Isis

Isis

Un olocausto post-rock

Monolitici, possenti e atmosferici: gli Isis di Boston hanno scritto alcune delle pagine più interessanti della musica pesante del nuovo millennio. Un'alchimia stimolante, ottenuta trasponendo certe frange del metal estremo nel linguaggio del post-rock. Ecco la loro storia, maturata al culmine del decennio Novanta e proseguita fino ad oggi, anche attraverso progetti alcuni progetti paralleli

di Alessandro Nalon

Gli Isis di Boston fanno parte di una scena piuttosto compatta e di difficile catalogazione, essendo una realtà a metà strada tra metal, post-rock e post-hardcore. Esistono numerose definizioni per la loro musica, spesso improprie: post-metal, post-core, post-sludge; quasi tutte sono fuorvianti o inesatte, perciò secondo chi scrive è più importante capire soprattutto da dove venga questo fenomeno che ha scritto negli scorsi anni alcune pagine importanti della musica ad alto volume.

Nei primi anni 90 la scena metal era in continuo fermento: alle correnti principali del metal estremo di quel periodo, ossia il gothic (inaugurato dai pionieri Paradise Lost), il black, lo stoner e il death tecnico di Death, Cynic e Atheist, si affacciavano casi più o meno isolati di gruppi metal dalle marcate influenze noise-rock, industrial e hardcore. E’ il caso dell’industrial-metal dei Godflesh (figli della brutalità dei primi Swans), dello sludge-metal dei Melvins, dei Today Is The Day (che aggiunsero grind e gothic-metal al noise-hardcore dei loro primi dischi) e dei più importanti per lo sviluppo della scena qui presa in esame: i Neurosis. Il gruppo di Steve Von Till fu infatti determinante, non solo perché emblema del passaggio dalle sonorità hardcore a una musica sostanzialmente metal, ma per aver tracciato con la pietra miliare "Through Silver In Blood" le coordinate di un genere ibrido che, pur sfruttando la potenza del metal più intransigente, si apriva a contaminazioni con l’industrial e a dilatazioni quasi ambientali. L’uscita di questo disco capitò in un momento propizio, e scosse le fondamenta del genere, tanto che ad essere folgorato dalla sua carica innovativa fu il proprietario dell’etichetta Hydra Head (che ha recentemente prodotto dischi di gruppi come Pelican e Jesu), Aaron Turner, che assieme al bassista Jeff Caxide e al batterista Aaron Harris fondò gli Isis, con l’intento di produrre un metal pesante e asfissiante, che sposasse le intuizioni dei Neurosis e di altri illustrissimi precursori (i già citati Melvins e Godflesh agli inizi, quindi i Tool e i Mogwai); una musica immersa in un mare di disperazione e angoscia, rese con dilatazioni ai limiti del doom e continue implosioni ed esplosioni.

La musica degli Isis è tutta così: o la si ama o la si odia. Attraverso la forma del concept-album e ondate di decibel, si fa portavoce del dramma di Aaron Turner, pessimista incurabile, tormentato dalla piccolezza e fragilità dell’uomo davanti a ogni cosa: la tecnologia (Celestial), i sentimenti (Oceanic), o la società (Panopticon). Nel bene o nel male, dall’ascolto di un album degli Isis non si esce facilmente illesi: la loro è una musica devastante e diretta, che fa grondare sangue a chi ascolta. I loro concept sono tanto fantascientifici quanto veritieri e attuali: in essi si coglie una perenne lotta "titanica" tra l’umanità e la tecnologia, una lotta già persa in partenza, che si può concludere solo con la sottomissione del singolo alla collettività o col suicidio; degna di nota la qualità dei testi, tanto semplici e immediati, quanto pieni di interessanti simbolismi e citazioni.

Alla forma di metal dilatato e di ampio respiro a cui solitamente sono associati, gli Isis giungeranno solo dopo un lungo percorso di maturazione, che affonda le radici nei versanti più neri e marci di quel metal ibrido menzionato poco fa. Dalle prime sessioni del gruppo, infatti, uscirà l’Ep di quattro canzoni Mosquito Control, lavoro di indiscutibile impatto sonoro ed emotivo: l’atmosfera è tesissima, con chitarre pesanti a scandire brani martellanti e distruttivi. "Poison Eggs" apre il disco all’insegna di un putrido industrial-metal, con martellanti linee di basso e lunghi vagiti di chitarra; in "Life Under The Swatter", invece, la dimensione umana viene sempre meno, soffocata da un assordante muro di rumore. Sono brani senza un baricentro, in cui sono urlate ripetutamente inquietanti frasi caotiche. Pur essendo brutale e cruda, la musica dei primi Isis è più cerebrale di quanto si possa pensare (in "Hive Destruction", l’apice del disco, si intravedono i germi degli sviluppi futuri, mentre "Relocation Swarm" comprende campionamenti e una lunga coda dissonante).
L’Ep non passa inosservato nell’ambiente metal underground, tanto che entra in formazione un secondo chitarrista, Mike Gallagher, e gli Isis vengono notati dai Converge, con cui condivideranno un tour.

Dopo quest’esperienza live, gli Isis tornano in studio un anno dopo e registrano The Red Sea, un Ep a cui corrisponde un ulteriore passo verso la maturazione: il suono si è fatto più compatto, monolitico e abrasivo. Stupiscono le cadenze quasi industriali di "Charmicarmicat Shines To Earth", la feroce e autodistruttiva "The Minus Times" e la discontinua "Lines Across Eyes", con esplosioni atomiche intervallate a singhiozzi e tempi morti. E’ l’opera più estrema dell’intera discografia del gruppo, e risente addirittura dell’influenza delle nuove istanze metalcore, tuttavia manca di personalità: l’emancipazione dai loro modelli deve ancora avvenire.

Nello stesso anno la formazione si completa con l’inserimento di Clifford Meyer alle tastiere elettroniche, mentre la popolarità del gruppo cresce, tanto che sarà chiamato a supportare i Neurosis in tour. Risale a questo periodo l’Ep a tiratura limitata Sawblade, che annovera due inediti (piuttosto trascurabili) e due cover: "Streetcleaner", il classico dei Godflesh (che non sfigura davanti all’originale, pur non eguagliandola), e "Hand Of Doom" dei Black Sabbath (cantata da Meyer). Si tratta senz’altro di un lavoro minore e prescindibile.

Gli Isis sono finalmente pronti per produrre il loro primo Lp, Celestial, che completa il concept iniziato con il primo Ep Mosquito Control, arricchendolo con ambientazioni apocalittiche e futuribili. Il tema centrale stavolta è quello della "Torre di Controllo", un’entità meccanica-tecnologica, costruita per controllare l’umanità e completarne il processo evolutivo, il quale prevede che ogni singolo individuo entri a far parte di un organismo con un’intelligenza collettiva, simile a un alveare.
I tempi questa volta sono rallentati: riff pesantissimi si susseguono come colpi di martello in mezzo a un continuo scalciare della batteria e a urla ripetitive e agonizzanti; "Celestial (The Tower)" da questo punto di vista è il manifesto dell’album. Per tutta la durata del disco a fare la differenza sono gli inserti di elettronica, che coronano una musica pesantissima e massiccia, quasi doom, intervallata qua e là da intermezzi più leggeri e puliti, ma non per questo rilassati; si parla pur sempre di musica tesissima, nella quale non penetra un solo raggio di sole.
Brani di ferocia assoluta come "Glisten" e "Swarm Reigns (Down)" (con evidenti echi di Godflesh) si susseguono l’uno dopo l’altro, scanditi lentamente da chitarre pesantissime e dissonanti: qualcuno ha parlato di "sludge-metal", una definizione che se sta stretta ai dischi successivi, ben si adatta alla musica di questo album: imponente, irrequieta, inarrestabile, un fiume di magma incandescente.
Il capolavoro è "Decostructing Towers", una strumentale esplosiva in cui le chitarre di Turner e Gallagher si rincorrono per oltre sette minuti, culminando in una coda cacofonica di feedback, senza lasciare un solo secondo per prendere fiato; "Collapse and Crush" non fa che ribadire quanto detto finora con cadenze più moderate; "C.F.T. (New Circuitry And Continued Evolution)" propone una struggente ed elegantissima melodia di chitarra, mentre la conclusiva (se si esclude l’outro) "Gentle Time" ritorna al wall of sound dei pezzi precedenti.
Presi singolarmente, i pezzi sono quasi tutti molto validi, i difetti della raccolta sono la ridondanza e la parziale mancanza di personalità: gli Isis hanno prodotto un disco di spessore e qualità, ma che si spinge poco oltre la somma delle loro influenze.

In Celestial gli Isis dimostrano capacità drammatiche superiori, con un concept fantascientifico che si inserisce benissimo nell’era della comunicazione di massa, e che in parte pone rimedio alle incertezze che si avvertono in fase compositiva.

L’Ep SGNL > 05 contiene remix (uno dei quali di Justin Broadrick, mente degli Jesu) e inediti prevalentemente strumentali sulla falsariga di Celestial. Consigliato solo ai fan.

Nel frattempo la fama del gruppo cresce, tanto da richiamare l'attenzione della Ipecac di Mike Patton, per la quale usciranno i successivi lavori a nome Isis.

Il vero salto di qualità avviene proprio con Oceanic, che vede un gruppo meno estremo, ma non per questo blando e poco aggressivo. Degli esordi ormai resta ben poco, ma ciò coincide con un’impressionante maturazione: ormai gli Isis non sono più degli emuli dei Neurosis e dei Godflesh, il loro stile sfrutta la versatilità del post-rock, appesantendola e affogandola nella più cieca disperazione. Il maggiore indice di cambiamento è la voce di Turner, ormai simile solo a se stessa e più bella che mai. Growl, in senso letterale: il ruggito di un uomo traboccante di rabbia che urla i mali del mondo ai propri simili, una delle voci più intense dell’ultimo decennio.
Al centro del concept, stavolta, c’è l’amore, che non può che essere sofferto, tormentato, agonizzante, e finire col suicidio per annegamento - suggerito da testi e titolo - di un amante tradito dalla sua donna, in una relazione incestuosa.
Man mano che si procede nelle profondità del disco, il clima si fa sempre più nero, l’aria viene a mancare: gli accordi iniziali di "The Beginning And The End" vengono presto spazzati via da ondate di rumore, che ritornano sempre più piene e fragorose in "The Other", il pezzo più malsano e autodistruttivo della raccolta. "False Light" riprende la struttura del pezzo precedente introducendo parti di chitarra pulita che emergono nel caos di rumori e distorsioni, ma non c’è nulla di rasserenante, la storia di Oceanic non ammette alcuna forma di redenzione.
Dopo la scoperta della relazione con "l’altro", c’è solo la morte ad attendere il protagonista: "And the water takes hold / Fills his lungs and crushes his body", recita il testo di "Carry".
Dopo due brevi strumentali il dramma ritorna nella lunga "Weight", lentissima e accompagnata da tastiere e voce femminile. Le conclusive "From Sinking" e "Hymn" sono gli ultimi devastanti attacchi, e corrispondono rispettivamente alla morte e all’epitaffio del protagonista della storia. Con i versi "Blank memory washed away / Swallowed whole through eyes and teeth" si chiude uno dei lavori più struggenti e intensi degli ultimi anni: non c’è pace, se non nella morte, sembrano volerci dire queste canzoni.
Il peso di questo disco si fa sentire, e i vari Pelican e Cult of Luna sembrano dimostrarcelo.

Trascorsi due anni, è il 2004, George W. Bush viene rieletto, suscitando delusione e disapprovazione in tutti coloro che speravano in un cambiamento, artisti compresi. Tra costoro non manca Turner, che decide di incidere un disco dal valore concettuale più ambizioso, che esprima il suo sdegno senza scadere nelle solite liriche populiste e demagogiche dell’ondata di gruppi anti-Bush. Da queste sessioni nasce Panopticon.
Il concept che sta dietro l’album è il più maturo di quelli finora proposti dal gruppo: si ispira a una prigione a pianta circolare progettata nel Settecento (chiamata "Panopticon", appunto), in cui un osservatore centrale avrebbe potuto tenere sotto sorveglianza le celle disposte lungo la circonferenza esterna. Non è difficile applicare alla realtà di oggi questa prigione, e percepire quindi il disagio che Turner esprime con tanta rabbia e lucidità nei confronti di una società oppressiva e invadente verso il singolo.
Musicalmente il disco prosegue la naturale evoluzione del loro sound, eliminando certe ruvidezze e limando gli spigoli. Quello di Panopticon non è più metal, piuttosto un post-rock con cadenze "da elefante", di certo meno ostico ma molto più elegante e atmosferico. I momenti più violenti non mancano, ma non è su di essi che il gruppo fa leva, semmai sugli intrecci di chitarre e tastiera e su alcune suggestive dilatazioni spaziali; dei generi più estremi come post-hardcore e metal restano solo la voce (rauca e rocciosa, anche se più melodica dei loro standard) e alcuni ripidissimi muri di chitarre.
"So Did We" è il capolavoro dell’album, un brano dal perfetto bilanciamento formale e dalla carica inarrestabile. "Backlit" si spinge oltre, alternando alla perfezione dilatazioni e contrazioni, fino ad accumulare una tensione spaventosa, che trova una valvola di sfogo nelle urla liberatorie che concludono il pezzo. La più levigata "Wills Dissolve" si apre con un passaggio di synth quasi liquido, e una lenta melodia di chitarra, che va alzandosi in impennate vertiginose, quasi come onde che si infrangono sugli scogli. "In Fiction" sviluppa progressivamente un’architettura fatta di intrecci di chitarre che si innalzano fino a esplodere e poi collassare su se stessi; "Syndic Calls" riprende l’aggressività delle prime due tracce e la dilata, culminando in un’apocalisse. Di "Altered Course", il brano più post-rock, va segnalata la coda ambient/psichedelica (merito delle tastiere di Meyer, sempre più rilevante nel gruppo).
Con Panopticon gli Isis si fanno conoscere in tutto il mondo, mentre svariati gruppi tentano di imitarne (e talvolta approfondirne) la formula, senza toccarne però i vertici espressivi.

Un cast di star della musica alternativa (Fennesz, James Plotkin, Tim Hecker, Oktopus, Mike Patton, Venetian Snares, Justin Broadrick…) firma i remix di Oceanic, che verranno raccolti nel 2005 nel doppio Oceanic: Remixes Reinterpretations. I risultati vanno dal decente all’imbarazzante.

Dopo un’attesa di due anni esce, sempre per la Ipecac, In The Absence Of Truth, l’attesissimo seguito di Panopticon.
Le aspettative erano altissime, un cambiamento di rotta era più che necessario per evitare la stagnazione del gruppo, che rischiava di restare inchiodato alla formula a cui era arrivato, perdendo credibilità. Purtroppo queste aspettative sono soddisfatte solo in piccola parte, e quello che gli Isis consegnano alle stampe non è che una versione levigata, limata e dilatata del loro Panopticon.
Già dalle prime tracce si avverte la stanchezza compositiva del gruppo, ancora capace di confezionare buoni brani, ma scarsamente coraggioso e povero di idee. La traccia di apertura "Wrists Of Kings" è un pezzo blando e di maniera, che impallidisce se confrontato con la sua controparte del disco precedente, mentre "Dulcinea" fa il suo lavoro grazie a un finale esplosivo, pur non essendo nulla di particolarmente originale.
Da qui in avanti il disco mostra la corda: gli Isis giocano sulle dilatazioni, secondo una formula consolidata ma piuttosto abusata, che talvolta padroneggiano ("Over Root And Thorn"), talvolta no ("Garden Of Light"); se alcuni pezzi si difendono bene, è l’insieme che pecca di prolissità e piattezza, non basta il bel drumming tribale à-la Tool (con cui gli Isis hanno condiviso un tour) a sollevare il disco dalla media. E tra canzoni che non sanno di niente, se non di brodo allungato ("Holy Tears"), si scorge qualche lato positivo, come "Not In Rivers But In Drops", il pezzo più violento della raccolta, che è anche tra i migliori del loro repertorio.
A salvare l'album è ancora una volta la sua profondità: con In The Absence Of Truth gli Isis conferiscono ulteriore spessore alla loro musica, ideando un concept sempre più ambiguo ed ermetico, sul concetto di verità e di percezione; da questo punto di vista il gruppo si mantiene ben sopra la media, anche quando musicalmente non decolla.

Nello stesso periodo gli Isis collaborano con gli scozzesi Aereogramme, dando alla luce In The Fishtank 14, un lavoro alquanto sottotono, che fonde un post-rock dilatato con atmosfere più morbose. In "Delial" sembrano emergere gli Isis di Panopticon, mentre la più dilatata "Stolen" vanta una coda strumentale molto elegante, fatta di un tappeto di droni e deboli disturbi elettronici. Tutto sommato un disco marginale nella discografia del gruppo, che sembra essere a corto di idee.

I Red Sparowes sono un supergruppo formato anche da membri degli Isis. Il loro debutto del 2005, At The Soundless Dawn, è un canonico disco di post-rock chitarristico, con alcuni momenti validi ed emozionanti, mentre il successivo Every Red Heart Shine Towards The Red Sun raccoglie gli stereotipi del genere, senza regalare alcun episodio degno di essere ricordato.

Dopo tre anni gli Isis tornano con il loro quinto lp in studio, Wavering Radiant (2009), cercando di confermare il loro status di gruppo di punta della musica heavy contemporanea. Un’operazione discretamente riuscita, considerando la fantasia e la gamma di trovate che la band di Boston adotta per rifuggire dai clichés di quel post-metal che ha contribuito a inventare ma che oggi è più che mai ristagnante. Già, perché questo disco sembra da un lato inasprire i toni con un suono violentissimo (anche per i loro standard), dall’altro snellire le eccessive dilatazioni del precedente album, consegnando il loro disco più fruibile che, in quanto ad approccio, si schiera dalla parte del progressive piuttosto che del post-rock.
Veri assedi sonori come “Hall Of The Dead”, infatti, sono trainati dall’organo di Meyer tanto quanto da muri di chitarre e sono costellati di oasi ambient, piuttosto che muoversi sui sentieri già battuti dei crescendo emotivi. “Ghost Key” si presenta come uno dei pezzi più belli della loro carriera, una composizione impreziosita dall'elettronica, da raffinati fraseggi di chitarra e da un’enfasi ritmica finora sconosciuta ai cinque; tutto questo senza mai tralasciare quelle esplosioni heavy che ormai sono un marchio di fabbrica degli Isis e che permeano soprattutto i dieci minuti di “Hand Of The Host”.
Nonostante qualche cambiamento, chi ha amato gli Isis troverà le cose al loro posto, fatta eccezione per la voce di Turner, quasi sempre pulita e limpida, salvo qualche passaggio cantato in growl (sempre più metal e sempre più lontano dallo screaming hardcore dei primi lavori). È qui però che i nodi vengono al pettine: se finora la voce nell’alchimia degli Isis era un elemento quasi secondario, con questo nuovo stile di cantato diventa sempre più rilevante, esponendo i difetti di una voce alquanto carente. Questo e pochi altri difetti – la lunghezza, la presenza di alcuni punti morti nei brani più lunghi – indeboliscono un disco altrimenti bellissimo e divinamente suonato e prodotto, soprattutto nelle parti di basso. Ecco infatti che dopo una fiacca e inconcludente “Stone To Wake A Serpent” gli Isis piazzano due dei pezzi migliori della raccolta (“20 Minutes / 40 Years” ci riconduce ai fasti di “Panopticon”!) a riportare la giusta dose di colore e varietà con intrecci di chitarre e cambi di scena tra un oceano di distorsioni e piccole parentesi di delicatezza.

Ad oggi, gli Isis possono vantare (nonostante gli alti e i bassi) una buona carriera, e meritano un posto di tutto rispetto tra gli artisti di punta della prima metà del decennio, avendo aiutato a germogliare una realtà che, per quanto possa risultare alle volte autoindulgente o pedante, ha prodotto i suoi bei dischi e ha creato una scena compatta e unitaria.

Isis

Discografia

ISIS

Mosquito Control (Ep, Escape Artist, 1998)

7

The Red Sea (Ep, Second Nature, 1999)

6

Sawblade (Ep, Hydra Head, 1999)

5

Celestial (Escape Artist, 2000)

6,5

SGNL > 05 (Ep, Neurot, 2001)

5,5

Oceanic (Ipecac, 2002)

8

Panopticon (Ipecac, 2004)

8

Oceanic: Remixes Reinterpretations (Hydra Head, 2005)

5

In The Absence Of Thruth (Ipecac, 2006)

6

In The Fishtank 14 [ISIS & AEREOGRAMME] (Konkurrent, 2006)
Wavering Radiant (Ipecac, 2009)

7


RED SPAROWES

At The Soundless Dawn (Neurot, 2005)

6

Every Red Heart Shines Toward The Red Sun (Neurot , 2006)

5

Pietra miliare
Consigliato da OR

Isis su OndaRock

Isis sul web

Sito ufficiale
Testi