“Siamo insieme da 50 anni e ci divertiamo ancora a suonare. Siamo fortunati, non ci siamo mai sciolti, così non abbiamo neanche dovuto fare una di quelle terribili reunion!”. Gerry Beckley - voce, chitarra e tastiere degli America - risponde al telefono dall’altro lato dell’Oceano con lo stesso timbro gentile che ha reso immortali hit come “I Need You”, “A Horse With No Name”, “Ventura Highway” e “Survival”. Ci racconta un bel po’ di aneddoti sulla storia della band, dagli esordi sospesi tra sogni americani e vita londinese, fino all’incontro con George Martin, il leggendario produttore dei Beatles, e all’evoluzione pop degli anni 80. E non vede l'ora di tornare in Italia, per i tre concerti in programma a ottobre (13 ottobre - Roma, Auditorium Conciliazione; 14 ottobre - Bologna, Teatro Auditorium Manzoni; 15 ottobre - Milano, Teatro Dal Verme).
Che cosa proporrete nei vostri live?
Tante hit, anzitutto: saranno la parte principale dello show, ma ci sarà anche spazio per altro materiale, incluso quello del nostro ultimo album “Lost & Found”, uscito nel 2015.
Il vostro suono è sempre stato molto classico e impermeabile alle mode. Per adeguarvi al nuovo millennio, avete cambiato qualcosa?
Sono cambiate essenzialmente le tecnologie, passare da analogico a digitale modifica le modalità di produzione di un disco. Ma scrivere una canzone, con la mente e con il cuore, è rimasta la stessa operazione di quando abbiamo iniziato. Il nucleo della nostra musica, insomma, è rimasto identico.Eravate figli di militari statunitensi, di stanza nel Regno Unito. La vostra America era più sognata o reale?
Quando sei figlio di militari in missione, ti sposti sempre in giro per il mondo e fai fatica a mettere radici in un paese. Però hai un sacco di storie da raccontare. Io, ad esempio, sono nato in Texas, ma mi hanno portato in Inghilterra quando avevo solo un anno. Così del Texas non avevo ricordi, solo qualche memoria di famiglia. Poi qualche anno dopo sono stato per un po’ in Nebraska. Ad esempio, “Ventura Highway” era basata sul ricordo di un periodo che avevo trascorso in California.
E poi c'era la musica che univa le due sponde dell'Atlantico...
Già. Amavano gruppi americani come Beach Boys e Buffalo Springfield. Io poi adoravo Neil Young: “Horse With No Name” indubbiamente deve molto a lui, e “After The Gold Rush” è uno dei miei album preferiti di sempre. Era buffo: vivevamo a Londra, ma assorbivamo ricordi e suoni dall’altra sponda dell’Oceano.
Folk, rock e pop sono sempre state le tre coordinate della vostra musica. Tre ingredienti tenuti sempre in perfetto equilibrio: merito della razionalità o dell’istinto?
Forse del caso, ancora più dell'istinto (ride). Credo che un gruppo sia sempre il prodotto delle menti e delle influenze di ognuno. Io, ad esempio, mi sono formato tra country e classica: i miei primi ricordi musicali sono legati a mia madre, che era appassionata di romanticismo russo, quindi Rachmaninoff, Tchaikovsky... Ero piccolo, non sapevo neanche di cosa si trattasse, ma quei suoni mi sono rimasti dentro. Poi da ragazzino mi sono appassionato alla British Invasion, quindi ho fatto un'indigestione di pop, ma anche di blues alla Animals.
“I Need You” è stata la prima canzone che ha scritto?
Forse non proprio la prima, ma sicuramente una delle prime. Avevo solo 17 anni. Da appassionato dei Beatles, conoscevo una canzone di George Harrison, intitolata proprio “I Need You” (sull'album “Help!”, ndr), ma ne ho ripreso solo il titolo, perché il riferimento musicale erano piuttosto i Bee Gees di “First Of May”, una loro vecchia hit del 1969: l'ispirazione mi è venuta da lì.Però la chitarra di George Harrison la sento nelle vostre canzoni. Ad esempio, in una delle mie preferite: “Sister Golden Hair”.
Non è un caso. Ho conosciuto personalmente George Harrison a Londra, negli anni Sessanta. Gli ho chiesto proprio se potevamo usare il titolo “I Need You” per una nostra canzone e lui mi disse che non c'erano problemi. Poi, sì, lui è sempre stato uno dei miei chitarristi preferiti. Non era un virtuoso, un superveloce, ma sapeva usare la chitarra per esprimere bene quello che aveva in mente, aveva una grande sensibilità pop. Ad esempio, George Martin, lo storico produttore dei Beatles con cui abbiamo fatto sette dischi, ci raccontò che “And I Love Her” era tutta nel suo arpeggio di chitarra, quelle quattro note erano il marchio della canzone.
Com'è stato lavorare con una leggenda come George Martin?
È stato un grande dono per noi. Lo abbiamo sempre ritenuto un genio, così provammo a chiedergli se fosse interessato a lavorare con noi. Lui ne fu addirittura entusiasta. Ne è nata una collaborazione molto proficua per tutti, grazie anche al suo lavoro sono nati successi come “Tin Man”, “Lonely People” e proprio “Sister Golden Hair”.
E ovviamente si avverte molto l’influenza dei Beatles nelle vostre canzoni di quel periodo...
Beh, era la firma di George Martin, un produttore che di quel suono è stato uno dei grandi artefici.
Anche suo figlio Matthew è un musicista, ma ha lavorato in campi decisamente diversi: è stato in tour con Katy Perry e ha collaborato con popstar come Ke$ha, Britney Spears. Come vi trovate a dialogare di musica? Vi piacerebbe suonare insieme?
Lui è più che altro un produttore, ha lavorato anche a una hit di Camila Cabello, “Havana”. Si occupa in particolare delle parti vocali.
Parti vocali che sono sempre state importanti anche per voi...
Lui scherzando mi dice proprio che l'ho rovinato facendogli ascoltare la nostra musica e invitandolo a notare tutti i dettagli, togliendogli il gusto di ascoltarla e basta. È diventato un perfezionista.
In Italia siete stati anche al Festival di Sanremo, nel 1982, con “Survival”. Che cosa ricorda di quell’esperienza?
Era è una cosa un po' folle… “totally pazzo”! (ride). Ricordo anche Sanremo, questo bel paesino sulla costa, dove ti sedevi a tavola e non cenavi prima di mezzanotte.
Erano anni d'oro per Sanremo in quel periodo, con ospiti come voi, David Bowie, Peter Gabriel, Depeche Mode...
Insieme a noi quell'anno c'erano anche i Van Halen e gli Stray Cats! Facevano uno strano effetto i Van Halen in quel contesto. Era pazzo, appunto.
Ricorrendo al più banale dei giochi di parole, gli America come vedono l'America di oggi?
Siamo sempre stati elettori democratici, quindi… Ma non è tanto questo il punto. Finora, chi guidava il paese – che fosse repubblicano o democratico - aveva sempre cercato di rappresentare tutti, anche quelli che non l'avevano votato. Non è più così con Donald Trump, purtroppo. Sono tempi di grandi divisioni, e non solo negli Stati Uniti. Tempi duri, insomma, pieni di angosce e preoccupazioni.
Cerchiamo di tirarci su il morale: come festeggerete i 50 anni di attività?
Ci sarà un documentario tv su di noi, dopo i concerti in Italia ne faremo altri in Europa. Intanto la Warner sta preparando un box-set celebrativo per i 50 anni e anche la Capitol, con la quale lavoravamo negli anni 80, sta preparando un'antologia. Insomma, c'è tanto da festeggiare!
(07/10/2018)
(Versione estesa di un'intervista pubblicata sul quotidiano Leggo)