mtv sarebbe stata presto controbilanciata dalla geniale leggerezza dei video confezionati da Spike Jonze.
In effetti, una volta ottenute date in giro per i club alternativi della California, il nome dei Weezer cominciò a ronzare per gli ambienti giusti con insistenza. In breve tempo, il 25 giugno 1993, arrivò la firma con la Geffen. A quel punto la band aveva all’attivo già numerosi brani e molti altri erano in fase di scrittura. Per i quattro era un periodo di grande creatività, nonché di forte fiducia nei propri mezzi, tanto che avanzarono la pretesa di autoprodurre il proprio debutto. Questo sfizio, però, se lo sarebbero potuti togliere solo con il disco successivo, “Pinkerton”, poiché la casa di produzione californiana cassò l’idea e obbligò Rivers Cuono a indicare un produttore tra una rosa di nomi.
La scelta, invero molto fortunata, ricadde su Rick Ocasek dei Cars, dei quali viene da immaginare che i Weezer debbano preferire i primi dischi, piuttosto che la rivoluzione sintetica attuata da “Heartbeat City” in poi. Con la sua immensa esperienza, il veterano new wave di Boston non solo segnò indelebilmente alcune delle canzoni del “Blue Album”, nelle quali il suo tocco è assolutamente inconfondibile (pensate alle tastiere peperine che scintillano pimpanti lungo le strofe di “Buddy Holly”), ma portò in studio (gli Electric Studio di New York) tecniche e disciplina ancora ignote ai ragazzi. Ad esempio, a Cuomo e al bassista Matt Sharp fu fatta studiare e praticare con insistenza la tecnica dei Barbershop Quartet. Grazie a tutto questo esercizio, a Sharp fu presto possibile doppiare i ritornelli di Cuomo con coretti più alti di un’ottava; espediente che avrebbe rappresentato uno dei marchi di fabbrica della band. Ocasek convinse anche i chitarristi a sostituire i pick up sul manico con quelli sul bridge, trucco che avrebbe conferito brillantezza ai riff.
Non furono sessioni di registrazioni facilissime, tanto che la band entrò in studio con una formazione e ne uscì con un altra: un po’ per questo e un po’ per motivi familiari (la futura moglie aspettava un bambino) il chitarrista Jason Cropper lasciò il gruppo nel mezzo delle registrazioni. Jason fu presto sostituito da Brian Bell (attuale chitarrista della band), ma, stando allo stesso Ocasek, l’apporto di quest’ultimo al disco fu minimo, dato che fu Cuomo a ri-registrare (in un solo giorno) tutte le parti di chitarre di Cropper.
La cura Ocasek fu piuttosto invasiva, ma condusse la band a uno stato di forma invidiabile e, cosa ben più importante, a un suono sfavillante e peculiare, guidato da chitarre certamente scintillanti, ma sempre pronte a imbarbarirsi in fragorosi riff distorti a dovere. È il caso ad esempio del singolo “Say It Ain’t So”, i cui versi sono attraversati dal flebile riff di una chitarra con le corde che, quando vengono sfiorate, sembrano accendersi come lucine di Natale, salvo poi trasformarsi, per il ritornello, in una belva ringhiante. Molto divertenti, come del resto lo sono diverse altre storie dietro le canzoni di Cuomo, sono i fatti dietro al terzo singolo tratto dal “Blue Album”. Scritto a musica già ultimata, il testo di “Say It Ain’t So” (che inizialmente si riduceva a una riga contenente il solo titolo) parla del giorno in cui Rivers, rincasato da scuola, trovò una bottiglia di birra nel frigorifero e, temendo che il matrimonio tra la madre e il patrigno potesse finire a causa dell’alcolismo, così come era accaduto a quello con il padre, affrontò una mezza crisi di nervi. Ripreso in maniera minore o maggiore in quasi ogni brano in scaletta, il trucchetto à-la Barbershop Quartet è l’ingrediente magico della straordinaria e malinconica power ballad “The World Has Turned And Left Me Here”, dove Sharp fa il verso a Cuomo per tutto il pezzo conferendogli un retrogusto ironico e scanzonato.
Parlare dei primi due singoli estratti da “Weezer” senza fare riferimento ai loro leggendari videoclip diretti da Spike Jonze, rappresenterebbe un torto per due piccoli capolavori che hanno fatto la fortuna in egual misura della band e del regista. Del resto ci troviamo in piena Mtv golden age, un momento storico in cui un buon video poteva garantire alle band la tanta agognata heavy rotation e dunque tanta, tantissima visibilità. Per “Undone – The Sweater Song”, una canzone che a detta di Cuomo e dell’arpeggio emo che la introduce dovrebbe essere triste ma tutti trovano esilarante, Jonze optò per una messa in scena molto minimale. La band, debitamente piazzata davanti a un blue screen, avrebbe eseguito la canzone a velocità maggiorata circondata da un branco di cani randagi. Una volta rallentato il video, Jonze ottenne un effetto straniante: la band che suona la canzone al tempo giusto ma muovendosi in slow motion. Si tratta del primo videoclip in assoluto girato dalla band, che lo scelse in quanto unico, tra la ventina proposta alla Geffen, con un plot che non includesse un maglione (lo sweater del titolo).
Altrettanto semplice è l’idea dietro il video di “Buddy Holly”, possibilmente la più grande hit dei Weezer’, ovvero la band ripresa suonando sul palcoscenico del set originale dell’Arnold's Drive-In di "Happy Days". Tra footage originale della serie, cameo di Al Molinaro aka Al Delvecchio e costumi di scena vintage, il video è un tripudio di allegria e nostalgia così come la canzone che è chiamato a commentare. E anche questa la dobbiamo a Rick Ocasek, che ha dovuto combattere per convincere Cuomo a includere il pezzo in scaletta, giudicato dal cantante troppo cheesy per l’umore generale del disco. Ecco, se il buon vecchio Rick non fosse stato così caparbio, un’intera generazione di trenta/quarantenni si sarebbe risparmiata la vergogna di canticchiare almeno una volta a un karaoke o a una festa di compleanno su di giri quel “Oo-ee-oo/ I look just like Buddy Holly/ Oh-oh/ And you're Mary Tyler Moore”. Ma a noi trenta/quarantenni piace vergognarci, di tanto in tanto.
Introdotta da un proverbiale fraseggio di armonica (tratto distintivo dei primissimi Weezer), “In The Garage” è una vera e propria rivendicazione nerd da parte del gruppo, che in un testo divertente e vagamente romantico associano a una rock-band (loro stessi) un background fatto di fumetti, interminabili partite a "Dungeons & Dragons", una passione insana per i Kiss e chi più ne ha più ne metta. Come se a questo punto le cose storte per un disco rock rilasciato in piena era grunge non fossero già abbastanza, ci tocca aggiungere al novero il contenuto della opening track (“My Name Is Jonas”), probabilmente l’unica canzone della storia a parlare di problemi assicurativi (quelli del fratello di Rivers dopo un brutto incidente d’auto).
Chiude il brano più lungo del lotto (e della carriera dei Weezer), “Only In Dreams”. Otto minuti di alternative rock epico, imperniati su un giro di basso ipnotico e profondo di Sharp, metà dei quali impiegati a costruire la tensione prima del liberatorio assolo finale (probabilmente il migliore mai eseguito da Cuomo), che dà sfogo a tutta la rabbia e le frustrazioni latenti accumulate fino a quel momento.
Disco di platino quattro volte in patria, “Weezer” garantì a Cuomo e soci lo status di rockstar globali, situazione che si godettero per un paio d’anni con tutti i crismi, dalle ragazze agli eccessi. Qualcosa si ruppe presto, però, e come poteva non rompersi, data la natura geek dei quattro. Ne venne fuori un seguito (“Pinkerton”) che, registrato senza il filtro di un producer esperto come Okaseck, del “Blue Album” è la reazione uguale e contraria. Un disco strillato e con le chitarre scarnificate, che trasuda rabbia da ogni poro, strizzando l’occhio ai Pixies più contundenti e all’emo. Ma questa è un’altra storia.
10/03/2019