29/07/2018

Public Image Ltd

Rocca Malatestiana, Cesena


Quando si nasce in un angolo di mondo su cui i riflettori potrebbero posarsi solo per un malfunzionamento imprevisto, il bisogno di proiettarsi altrove (quantomeno con la testa) diventa un'ansia vitale, di quelle che trainano carrozze e vagoni. Commento o contraltare alle insoddisfacenti scene della nostra vita, la musica rimane lo strumento escapista per eccellenza, capace di disinnescare anche i più pericolosi ordigni esistenziali prima che qualcosa salti per aria.
Nel mio caso specifico, la fuga prediletta consisteva nell'ascoltare generi associati a frenetici scenari metropolitani, ovvero tutto quanto generasse attrito con l'ambiente protetto in cui vivevo: post-punk, new wave, hardcore e compagnia cantante mi affascinavano non solo per il simbolismo iconico e l'estro performativo, ma anche perché teletrasportavano la mia immaginazione in città che percepivo enormi, caotiche e violente. In ragionamenti simili abita sempre una componente di assurdità non trascurabile: per quale ragione annegare in qualche lurido slum dovrebbe essere una prospettiva preferibile al crescere sano in una tranquilla cittadina del Centro Italia? Ma da giovani, si sa, importa solo divincolarsi tra i quattro punti cardinali. Il quadro è completo se si somma quella cinica fascinazione per i bassifondi che attanaglia un po' tutti i borghesi: più si pesca nel torbido, più l'appagamento sale.

Pochi album assolvevano a questa contorta funzione con la stessa efficacia di "Metal Box". A partire da quel titolo lapidario: per un adolescente goffamente dark quale ero, l'idea di soffocare dentro una "scatola di metallo" aveva un sapore morbosamente eroico. Poi c'era quella confezione, che per essere goduta appieno avrebbe richiesto la copia originale, rigorosamente snobbata per rimanere in linea con la filosofia iconoclasta del gruppo. E c'era la musica, soprattutto: scurissima, angosciante, monocromatica, eppure così fantasiosa e piena di finestre su altri mondi, tra dub, psichedelia ed esotismi. Non dimenticherò mai il primo, fatale incontro con "Albatross": pensai che fosse l'incipit più rassegnato che un disco potesse avere, e lo penso ancora. Il tocco finale lo aggiungeva il mio sempiterno disprezzo nei confronti dei Sex Pistols (non mi soffermo su questo punto, che richiederebbe un articolo a parte oltre che un giubbotto antiproiettile): se i più erano arrivati ai Pil passando per la precedente esperienza del Marcio, io ero orgoglioso di considerarmi un loro supporter puro, accorso al tempio unicamente per le vicende post-78.

Già, era il lontano 1978 quando esordirono, 40 anni fa tondi tondi, celebrati nei mesi scorsi con un sontuoso box da cui questo tour prende le mosse. Quanti, all'epoca, avrebbero scommesso che una figura tanto autodistruttiva potesse avere una vita e una carriera così longeve? Eppure è ancora qua, il vecchio John, e a occhio e croce ci seppellirà tutti. Certo, negli anni ha convertito la sua foga in forme più addomesticate riuscendo a farsi apprezzare un po' da tutti, ma quel piglio strafottente non è mai venuto meno: a provarlo bastino le recenti dichiarazioni pro-Brexit/Trump, che hanno potuto sorprendere solo chi è assai poco avvezzo alla sgradevolezza dei punk old school. Se Lydon non mostra segni di cedimento, non si può dire lo stesso della sua band in cui, allo stato attuale, non figura nessuno dei componenti originali. In compenso, i supplenti convocati sono di prim'ordine: il chitarrista Lu Edmonds (già con Damned e Mekons), il batterista Bruce Smith (spina dorsale dei Pop Group) e il bassista Scott Firth (turnista che ha suonato un po' con tutti, da Steve Winwood a Elvis Costello passando per John Martyn).

Sin dal tardo pomeriggio, sotto una cappa torrida che l'ariosa Rocca Malatestiana riesce a malapena a stemperare, su un palchetto collaterale si susseguono ben quattro aperture: iniziano i Solaris, giovanissimo quartetto stoner-doom con voce melodica; è poi la volta dei J.D. Hangover, duo space-garage per chitarra slide, basso distorto e Roland TR-77, bizzarro ibrido tra Black Keys e Suicide; si prosegue con i Rainband, inequivocabilmente mancuniani tanto nei caschetti quanto nel colorato beat revival, che azzarda anche una corretta "Paint It Black"; infine arriva Alosi, nuovo progetto dell'ex-cantante dei Pan Del Diavolo, con il suo elaborato alt-rock. Strana scelta far piovere quattro comete psichedeliche prima di un meteorite post-punk, ma ci sta: in fondo, come già annotato, nella musica dei Pil sono più che ravvisabili aloni di quella tonalità. Piacevolmente scombinato anche il dj-set, che affianca senza soluzione di continuità i Grandaddy con David Lynch.

L'atmosfera cambia radicalmente quando mi sposto sotto al palco grande, dietro al quale troneggia icastico il mitico logo a forma di pasticca. Il sottofondo musicale si orienta verso un pulsare reggaeggiante, prima di sfumare in un solenne pad di archi sintetici che prelude all'ingresso dei quattro. Tunica nera sformata dai chili di troppo e un paio di occhiali a schermarne lo sguardo luciferino, Lydon è una sorta di ghignante anti-Buddha, un ironico Aleister Crowley col doppio taglio, piantato dietro un leggio aperto che fa tanto messale satanico. A lato del palco si dispone un misterioso pseudo-derviscio, forse il guru personale del cantante (da sempre affascinato dal misticismo islamico), che per l'intera durata dell'esibizione non si schioderà da lì senza muovere mezzo muscolo, sottolineando il clima arabeggiante già pronosticato dal saz imbracciato da Edmonds.

Si parte con una tesa "Warrior". Il leader gigioneggia per immedesimarsi nel titolo ma ciò non basta a intimorire i feedback delle spie, esorcizzati a mali estremi con esilaranti scongiuri. Problemi apparentemente risolti nella successiva "Memories", con la Les Paul mediorientale di Edmonds e un Lydon più melismatico che mai sopra un basso che non fa rimpiangere l'originale di Jah Wobble. Il cantante rimane tuttavia diffidente del lavoro dei fonici, chiedendo direttamente a noi se siamo soddisfatti del suono, e solo dopo aver ricevuto il nostro ok ci gratifica con una "The Body" muscolarmente Ebm nella sua compatta coralità.
Dopo il tramonto africano della ben più rilassata "One", è la volta di "Corporate", fustigata da una lancinante slide guitar mentre il basso si impala su una stessa, immobile nota. Tutti e due i brani sono tratti da "What's The World Needs Now", ultima raccolta di materiale inedito datata 2015, ma Lydon li interpreta in maniera opposta: nel primo si abbandona a un balletto kitsch, mentre nel secondo è un tripudio di ruggiti e gargarismi.

E' invece un concentrato di tutte le migliori virtù della band la classica "Death Disco", farcita dalla reiterata citazione tchaikovskiana di Edmonds dentro uno spesso panino batteria/drum machine. Il ponte, con la chitarra a echeggiare sotto un manto di luci fucsia prima di una vertiginosa impennata elettronica, è un grande momento di misticismo rock. Dopo aver provato a "fare amicizia con gli abitanti del luogo", pregandoci di ripetergli il nome della location e chiedendoci se "ne siamo orgogliosi", alleggerisce il tiro con "Cruel", tra i momenti più pop del loro canzoniere, in una versione malinconica senza essere sofferta. Più torva "I'm Not Satisfied", dove l'edera darkeggiante della chitarra rampica su un solido tronco industriale. L'accostamento tra le sperticate declamazioni del frontman e il coro robotico dei suoi sodali riassume un po' le due facce del loro programma, in cui minareti e ciminiere confondono spesso le loro sagome.

Il cambio di strumentazione che segue (Firth molla il basso per un clevinger, Edmonds riprende il saz ma lo pizzica con un archetto) sembra prefigurare qualcosa di grosso e l'inequivocabile intro di tamburi lascia ben pochi dubbi: la danza maori di "Flowers Of Romance" è l'apice drammaturgico di Lydon, che volteggia sinuoso su quel tapis roulant percussivo, tra la sega di Edmonds e la spazzola di Firth. Sul finale zittisce l'universo intero con con un'ultima, secca invocazione, il Verbo acido di un profeta che è impossibile non seguire. E visto che l'operazione-nostalgia è ormai sdoganata, tanto vale andarci giù a peso morto inanellando "This Is Not A Love Song" e "Rise", massime smash hit del repertorio, tutte e due shakerate a dovere e sospinte dal torrenziale coro della platea, su cui surfano per uscire di scena.

La pausa dura più del previsto. Sospettiamo che John possa essere troppo stanco o non abbia voglia di sopportare oltre le nostre urla, e invece all'ultimo riappare con l'aria di chi sta per pestare duro. Se qualsiasi altra persona ti saluta puoi limitarti a ricambiare, ma quando è John Lydon a rivolgerti un sornione "hello" faresti meglio a ripararti: non potrà che pioverti addosso l'anthemica "Public Image", che a quarant'anni di distanza suona ancora più minacciosa che mai.
I punk sono soddisfatti, ora bisogna accontentare gli altri. Detto fatto: basta sfoderare quella "Open Up" con cui i Leftfield battezzarono il filone progressive house e l'intero parco sprofonda in un'ipnotica danza, ancora meglio se saldata con "Shoom" in un chilometrico medley. E' ultima, sguaiata maledizione di questo grifagno muezzin, che prima di andar via conferma il suo status presentandosi con un imperscrutabile nome da santone.

Ho sottolineato più volte l'istrionismo del Nostro, ma a dire il vero la sua è stata una performance abbastanza sobria, con giusto qualche gestaccio rituale per imbonire i fan della primissima ora (vedi l'immancabile pratica di abbeverarsi e sputare parte dell'acqua sul palco). D'altro canto, la scelta di un repertorio così variegato, con un excursus sulla carriera non limitato agli evergreen ruffiani, testimonia quanto i Public Image Ltd. siano distanti da certe piacionerie da rockstar - anche se, va detto, la scarto di qualità tra il vecchio e il nuovo è tangibile. Come spesso accade nei concerti di band radicate negli anni 80, i suoni tendono a essere un po' freddi e i volumi leggermente troppo alti, ma quantomeno la potenza è assicurata. Più che buona, infine, la tenuta vocale di Lydon, che anche nei brani più alti e complessi ha retto il colpo senza troppe difficoltà.
Quanto a me, ho da tempo smesso di fantasticare sulle metropoli infernali pronte a ingoiarmi, ma non di adorare questa musica, esaltante anche senza certe catastrofiche sovrastrutture.