Sigur Ròs

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2002 (Fatcat Records)
dream-pop
8

Sopravvivere a un capolavoro non è mai facile, specialmente se si è una band ancora giovanissima e il capolavoro è arrivato praticamente al primo colpo. È il caso degli islandesi Sigur Rós che due anni fa, completamente sconosciuti all'infuori dei ristretti confini della loro isola, ci lasciarono letteralmente a bocca aperta di fronte al loro secondo disco, "Agaetis Byrjun", e adesso sono finalmente tornati con un disco che definire impenetrabile e misterioso è poco.

Diciamo subito allora che questo album è forse addirittura migliore del suo predecessore, perché ci mostra il suono dei Sigur Ròs nella sua forma più pura e diretta, rinunciando totalmente alle sperimentazioni elettroniche del primo album "Von" e alle ricche partiture orchestrali di "Agaetis Byrjun", se si fa eccezione per qualche timido campionamento e la costante ma estremamente discreta presenza di un quartetto d'archi in sottofondo. I quattro islandesi capitanati da Jòn Birgisson hanno deciso di puntare con decisione verso il minimalismo più estremo: nessun titolo, nessuna informazione, nessun disegno (o quasi) sul booklet, addirittura nessuna lingua in cui esprimersi; Birgisson infatti canta usando non delle parole, ancora presenti su "Agaetis" seppure rigorosamente in lingua madre islandese, ma dei suoni improvvisati e insensati (l'"Hopelandic"), finendo per usare le voce semplicemente come un altro strumento musicale (prova ne sia che i suoni vocalizzati dal cantante sono praticamente sempre gli stessi).

Sono tante le influenze nelle otto, lunghissime composizioni di questo album (media di 7/8 minuti): ci sono echi dei Radiohead (soprattutto nelle linee vocali), ci sono le ritmiche catatoniche e ultra-dilatate del post-rock e dello slo-core dei Low, ci sono echi dei Pink Floyd e della psichedelia più eterea, ma la grande forza dei Sigur Ròs sta proprio nel riuscire a reinventare tutte queste ispirazioni secondo la loro personalissima ottica ed esprimersi con un'impronta sonora e stilistica che è unica nell’attuale panorama rock.

Non che manchino delle pecche, che in generale possono ricondursi ad una sola: un'eccessiva tendenza al melenso e al lacrimevole alla Thom Yorke: fortunatamente a soffrirne è praticamente soltanto il primo pezzo. Ma tanto è il fascino e la suggestione che pezzi come le tracce 2 (la più toccante e rarefatta), 3 (con un bellissimo giro di piano attorno al quale cresce una meravigliosa sinfonia cameristica) e 6 riescono a sprigionare. La numero 4 (già conosciuta come "The Nothing Song" o "Njòsnavelin" e presente sulla colonna sonora del film "Vanilla Sky") è forse il brano più "bello", esteticamente parlando, quello più accessibile e accattivante, mentre la numero 5 è in assoluto quella con i ritmi più lenti e dilatati, quasi a sfiorare l'immobilità assoluta. Soltanto negli ultimi tre pezzi si assiste ai crescendo maestosi di "Agaetis", in particolare nel drammatico incedere della numero 7, il brano più lungo (13'), articolato e complesso della raccolta.

I Sigur Ròs sono cresciuti e sono maturati, e lasciano intendere di aver trovato la loro dimensione sonora ideale: la cosa più giusta che si può fare comunque è immergersi in quest'opera senza opporre resistenza, perché quella dei Sigur Ròs è musica che non bisogna interpretare o decodificare. È nient'altro che musica, racchiusa tra due parentesi.

06/11/2006

Tracklist

  1. Untitled
  2. Untitled
  3. Untitled
  4. Untitled
  5. Untitled
  6. Untitled
  7. Untitled
  8. Untitled