Largamente strumentale, la musica dei Clogs occupa una zona emotiva dai toni fortemente crepuscolari, in cui ogni piccola sfumatura assume un’intensità e una rilevanza immaginifica davvero sorprendenti. Una poetica imbevuta di atmosfere eteree e malinconiche, che generano un flusso di emozioni costante.
Nata da una costola dei più celebri National, la band di origine mista newyorkese/australiana si muove con maestria tra sospensioni classicheggianti, echi post-rock e richiami avant-folk. Un genere che mescola audacemente musica classica e indie-rock, al quale si sono avvicinati negli anni anche gruppi come Rachel's, Ethel, Dirty Three, Books e Threnody Ensemble, con i quali i Clogs hanno spesso collaborato in passato.
Sydney-New York solo andata
Le radici dei Clogs sono piantate in Australia, a Sydney, dove Padma Newsome, futura mente della band, studia violino e si esibisce in concerti fin dai primi anni Ottanta. Dopo una breve permanenza in una remota regione del Nuovo Galles del sud, Newsome si iscrive all'Università di Adelaide, mettendosi in luce come studente e neo-compositore all'inizio degli anni Novanta.
Ma è il viaggio in America a cambiare per sempre le prospettive del giovane violinista e violoncellista di Sydney. Approdato alla rinomata Scuola di Musica di Yale, Newsome incontra Bryce Dessner (chitarra e ukulele), Rachel Elliott (fagotto) e Thomas Kozumplik (percussioni) con i quali costituisce un quartetto, che si stabilisce a Brooklyn, New York.
Newsome e Dessner, nel frattempo, suonano a lungo con i National, indie-band americana emergente ma ancora lontana dai fasti che verranno. In veste di chitarrista, Dessner collabora anche con la Bang On A Can All-Stars, uno stimato ensemble di musica da camera.
La prima intelaiatura musicale dei Clogs è costruita attorno a un mix di riff e soluzioni musicali ideato sia in studio, sia durante le esibizioni live. Si tratta quindi in buona parte di improvvisazioni, che Newsome poi rielabora e riarrangia, seguendo un raffinato filo musicale narrativo.
Con questo schema nasce anche il disco d’esordio, Thom's Night Out, che esce per Brassland proprio all’inizio del nuovo millennio (2001).
Minimalista e delicata, la musica dei Clogs mostra subito il suo volto sfuggente, oscillando indolente dai ricami preziosi dei violini di “Yeri All”, misteriosa pièce agreste lievemente punteggiata da tamburi tribali, all’incedere maestoso di una “Mystery Of Life” dove le ritmiche lambiscono persino cadenze funky, fino alla struggente partitura per archi della title track, che sublima tutto il loro tenero melodismo culminando in un formidabile crescendo nel pre-finale.
È musica notturna alla Satie, spesso mesta e contrita (fin dal titolo, nell’autoironica “I’m Very Sad”, con colorature visionarie e oniriche nell’insonnia di “Sadness And Obsession”), ma attraversata sempre da una sottile tensione sottopelle (il Medioevo riletto in chiave jazzy nella febbricitante “Four Blue Poles”, gli stranianti esotismi africani della conclusiva “Ukifune”).
Viola, violino, chitarre acustiche, fagotto, sax e percussioni imbastiscono un impasto di fragrante delicatezza, ben orchestrato dalla mano sicura di Newsome in sede d’arrangiamento. L’impianto strumentale è tradizionale, ma l’approccio è decisamente avanguardistico e non disdegna ardite contaminazioni con i linguaggi della musica klezmer, delle monodie medievali e delle tradizionali melodie indiane. Ne scaturisce una variante classicheggiante del post-rock degli anni Novanta, una rielaborazione forbita della sempiterna lezione del progressive, sposata alla sobrietà e al minimalismo dell’indie-rock. Un esperimento così audace da non ammiccare a nessuna categoria o genere, anzi, pienamente consapevole del rischio di non accontentare nessuno: né i puristi della Classica, né i cultori dell’alternative-rock.
Eppure, malgrado qualche facile etichetta - come quella di "ensemble classico in abiti da hipster" - prontamente affibbiata loro, i Clogs si conquistano subito i favori della critica, oltre a lusinghieri accostamenti a band pionieristiche, come Kronos Quartet, Penguin Cafè Orchestra, Third Ear Band, Sigur Rós e Godspeed You! Black Emperor.
Ninnananne da camera
Mutando lievemente rotta, il secondo album Lullaby For Sue (2003) apre la chamber music dell’esordio a sottili tessiture ambient ed elettroniche, accentuando anche, in alcuni episodi, la componente ritmica . Il risultato è un disco più vario, ma al tempo stesso ancora più oscuro e alieno del predecessore. La musica fluisce con naturalezza, come se si trattasse di una lunga improvvisazione in presa diretta. E compare per la prima volta un brano cantato, “Gentle We”, dove Newsome con voce efebica asseconda una trasognata partitura psych-folk dal sapore seventies.
Sono composizioni fortemente evocative, dal respiro quasi cinematico, dominate da un senso di pace e di spazialità crepuscolare, spezzato talvolta da acrobatici interventi strumentali, come quelli che aprono e chiudono la spettacolare "Who's Down Now" con progressioni di archi al cardiopalmo, o gli insistiti arpeggi di chitarra acustica di Dessner che punteggiano il crescendo lo snervante psicodramma di “Swarms”.
Ancora una volta la loro musica travalica i confini occidentali, sconfinando ad esempio nel gamelan di "Turtle Soup", mentre l’anima “classica” si esprime al meglio nelle austere pièce numerate in ordine sparso: l’iniziale, straniante “No. 6”, la delicatissima “No. 4”, la contrita “No. 1”, con il fagotto della Elliott sugli scudi, e la lunga scorribanda di “No. 3”, forse l’episodio più sperimentale del lotto, insieme alla conclusiva “Limp Waltz”.
La title track, invece, con le sue alternanze soft/loud, resta probabilmente l’unico trait d’union con il post-rock di GY!BE e compagni.
Disco più ostico e complessivamente meno compatto del predecessore, Lullaby For Sue rinnova tutte le ambizioni di una band desiderosa di smarcarsi da ogni etichetta, così come da ogni steccato di genere.
Quel che non manca è di certo la prolificità: passa un anno ed ecco il terzo lavoro del gruppo, Stick Music (2004), un concept-album definito “un tour de force” da Newsome e Dessner, che, dovendo fare i conti con il momentaneo forfait di Elliott e Kozumplik, ricorrono a tre ospiti in studio: la violinista Jennifer Choi, il violoncellista Erik Friedlander e il percussionista Tim Feeney.
Griffato da una magnifica copertina “autunnale”, Stick Music è soprattutto una celebrazione e una profonda esplorazione, ai limiti delle capacità sonore, degli archi: le corde vengono piegate, percosse e pizzicate come mai era avvenuto prima. Ma il risultato non è un algido saggio di chamber music: al contrario, la musica dei Clogs appare ancora più frastagliata e ricca, concedendo pochissimo a strutture convenzionali, se si eccettua la miniatura di “Lady Go”, con il falsetto di Newsome che torna a insinuarsi tra riccioli di chitarra e volute di violino. Un Newsome quantomai ispirato, che rinnova liturgie indiane nell’inno tradizionale “Ananda Lahari”, eseguito al violino alternando con maestria “legato” e “vibrato”, e che insegue addirittura le frontiere minimaliste di maestri come Philip Glass e Steve Reich, dapprima nella danza bucolica di “Pencil Stick”, con la reiterazione ossessiva di chitarre e archi che si evolve al sopraggiungere dei nuovi temi, quindi con gli archetti a picchiare insistentemente sui violini nella tribale “Beating Stick”. Un approccio percussivo che pervade anche l’eccitante traversata nel bosco di “Sticks & Nails”, scandita da ogni sorta di tintinnio e ticchettio.
Ma la musica dei Clogs conserva soprattutto i suoi tratti evocativi e immaginifici. Così nella penombra di “River Stick” gli archi sembrano quasi mimare il ronzio degli insetti in un placido scenario lacustre, appena increspato dalla chitarra di Dessner, mentre nella notturna “My Sister - Never Ending Bliss” sono tenui strali di viola a turbare il silenzio cosmico e tra le evanescenti filigrane di “Witch Stick” convivono visioni oniriche e fluttuazioni pastorali.
Gli spasmi febbricitanti e le sbornie mediorientali di “Pitasi” sono la degna conclusione di un album sofisticato, in cui convergono tutte le fonti della musica dei Clogs, con un risultato d’indubbio fascino e originalità, anche se si ha l’impressione che sul piano della scrittura vi siano ancora ampi margini di miglioramento.
Alla luce della Lanterna
L'impressione è puntualmente suffragata dal classico disco della maturità che giunge due anni dopo: Lantern (2006) è la maturazione definitiva della loro estetica, la chiave di volta di un suono delicato e pur tuttavia austero. Musica estremamente intima, che cala certi umori post-rock dentro eleganti alveoli cameristici.
Aperto da "Kapsburger", una rilettura di una composizione per liuto dell’omonimo musicista cinquecentesco, l’album procede con prodigiosa eleganza e perpetuo candore nell’indagare i moti più reconditi del cuore, le minuzie dell’animo che trasfigura la sua magia in un paesaggio autunnale, al calar del sole.
È una musica che naviga come un vascello tra acque tormentate ("Canon"), che scricchiola dentro tessiture microscopiche, cercando la redenzione con crescendo vorticosi ("Death And The Maiden"), oppure rassegnandosi al gioco delle rarefazioni e delle timbriche, quando cercano di individuare possibili visioni esoteriche ("Compass").
Rispetto ai lavori precedenti, in cui le composizioni erano affidate o al solo Newsome oppure alla sua collaborazione con Dessner, si tratta di un lavoro di gruppo, e lo si avverte soprattutto nell’armonico intrecciarsi degli strumenti, sfavillanti di carica sensuale nella radiosa "5/4" (con il violino che raggiunge vette di assoluto lirismo) o raccolti in una spirale di memorie inquiete tra le pieghe di "2:3:5".
Musica da ascoltare a occhi chiusi, da gustare con il cuore più che con la mente. Un lungo viaggio a ritroso, nelle zone di penombra che farfugliano parole incomprensibili. E per cui, anche una sola lanterna accesa, timidamente accesa, potrebbe bastare a mostrarne il portento e il mistero. Come la piccolissima figura di piano che ostinatamente si ripete nella title track, tra le fragilissime parole cantate da Newsome, così le stesse corde pizzicate di "Tides Of Washington Bridge" o quelle che dialogano con gli archi in "Fiddlegree" delimitano un campo d’azione "minimo", fatto di emozioni tanto delicate quanto subdole nel giocare con la nostra condizione di umili mortali.
Alla confluenza tra musica da camera e fiammeggiante elettricità spaziale, si situa, invece, la meditazione esuberante di "The Song Of The Cricket", mentre la frenesia controllata di "Voisins" sembra portarci direttamente tra i solchi di un vecchio disco della Penguin Café Orchestra.
Insomma, Lantern è un disco dannatamente prezioso e meritevole di affetto. Perché, come sembra sussurrarci il piano solitario di "Tides (Piano)", niente è così vitale, a volte, come il vortice destabilizzante della malinconia.
Forti del successo quasi unanime di critica e di un crescente pubblico di fan, i Clogs si concedono stavolta una piccola pausa: quattro anni che separano il loro capolavoro maturo dall’album della (nuova) svolta.
The Creatures In The Garden Of Lady Walton (2010) segna infatti un passo ulteriore nella definizione della loro estetica. Composto da Newsome in quel di Ischia nel 2005, il disco riflette le impressioni scaturite dalla visita ai Giardini La Mortella, un vero e proprio paradiso botanico creato da Lady Walton (vedova del compositore britannico Sir William Walton). Con la collaborazione dell'Osso String Quartet, della magnifica Shara Worden (My Brightest Diamond), di Sufjan Stevens e di Aaron Dessner e Matt Berninger (entrambi membri dei National, al pari dell'altro co-leader Dessner), il disco rivela anche il lato più solare e bucolico di questo piccolo ensemble da camera, con un'attenzione tale per gli arrangiamenti che, spesso e volentieri, sembra di assistere a una sorta di trasmigrazione aristocratica di un universo sonoro per anni sempre cesellato intorno a un'idea di malinconico stupore dal fascino crepuscolare.
Non che qui manchino tocchi nostalgici o momenti di languido abbandono (basterebbe lasciarsi andare al delizioso incanto Penguin Café Orchestra di "I Used To Do", che prosegue il cammino intrapreso dallo scherzo a più voci di "Coccodrillo"), ma è tutto un continuo rifrangersi di sensazioni finanche opposte, in un alternarsi pacato di stati emozionali che, in ogni caso, riverberano la stessa, identica volontà di ripiegamento verso un micro-mondo di visioni atemporali ("To Hugo"). La dolcissima, intensa voce della Worden contribuisce, altrove, a regalare momenti di purissima poesia, fragile nelle sue tessiture ricche di suggestioni sfuggenti e di tonalità pastello: la delicata "On The Edge", il valzer soffuso e struggente di "The Owl Of Love" (forse il capolavoro del disco) e la ninnananna, in coppia con Sufjan Stevens, di "We Were Here". Lentamente, invece, "Adages Of Cleansing" guadagna in complessità, giostrando tra piccoli climax e sospese interrogazioni del mistero.
Nonostante l'apparente labilità delle strutture, si tratta di composizioni anche piuttosto impervie, dove le sfumature manifestano rapporti interni fondamentali per la decifrazione emozionale delle stesse. In "Raise The Flag", gli archi tingono il cielo di dolcissima disperazione, mentre "Red Seas" (cantata dallo stesso Newsome) sembra ripescare le umbratili fattezze di Nick Drake, pur se riconsegnate ad una dimensione squisitamente pastorale (dimensione che in "Last Song", con la voce di Matt Berninger, viene squarciata da presagi oscuri).
Composte interamente da Padma Newsome nella sua casa di Mallacoota, piccola perla incontaminata nella costa sud-occidentale dell’Australia, le tre tracce di The Sundown Song Ep (2013) riflettono proprio questo senso di semplicità e di quiete idilliaca. Anche la line-up finale si restringe, assestandosi in un trio, che vede Newsome (voce, viola) affiancato dalla fida Elliott al fagotto e da Kozumplik alle percussioni. Eppure, resta ancora un senso di magia, di magnetismo profondo, pur nella linearità delle trame e degli arrangiamenti, sempre spogli ed essenziali. La voce di Newsome ora assume una tonalità più profonda e solenne, accompagnata da un ukulele gentilmente pizzicato, con viola, fagotto e sottili percussioni sullo sfondo.
Domina, come si diceva, un senso di pace assoluta, fin dall’iniziale “A Hobson's Choice”, un’elegia sommessa di oltre sei minuti, intonata con piglio quasi ieratico da Newsome, in una soffice tessitura di viola e ukulele, con sporadici vocals a sostegno, a cura di Susannah Keebler. Ancor più scabro ed essenziale il canovaccio di "The World Loves Me", dove Newsome cesella una tenera e semplicissima melodia, accompagnandosi con un whistling polveroso a evocare un sortilegio sospeso nel tempo. Chiude così idealmente il cerchio l’incantevole ninnananna finale della title track, intonata in coro con il Mallacoota Community Choir: un umile, commovente riflessione sul crepuscolo della vita e dei sogni.
Nati come ensemble prettamente strumentale, in piena apoteosi post-rock, i Clogs stanno via via scoprendo come l’arte del canto possa coniugarsi superbamente alla loro musica, sia aprendola a una maggior grandiosità – come testimoniato da The Creatures In The Garden Of Lady Walton – sia riportandola alla sua forma più pura e semplice, come nelle tre tracce dell'ultimo, prezioso Ep. Come sospesi in un sogno, i Clogs continuano a meditare sul mondo e sulla sua tragica essenza "temporale". Eppure, questa volta le lacrime non sono soltanto la manifestazione più evidente di un dolore profondo.
Thom's Night Out (Brassland, 2001) | 7 | |
Lullaby For Sue(Brassland, 2003) | 6,5 | |
Stick Music(Brassland, 2004) | 7 | |
Lantern(Brassland, 2006) | 8 | |
The Creatures In The Garden Of Lady Walton(Brassland, 2006) | 7,5 | |
The Sundown Song(Ep, Brassland, 2013) | 6,5 |
Mysteries Of Life | |
Who's Down Now | |
Beating Stick | |
Lantern | |
The Owl Of Love | |
Last Song | |
The Sundown Song |
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