Neurosis

Neurosis

L'ipnosi prima della fine

In venti anni di carriera i Neurosis hanno marchiato a fuoco la scena rock alternativa. Generati dall'hardcore, Von Till & C. hanno traghettato la propria musica verso lidi inesplorati passando attraverso un percorso che assume per certi versi i caratteri dell'indagine sonico-gnoseologica

di Marco Giarratana

Raro, anzi rarissimo imbattersi in un processo evolutivo talmente complesso e rigoglioso di sfumature, concezioni soniche e organicità come quello affrontato dai Neurosis. Un viaggio iniziatico verso la scoperta degli anfratti più nascosti della psiche e della coscienza, un lungo processo introspettivo di sezionamento delle componenti astratte dell'essere umano, ponendo in risalto l'opposizione "carne/spirito", partendo dalla prima, perforandola, per giungere a toccare il secondo, osservandolo, epurandolo. Una prospettiva artistica che ha generato un proselitismo fedele, sia in termini di fan che di musicisti sui quali il "suono-Neurosis" ha avuto notevole influenza. Dopo un avvio di marca hardcore, un progressivo ma quantomai radicale allontanamento da questo li ha portati alla definizione di uno stile, un suono, un immaginario unici, andando a toccare la pesantezza del doom e del garage più assalitore, fosche tinte industriali, la nudità del folk acustico, la psichedelia "d'ambiente". Il tutto con estrema coerenza e attraverso passi graduali, sempre un'intuizione avanti agli altri, accompagnandoci verso un umbratile stato di trance prima che il mondo deflagri di fronte ai nostri occhi.

Periodo Primo

Il cuore dei Neurosis inizia a pulsare nel 1985 a Oakland, California. A compiere i primi passi di questo lungo cammino, il chitarrista/cantante Scott Kelly e il bassista Dave Edwardson, appena congedatisi dai Violent Coercion, in compagnia del batterista Jason Roeder, che entrerà nel nuovo progetto solo nei primi mesi del 1986. Resteranno in tre in sala prove, fino a quando non verrà arruolato un secondo chitarrista nel gennaio dell'anno successivo, Chad Shelter. Passano dodici mesi e il primo album dei Neurosis vede la luce. È tempo di Pain Of Mind (1988).

Qualche demo-tape, allora unico mezzo per riuscire a raggranellare un po' di seguito nel fitto sottobosco hardcore. Questo il curriculum vitae della band al momento in cui, grazie all'etichetta indipendente Alchemy, viene rilasciato sul mercato il primigenio Pain Of Mind. L'idioma è essenzialmente quello dell'hardcore di marca Black Flag, i brani puntano dritti verso il contatto fisico, grazie a canzoni ancora grezze e dallo spirito primordiale ("Self-Thought Infection", "Dominoes Fall", "Ingrown", "Reasons To Hide") o a qualche sparuto assalto iper-cinetico ("Training"). La resa tecnica individuale e l'amalgama sono quelli di una formazione visibilmente ancora alle prime armi. Le composizioni sono smilze, essenziali, gli arrangiamenti scarni, a rimarcare la fisicità di un suono che non mira ancora a scardinare la psiche di chi si pone all'ascolto. In ogni modo, il primo passo è compiuto.

Sempre nel 1988 vede la luce l'Ep di tre brani "Aberration", grezzo nella qualità di suono e immediato nella sostanza. I brani ivi contenuti (tre in tutto) non si spostano dalle coordinate del disco d'esordio.

Un primo, importante "punto di svolta" nella storia dei Neurosis è sicuramente rappresentato dall'ingresso in formazione di Steve Von Till. Dotato songwriter (dei suoi progetti solisti riferiremo a tempo debito), chitarrista e vocalist dal timbro caldo e fortemente complementare a quello del suo alter-ego Scott Kelly, Von Till varca la soglia di casa Neurosis nel 1989, appena in tempo per il secondo album, The Word As Law. Dopo questo innesto, il nucleo storico del gruppo (che non cambierà mai componenti, a parte Shelter che ha già mollato) si avvia a completa definizione. Poco dopo giungerà l'ultimo tassello.
Nuovo contratto, nuovo disco. È la Lookout stavolta a dare "asilo artistico" ai quattro californiani e questi ripagano la fiducia accordata, effettuando un passo avanti tutt'altro che trascurabile nel loro percorso evolutivo. Con The Word As Law la band dimostra di essere una mosca bianca all'interno del panorama hardcore. Si vede in maniera netta che nella concezione compositiva sta germogliando con prepotenza la volontà di infrangere definitivamente gli schemi del genere, di creare una "rottura stilistica" che permetta di ampliarne i mezzi espressivi e rendersi indipendenti, di "andare oltre" l'hardcore. Le strutture di alcuni brani si allungano, la rabbia c'è, ma non è più così oltranzista, ben assoggettata adesso a un maggiore controllo che non ne disperde però la carica propulsiva. Anche le atmosfere si fanno più cupe, le soluzioni formali si fanno più ampie: "To What End?" presenta uno stacco congiunto di pianoforte e chitarra acustica che ne aumenta esponenzialmente il grado di inquietudine; "Blisters" mette in risalto la sua particolarità con uno svolgimento "progressivo" e rivolgimenti acustici, in una sorta di ballad a metà tra il bucolico e aperture proto-grunge; in "Day Of The Lords" esce fuori all'improvviso un inaspettato tappeto di tastiere; scorie sabbathiane incidono sull'andatura ben scandita (nella sua prima parte) di "Tomorrow's Reality". L'impiego di due ugole aiuta a dare maggiore varietà alle canzoni: le due voci di Von Till e Kelly interagiscono, sbraitano e si intersecano in più punti. I loro timbri tanto complementari quanto diversi in alcuni accenti cromatici sarà un'arma sulla quale la band farà grande affidamento durante questo cammino d'introspezione sonora che con "The Word As Law" inizia a prendere il largo.

Periodo Secondo

È il 1991 quando la band decide di arruolare nuovi elementi. Entra nel processo di scrittura dei brani Simon McElroy (che lascerà la band dopo Enemy Of The Sun) come tastierista, manipolatore di nastri e sample, mentre il chitarrista dei Christ On Parade Noah Landis (qui con le stesse mansioni di McElroy) si aggrega al gruppo per i live-show (col tempo, il suo peso all'interno del processo di scrittura diverrà assolutamente rilevante). Questi ultimi vengono impreziositi dalle immagini proiettate dal video artista Adam Kendall, che collaborerà col gruppo fino a Sovereign (più in avanti giungerà Josh Graham, che si occuperà anche della realizzazione del Dvd di A Sun That Never Sets e prenderà parte a Tribes Of Neurot).

Souls At Zero apre ufficialmente la seconda fase della carriera dei Neurosis. I Nostri sono approdati alla Alternative Tentacles, oscura label di proprietà di Jello Biafra dei Dead Kennedys, specializzata in bizzarri incroci tra punk, metal e hardcore. L'influenza dei Melvins, già intravista in The Word As Law, diventa adesso vistosa nel pesante incedere della title track dal riffing velenoso; ma di tale ascendenza è un po' tutto l'album a risentirne. La frattura con la forma canzone è ormai insanabile, gli svolgimenti si diluiscono sempre di più, fino a toccare durate ragguardevoli (la traccia che dona il proprio titolo all'intera opera supera i nove minuti, "Stripped" accarezza gli otto, così come "To Crawl Under One's Skin", "A Chronology For Survival" consta in nove minuti e mezzo).
Le atmosfere si incupiscono ulteriormente, forti anche di una certa inflessione doom, non solo tra le maglie chitarristiche, grazie a riff dalle ritmiche sempre più lente e dall'etimo inevitabilmente sabbathiano, ma più specificamente nell'essenza stessa dei brani, in cui sembra ardere una fiamma nera che assorbe a più non posso l'aria circostante.
La parte finale dell'album riserva alcune tra le migliori composizioni del gruppo: "Stripped" è un drappo funebre agitato da un gelido vento, "A Chronology For Survival" è assolutamente spettrale, così come "Flight". Lievi sentori epici si avvertono in "Sterile Version", mentre trasuda puro cinismo l'incipit post-slayeriano dell'eccezionale "The Web".
Il tessuto sonoro si impreziosisce sempre più: oltre a un non trascurabile apporto delle keyboard, fanno più volte capolino violini ("A Chronology For Survival", "Flight") e fiati (ancora "Flight", Sterile Version"). L'allontanamento dal passato trova qui una definitiva realizzazione non essendo esclusivamente circoscritto alla mera morfologia dei brani, ma implicando un certo cambio di rotta anche nelle liriche, non più solo improntate su tematiche socio-politiche come nei primi due lavori, bensì votate a un'astratta profondità dai toni assolutamente grigi e allucinanti, in perfetta sinergia con le costruzioni sonore dei brani.
Con Souls At Zero, la band codifica finalmente il proprio stile con l'imponenza che si addice a una grande creatura, adesso consapevole di avere tanto da dire all'interno del panorama musicale contemporaneo.

Se Souls At Zero traccia quindi con estrema chiarezza la strada da seguire (che resterà comunque sempre imprevedibile), Enemy Of The Sun, in uscita appena un anno dopo, assesta una scrittura già di per sé parecchio solida e personale. Ci si muove sempre all'interno degli spazi intagliati dal precedente lavoro, con un impatto che continua a essere carnale ("Cold Ascending" e "Lexicon", la title track) grazie a wall of sound eretti su cascate di riff più duri della pietra. Ma, nel contempo, le maglie delle nuove composizioni accolgono fiumane gotiche, identificabili anche in alcuni passaggi vocali dall'indole evocativa ed esoterica ("Lexicon", l'introduzione di "Raze The Stray") o in effetti di tastiera che forgiano atmosfere capaci di richiamare gli Swans più subdoli e striscianti. La morbosità di certi solchi è viva e consistente e "Raze The Stray", col suo alternarsi di vischiose aggressioni post-metal e lugubri aperture di violino e tastiere, con un decadente pianoforte che emerge qua e la sotto una fitta coltre di elettroni, ne è un perfetto esempio.
Enemy Of The Sun ha in più punti l'afflato della catastrofe incombente; il duo "Cold Ascending" / "Lexicon" è simile a un incendio infernale che si fa concreta realtà sulla Terra, mentre l'opener "Lost" stride con le sue armoniche artificiali, squarciando come lancinanti urla di dolore l'austera aria che la avvolge. È "Cleanse" il brano maggiormente oscuro, quello che pare fungere da anello di congiunzione con una sconosciuta dimensione spirituale: un tour de force di quattordici minuti di tribalismo percussivo ossessionante che pone le corde dell'anima in estrema tensione, mentre i dodici minuti a seguire sono un grido reiterato che perfora il muro del parossismo.

Per un paio d'anni piomba il silenzio. Le aspettative intorno al gruppo sono adesso molto alte. Souls At Zero ed Enemy Of The Sun hanno fatto capire ai più che i Neurosis sono una creatura in continua evoluzione, portatrice di un nuovo modo di incastrare suoni e atmosfere, e capace di tracciare la via per meglio definire il concetto di "post-hardcore".

Il picco massimo di ispirazione, equilibrio tra i diversi elementi (non senza l'apporto di nuovi e lo sviluppo di quelli già presenti) e pura ferocia è senza ombra di dubbio Through Silver In Blood, l'album che consacra in via definitiva la band e la proietta tra le grandi della scena noise-alternative degli anni 90.
I Nostri si sono accasati presso la label statunitense Relapse, autentica talent-scout della scena estrema, colei che, con l'avvento del nuovo millennio, scalzerà la britannica Earache Records dal trono di "migliore etichetta estrema", grazie a un roster di prim'ordine e sempre aperto a nuovi, validi e "obliqui" innesti.
Co-prodotto dalla band stessa con Billy Anderson (nel suo catalogo spiccano nomi quali EyeHateGod, Swans, Melvins), Through Silver In Blood vede la luce del mondo (per oscurarla del tutto con lo scorrere delle sue note) nell'aprile del 1996. L'album si apre come Enemy Of The Sun si era chiuso: una ritmica esoterico-tribale introduce e sorregge la claustrofobica perfidia del brano, che dona il proprio nome all'opera intera, che si edifica su chitarre glaciali che innescano progressioni armoniche ulceranti, ripetute con cinismo ed efferatezza. La simbiosi vocale del duo Von Till/Kelly raggiunge vertici di crudeltà e depressione che sfociano in un buio abisso, dove non sembra esserci spazio per la vita umana. Venti di vischioso pulviscolo industriale iniziano a soffiare senza tregua per ostruire i polmoni e anestetizzare i sensi. Siamo di fronte al monologo più nichilista fin qui imbastito dai Neurosis e l'iconoclastia di una "Locust Star" parla davvero chiaro.
Tentazioni ambient affiorano nel prologo di "Purify", che si schiude con marziale solennità, aprendosi subito dopo a una nevrotica aggressione tra turbinii e parabole disegnate da riff malvagi, momenti di piena violenza e altri dove il frastuono si abbassa per lasciare spazio a echi celtici venuti fuori dalla cornamusa di John Goff. La tensione rimane altissima per tutti gli oltre settanta minuti di durata del platter: la lamentosa e dolente litania di "Strength Of Fates" diventa improvvisamente drammatica condanna alla dannazione eterna, pena inflitta alle anime che sembrano urlare sull'ossessionante e tetro arpeggio che fa da asse portante nel sepolcrale ultra-doom di "Enclosure In Flame", preceduta da una velenosissima "Aeon" che si apre con un toccante tratteggio di pianoforte cui fanno da sfondo armonico viola e violino. La redenzione passa attraverso l'argento, il suo totale compimento è in un magmatico mare di sangue.

Collateralmente alla band madre, i membri dei Neurosis mettono mano a un progetto dalle forti componenti extra-musicali. Tribes Of Neurot, per stessa ammissione di chi gli ha conferito la vita, rappresenta "un'esplorazione più profonda e di diverso livello dei concetti e dei sentimenti espressi dalla musica dei Neurosis attraverso l'uso di linguaggi principalmente basati sulla manipolazione di mezzi d'alta tecnologia, compresi film, visual e rituali". Sono sei gli album fin qui realizzati, l'ultimo risalente al 2005, Meridians. È un'ambient che flirta spesso con la "scuola isolazionista", catapultando così l'ascoltatore in dimensioni astratte dove si incrociano e susseguono echi, interferenze, pulsioni tribali, lunghe pause contemplative, perfetto mezzo per la dissociazione tra mente e corpo. Il collettivo si è perfino spinto a forgiare un album manipolando suoni provenienti direttamente dal mondo degli insetti (Adaptation And Survival - The Insect Project, 2002). Da segnalare la collaborazione col chitarrista d'avanguardia Scott Ayers, conosciuto ai più come Walking Time Bomb, in occasione del bellissimo Static Migration del 1998. L'esistenza di Tribes Of Neurot eserciterà un forte influsso sulla musica della "base" e in futuro i punti di contatto "formali" saranno più visibili a occhio nudo.

Il deal con la Relapse continua con la pubblicazione di Times Of Grace, a tre anni dal masterpiece che lo ha preceduto. In cabina di regia siede adesso Steve Albini, ex-Big Black e lider maximo di quella gigantesca macchina math-rock che risponde al nome di Shellac, nonché produttore-guru in ambito alternative (e non solo: è necessario ricordare il suo lavoro coi Nirvana di "In Utero"?) e figura-cardine per lo sviluppo della scena post-core, attualmente vivacissima.
La mano di Albini irruvidisce le chitarre, ora più ruspanti e trasudanti elettroni in più parti ("The Doorway"). La sintomatologia di "Times Of Grace" racchiude sempre quel senso di disagio e sciagura di lì a venire ("Under The Surface", "End Of The Harvest") e si apre a una maggiore eco psichedelica, che si affaccia ripetutamente tra i solchi dell'album: l'opener (intesa come "intro") "Suspended In Light"; il tunnel in cui è rinchiusa "Belief", dove la pressione atmosferica aumenta in modo quasi ipertrofico; la reiterazione post-rock di "Exist". Si fanno largo anche forti cenni folk, un "folk d'ambiente" che proietta l'immaginario neurosisiano su vaste lande desolate e buie, uno sguardo verso paesaggi che nei successivi lavori diventeranno vero e proprio oggetto d'indagine sonora del gruppo: "Away", la conclusiva "The Road To Sovereignity", i forti toni celtici di "Descent" sono episodi che più di ogni altro spalancano le finestre su di un panorama privo di qualsiasi calore umano, in cui i campi di grano vengono agitati da brezze luttuose. Come è facile intuire, con Times Of Grace si chiude un periodo, ma congiuntamente, se ne apre un altro, ancora più complesso e ricco di sfumature ed elementi, anche esterni al gruppo ma sempre strettamente connessi a esso.

Periodo Terzo

"Neurot Recordings is a fiercely independent label dedicated to the spirit of sound. Formed by the members of Neurosis and Tribes Of Neurot as a means to further their musical vision while achieving control of their own destiny, the primary function of NR is to serve as an outlet for the increasingly prolific output of all their related projects". È questo lo slogan che campeggia in una delle pagine del sito ufficiale della Neurot Recordings e che ben esplica le esigenze artistiche che hanno portato alla sua nascita grazie ai membri stessi dei Neurosis, i quali si occupano personalmente della sua gestione. Col passar del tempo l'etichetta è diventata un vero e proprio punto di riferimento per gli amanti di sonorità sperimentali che abbracciano il post-rock orchestrale figlio dei climax di Godspeed You! Black Emperor ed Explosions In The Sky (Tone, Red Sparowes, Culper Ring, Tarentel), il noise più avanguardistico e "industrialoide" (KK Null, nonché i suoi caotici Zeni Geva), l'ambient più ostica [i Lotus Eaters del trio Stephen O'Malley (Sunn O)))/Khanate)- Aaron Turner (Isis/Old Man Gloom) - James Plotkin (Phantomsmasher/Khanate/O.L.D.), Final di Justin Broadrick], il "post-folk-rock" dei Grails, la psichedelia dei primi Pink Floyd spalmata su lunghe composizioni (Om). In un panorama tanto variegato nella proposta di catalogo, le produzioni della band-madre e dei relativi side-project si incastrano perfettamente.

La prima pubblicazione di Neurot Recordings è Sovereign (ma nel retro-copertina coabita il marchio della Relapse, situazione che permarrà anche nei futuri lavori del gruppo), oscuro Ep che i Neurosis danno in pasto ai propri fan il 31 ottobre del 2000. Comprende quattro brani: "Prayer" è un magmatico crescendo che penetra oltre la corteccia cerebrale avvolta com'è in una malsana atmosfera da rito sacrificale; "An Offering" si districa tra solenne austerità e deflagrazioni di ulcerosa cattiveria degna dei tempi di Souls At Zero ed Enemy Of The Sun, così come la title track, che arde come un incendio mai domo coi suoi sali/scendi quasi improvvisi.

Difficile se non impossibile discernere l'evoluzione improntata dai Neurosis dagli stretti legami con i numerosi progetti paralleli di alcuni membri della band stessa. Un processo di stratificazione e sedimentazione di vere e proprie "esperienze sonore" che confluiscono nel suono del gruppo per essere omogeneizzate e per dar nuova linfa a un'ispirazione comunque mai a corto di idee, vogliosa d'inglobare ogni impulso creativo cui le menti dei suoi componenti sono soggetti, aprendo così nuove vie espressive a un impianto zeppo di elementi tanto distanti (si pensi al retroterra "noise-core" che si fonde con le pulsioni acoustic-folk prossime a essere sviluppate). Una gittata d'occhio sugli altri side-project appare quindi obbligatoria.

Senza la minima macchia del dubbio, sono le prove soliste di Steve Von Till a dare un contributo rilevante. Nel 2000 il chitarrista pubblica As The Crow Flies, disco di sette canzoni dai colori cupi, in cui la chitarra acustica e la calda e mai così espressiva voce dell'artista divengono i principali protagonisti. Sembra d'assistere al funerale dell'anima in un isolato scorcio di mondo campestre, dove nessuno mai udirà lo strazio di chi resta su questa terra per continuare a portare la croce. Quella generata da Von Till è una calma che destabilizza, tanto è depressiva, ancor più nera del nero, a tratti morbosamente soffocante ("Stained Glass", "We All Fall", "Warning Of A Storm" autentici highlight del lotto). Un folk-blues con orchestrazioni ridotte all'osso su cui si stagliano le meravigliose sfumature timbriche del crooner Von Till.
Due anni più tardi e il biondo chitarrista torna con un nuovo e più maturo album, normale prosecuzione del discorso appena intrapreso. In If I Should Fall To The Field le architetture sono sempre scarnificate con orchestrazioni ridotte all'osso, ma nel songwriting si fa largo qualche fievole bagliore di luce, che rarefa leggermente la pesante coltre di cenere che ne ostruiva la penetrazione. Cantautorale e intimista (con frequenti punti di congiunzione col Mark Lanegan di "The Winding Sheet", al quale la voce di Steve è molto simile), "If I Should Fall To The Field" fluttua languido e impalpabile tra ballate cariche di lacrime e speranza (la magniloquente "To The Field"), altre in cui la tradizione della musica rurale dei primi settler d'America d'inizio secolo prende inevitabilmente il sopravvento ("This River", "My Work Is Done"), una cover di Neil Young a sottolineare con forza l'estremo legame col cantautorato folk americano di cui i suoi lavori solisti paiono essere un omaggio ("Running Dry"), le vivide tinte irlandesi di "Am I Born To Die" (brano appartenente alla tradizione celtica) e i dolci tappeti di organo di "Dawn" e "Breathe". A chiudere il disco è "The Harpy", una vecchia registrazione del nonno di Von Till (con tanto di fruscio che evidenzia il "distacco temporale" con l'ascoltatore) che recita un componimento poetico di Robert W. Service. Senza mezzi termini, un piccolo, grande gioiello.

Lo pseudonimo "Harvestman" serve a Von Till per firmare Lashing The Rye, pubblicato dalla Neurot Recordings nel gennaio del 2006. La voce scompare, i suoni sono diluiti in liquide ambientazioni cariche di droni e semi-distorsioni, in un mix di Tribes Of Neurot (da cui è mutuato il suono astratto, quasi intangibile) e folklore celtico, che è vivo grazie alla rivisitazione di classici tradizionali come "The Sea Maiden", "Green Hills Of Tyrol". Eccezionale affresco che abbraccia tanto la psichedelia quanto l'ambient più visionaria.

Anche il "collega" Scott Kelly non si sottrae a tornare a rispolverare le sue radici musicali. Il folk, il blues, il country: sono questi gli àmbiti entro cui si svolge Spirit Bound Flesh, suo fin qui unico lavoro solista. Opera di una caratura minore rispetto a quelle di Von Till, il disco dà vita a un blues minimalista, basato su asfittici arpeggi acustici e ombrosi tratteggi melodici di voce, nulla più. Ciò che mozza le gambe all'album è un'ispirazione che non sempre riesce a riempire completamente tutti i suoi passaggi (la monodica "Sacred Heart", la prolissa fino allo sfinimento "Through My Existence" sono momenti parecchio infelici). Sicuramente "Flower", "The Passage" e "I Don't Feel You Anymore" sono ciò che di meglio il lavoro riesce a regalare.

Nel '99 anche Dave Edwarson si concede una scappatella estemporanea, collaborando coi temibili Noisegate in occasione del loro "The Towers Are Burning", mentre nel 2003 arriva il debut-album di Blood And Time, progetto che vede Scott Kelly alla voce e alla chitarra e Noah Landis alle tastiere (più una sezione ritmica composta da Anthony Nelson e Stephen Garrett). At The Foot Of The Garden è un album inconsistente e molto altalenante, giocato sempre sulla stessa formula che comprende ritmi blandi, fingerpicking acustico. Un grappolo di ballate dal carattere pastorale, di cui alcune anche ben fatte ("Deep Inside", "Shinig King", "Our First Thought", "The Garden"), ma un persistente senso di noia fa capolino a più riprese durante il tragitto. Un'opera minore, in tutti i sensi.
Piccola nota per Combat Music, radio in diffusione sul web gestita da Scott Kelly e Christopher Moeschl, che ha in rotazione giornaliera parecchi dei gruppi migliori della scena alternativa estrema e non solo.

Forte quindi delle nuove esperienze di alcuni suoi componenti, come abbiamo appena visto, la band torna in studio con Steve Albini per dare un seguito a Times Of Grace. Ciò che molti hanno da più parti definito folk apocalittico entra totalmente nel retaggio del gruppo, assume un peso specifico e una precisa collocazione nell'economia del sempre più organico stile neurosisiano, in cui l'hardcore sembra quasi del tutto dissolto in favore di fiumi psichedelici che perforano, sgretolano l'impatto fisico delle chitarre. A Sun That Never Sets è la risultante di diverse forze agenti l'una sull'altra, l'una per l'altra, l'una con l'altra. La prospettiva di osservazione si sposta sempre più verso sconfinati spazi della psiche, vista come un pianeta da esplorare, cercando di estrarne le paure e i pensieri più nascosti e subliminali, aspetti ben visibili nelle liriche dei brani. Gli arrangiamenti si fanno per certi versi più orchestrali (basti rivolgere l'attenzione alla penultima sezione di "Falling Unknown"), accentuando l'aplomb polifonico, ricorrendo a massicce dosi di archi ed effetti elettronici che irradiano tutt'intorno un'aura cerebrale e oscura.
L'angosciante "The Tide" cresce davvero come una marea in piena notte (il cui effetto inquietante aumenta con le immagini del video incluso nel Dvd del disco, curato da Josh Graham, di cui abbiamo già fatto cenno qualche paragrafo sopra) che porta via, verso una dimensione estranea alla percezione umana, tante anime appena espirate da un ultimo alito mortale. La maestosa suite "Falling Unknown" è dapprima blues filtrato, reso flessibile e plasmabile secondo una nuova logica, per assumere una nuova fisionomia, per poter essere proiettato verso un astratto cosmo che pare formarsi nella seconda parte del brano. Le stridenti dissonanze che trasudano dagli accordi che sorreggono l'ispida title track lasciano trasparire una perversa nudità che si giustappone all'assordante desolazione di una "Watchfire". "From The Hill" inquieta subito grazie al contrasto iniziale: l'aggressività con cui i primi versi vengono proferiti da Scott Kelly entra in conflitto col "vuoto" generato dalla magrezza dell'arrangiamento strumentale sottostante, con soli batteria e basso ad accompagnare questa marcia funebre che verrà gelidamente accarezzata da cornamuse e graffiata da chitarre che cresceranno con la massima imponenza. La mano del Kelly solista è pesante nell'incipit di "Stones From The Sky", che si lancerà in turbolenze dal vago sapore kraut, crescendo, spegnendosi d'improvviso tra "disturbi di frequenza".
Ogni brano è vivo come il colore non ancora secco che cola fin oltre i limiti geometrici di un'asettica tela sulla quale è stato posato da una pennellata vibrata con indicibile disperazione. Il nuovo gioco di incastri neurosisiano genera così un'ipnotica sinfonia su cui arde un sole che non tramonterà mai, funesto presagio per un mondo destinato a essere carbonizzato dai suoi cocenti raggi. Corre l'anno 2001.

Si potrebbe tranquillamente argomentare riguardo i forti punti di congiunzione, principalmente attitudinali (ma non solo), tra il quintetto californiano e gli Swans di Michael Gira e della sua musa Jane Jarboe. I malsani tinteggi gotici, gli ammiccamenti al folk, quella diffusa sensazione di fine imminente, la continua ricerca sonora che ha permesso a entrambe le band di evolversi col tempo mantenendo intatta la propria personalità. Lo stretto legame che intercorre tra i due marchi diventa definitivo monolite nel 2003. I Neurosis invitano Jarboe al nuovo funerale dello spirito per rigenerarlo sotto nuove spoglie. La copulazione genera una mostruosa creatura: Neurosis & Jarboe. Le direttrici tracciate dal quintetto si intessono mirabilmente con la voce di Jarboe, che tiene banco con la sua teatralità, districandosi tra rigurgiti da strega psicopatica e il candore illibato di soffici sussurri. Si fanno largo velenosi olezzi industriali tipici dei Nine Inch Nails più masochisti ("Cringe") mentre si perpetra un purificatorio esorcismo ("Erase"), passaggi cantautorali dove Tribes Of Neurot e le ultime tendenze "bucoliche" dei Neurosis si intersecano in un ambient-folk etereo, fluttuante, inafferrabile ("Receive") o in climax liquidi e carichi d'eco che sfociano a estuario su rallentamenti ultra-doom ("His Last Words"). Quando lei (Jarboe) dialoga a distanza con lui (Von Till), sboccia "Seizure": anestesia per il cuore. Smette di battere.
N&J è dolore distillato in otto ampolle che, una volta scoperchiate, dipanano nell'aria un mefitico effluvio di morte, difficile da sopportare. Isolamento corporeo e mentale allo stato puro, naturale preambolo alla totale dissezione che arriva giusto l'anno seguente.

Tra il 2002 e il 2003 vengono intanto rilasciati due bootleg ufficiali: uno registrato a Lione, in Francia, mentre l'altro è l'impressione su supporto fonico di una performance sul palco di Stoccolma. È solo nel 2004 che la band tornerà in campo con un'opera inedita totalmente a proprio nome. L'itinerario dei Neurosis arriva, almeno fino a questo momento, all'ultima, solitaria stazione. Questa volta è una visione onnisciente a guidare i Nostri, proprio come suggerisce l'immagine di copertina che ben descrive lo spirito del disco intero: liscia e levigata nel suo grigio argentato, squarciato a un angolo dall'occhio della tempesta. Una tempesta di umori, sensazioni che contrastano l'una con l'altra, un viaggio siderale tra zone di chiaro accecante e repentini tramonti che imbruniscono il panorama. La musica è adesso altamente contemplativa, rilassata, umbratile. La fusione, l'asse d'equilibrio tra i flussi dei Tribes Of Neurot, le calme apparenti dei lavori di Von Till e Kelly, l'esplorazione psichedelica e visionaria mai abbandonata nel corso degli anni (anzi, sempre più affinata) trova in The Eye Of Every Storm l'assoluta consistenza materica. Una nuova estetica votata alla pura dissociazione della mente dal corpo, un'operazione talmente delicata che solo chirurghi sopraffini come i Tool sono riusciti a compiere in maniera tanto pregevole.
Le architetture sonore, a dispetto di una sempreverde ricercatezza nelle sovrapposizioni timbriche, sono ora più scarne, scevre di quella pienezza orchestrale che ha fatto capolino nel precedente lavoro. Sottraggono, scremano gli strati di suono per sviscerarne l'essenza. Momenti di crescita verso alti picchi d'intensità si liquefanno in un batter di ciglia per dar spazio ad amniotiche aree di decompressione, come se un limbo ci catturasse per assorbirci al suo interno. Fare menzione di questo o quell'altro episodio ha ben poca importanza. Non vi è disgiunzione alcuna fra i brani che ne concorrono allo sviluppo. Una volta investiti non c'è via di fuga dall'occhio del ciclone.

Rispetto al suono liquido e denso degli ultimi lavori, Given To The Rising (2007) si presenta in parte come un ritorno al passato, riprendendo il discorso interrotto con il granitico "Times Of Grace" (1999 Relapse). Sintetizzando, verrebbe da dire "meno drone e piu riff taglienti e diretti'" Anche se nel corso dei 70 minuti di durata del disco non mancano i momenti evocativi e d'atmosfera (l'intro di “To The Wind” è spettacolare).
Il disco si apre con l'omonima cavalcata rock di nove minuti: un manifesto di potenza e rabbia che trova la sua apoteosi nel lungo finale. Ancora più granitico e sabbattiano il muro di suono di "Fear And Sickness" con Stiv Von Still deciso ad urlare al mondo tutta la sua lucida disillusione. Il mondo è in rovina e i Neurosis ne descrivono il collasso. La sincronia tra batteria, basso e chitarre è perfetta. Nessun ingranaggio è fuori posto e ogni particolare è curato nel minimo dettaglio. Merito sicuramente della solita produzione asciutta e minimale di Steve Albini, ma soprattutto dell'affiatamento raggiunto dai Neurosis dopo tanti anni assieme. Una vera macchina da guerra.
I detriti lasciati lungo la coda di "Fear And Sickness" vengono coperti in parte dal delicato intro di "To The Wind", il momento più malinconico dell'intero album, dove affiorano le parentele dei Neurosis con le discendenze dei gruppi post-rock. E' solo un attimo però, prima che il vortice di oscurità ed elittricità avvolga di nuovo ogni cosa nella notte eterna. Non c'è scampo dal buco nero descritto dai Neuroisis: la civiltà per come la conosciamo è spacciata. Resta solo l'esigenza di urlarlo a chi possa ancora sentirlo.
Stiv si prende una pausa con la breve “Shadow”, dove la sua voce cavernosa intona un racconto desolante su un drone che si trascina senza meta. “Hidden Faces” ha tutte le caratteristiche di un classico heavy: riff, tempo e potenza. Dal vivo diventerà un cavallo da battaglia del gruppo. Ancora riff scuri e sabbathiani aprono “Distill”, una delle ultime canzoni del disco. I due minuti di sperimentazione di “Nine” preludono al gran finale di “Origin”, 11 minuti e 49 secondi in cui sono condensate le migliori caratteristiche dell'entità Neurosis.

Nel 2012 i Neurosis tornano con Honor Found In Decay e chissà se la decadenza celebrata nel titolo è intesa come astrazione o è riferita allo stato dell’arte della band versione 2012, facendone apologia. Era il 2003, i ragazzi esploravano questa categoria semantica servendosi della collaborazione di Jarboe - una decadenza interiore, certo - da allora il vocabolo ha accompagnato la musica dei californiani declinandosi nel senso di crepuscolo. Un crepuscolo lento, irreversibile ma dignitoso, come dignitoso si rivela in definitiva questo Honor Found In Decay.
Qui i Neurosis giocano a fare i Neurosis, come fossero una band alle prime armi, cresciuta nel culto dei Neurosis. La grafia è quella di sempre, la profondità e la capacità di modellare il metallo con il fuoco dell’anima rimangono sepolte sotto una coltre spessa di (a questo punto) luogo comunissimo neurosisiano. Il consueto coniglio (“At The Well”) estratto da un cilindro di idee piuttosto asfittico, si staglia sul resto a mo’ di epitaffio e, a parte qualche divagazione post-metal delle loro, gli altri pezzi suonano stanchi come un branco di cavalli macilenti smarriti nel deserto. 
E se la consunzione reca con sé un fascino malato, si spera che i Neurosis non proseguano il cammino fino a tramutarla in un parodistico autodisfacimento. Il voto in calce potrebbe essere più basso di un mezzo punto, la sufficienza è sinonimica del rispetto dovuto a una delle formazioni più grandi degli ultimi trent’anni di musica estrema.

Nel 2016, trascorsi altri 4 anni, i Neurosis tornano con "Fires Within Fires", un album che non è, come prevedibile, foriero di nessuna rivoluzione. Più breve delle opere del passato, totalizza appena 41 minuti e conta 5 soli brani, pur nel formato esteso dello sludge atmosferico che loro stessi hanno coniato.


Il sound è cambiato nei dettagli, ma non nella sostanza. Arrangiamenti meno densi e opprimenti, più ariosi che in passato, e una riflessività che più che dividere il palco con l'aggressività e il dolore, sembra spesso diventare protagonista. Chi li conosce e li ama da una vita, tuttavia, si sentirà nuovamente a casa, fra rallentamenti catacombali e deflagrazioni devastanti. "Bending Light" (quasi 8 min.) rimugina a lungo con una chitarra acuta e distorta, passeggia in un paesaggio funebre ed esplode solo dopo 4 minuti scarsi, trascinata in un vortice tormentato di dolore atroce che porta a un mostruoso rallentamento finale, con chitarre deformate. Scott Kelly, storico cantante, è di nuovo pronto a unire rabbia e lamento, senza stravolgere uno stile ormai cristallizatosi nel tempo. "A Shadow Memory" (7 min.) riduce anche i contrasti, preferendo una radiazione psichedelica, una nube opprimente, come elemento caratterizzante per un nuovo strazio emotivo. "Fire Is The End Lesson" (7 min.) punta più sulle chitarre assordanti, con la maestria di sempre.

Le vere variazioni sul tema sono alla fine dell'opera. L'inizio di "Broken Ground", quasi 9 minuti, che ricorda una ballata folk sussurrata. Una delicatezza a cui il brano ritorna, fra un'esplosione e l'altra. "Reach", 10 minuti e mezzo, avanza fra un rantolo tetro e melodie vocali insolitamente morbide, immersa in detriti psichedelici che la conducono all'inevitabile, prevedibile esplosione finale. 

"Fires Within Fires" è, dunque, l'ennesima prova di coerenza della band, che scansa la prolissità e si concede raramente con nuove composizioni. D'altronde, i Neurosis hanno trovato la loro cifra stilistica da tempo e probabilmente la loro avventura finirà con l'ennesimo brano atmosferico e tormentato, assordante e desolante. La loro rivoluzione l'hanno già fatta e vinta, ormai tanto tempo fa.

Davvero pochi gruppi sono riusciti a compiere un percorso tanto ricco di sfumature, elementi nuovi album dopo album, i quali si sovrappongono e si piegano alla grammatica di uno stile tanto unico e personale. Un monologo partito ben venti anni fa, ma che non conosce minimamente l'obsolescenza causata dal tempo che, inesorabilmente, scorre. Se al giorno d'oggi la critica acclama (meritatamente) band come Isis (i loro più diretti discendenti, con i dovuti distinguo nel processo evolutivo di entrambi i gruppi), Cult Of Luna, Mastodon, Converge, (i furono) Breach, gran parte del merito va attribuito a questo seminale e quantomai fascinoso collettivo artistico.
Fondamentali per l'evoluzione del "noise-core", per la crescita della scena "post-hardcore" (e principalmente, del suo versante "psichedelico" e "progressivo"), i Neurosis hanno lasciato un'impronta indelebile sul rock estremo. In attesa del prossimo, ennesimo colpo di coda che ci svelerà chissà quale nuovo e recondito anfratto della nostra mente.

Contributi di Roberto Mandolini ("Given To The Rising"), Antonio Ciarletta ("Honor Found In Decay"), Antonio Silvestri ("Fires Within Fires")

Neurosis

Discografia

NEUROSIS

Pain Of Mind (Alchemy, 1988)

6

The Word As Law (Lookout, 1989)

6,5

Souls At Zero (Alternative Tentacles, 1992)

7

Enemy Of The Sun (Alternative Tentacles, 1993)

7

Through Silver In Blood (Relapse, 1996)

8

Times Of Grace (Relapse, 1999)

7

Sovereign (Ep, Relapse/Neurot, 2000)

6,5

A Sun That Never Sets (Relapse/Neurot, 2001)

8

Neurosis & Jarboe (Relapse/Neurot, 2003)

8

The Eye Of Every Storm (Relapse/Neurot, 2004)

8

Given To The Rising (Relapse/Neurot, 2007)

7

Honor Found In Decay (Relapse/Neurot, 2012)

6

Fires Within Fires (Neurot, 2016)

5,5

TRIBES OF NEUROT

Silver Blood Transmission (Relapse, 1995)

7

Static Migration (Relapse, 1998)

7,5

Grace (Neurot, 1999)

60 Degrees (Neurot, 2000)

Adaptation And Survival: The Insect Project (Neurot, 2002)

6,5

Meridian (Neurot, 2005)

6

STEVE VON TILL

As The Crow Flies (Neurot, 2000)

6,5

If I Should Fall To The Field (Neurot, 2002)

7,5

HARVESTMAN

Lashing The Rye (Neurot, 2006)

7

SCOTT KELLY

Spirit Bound Flesh (Neurot, 2001)

BLOOD AND TIME

At The Foot Of The Garden (Neurot, 2003)

5

Pietra miliare
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