Il polistrumentista milanese Maurizio Marsico è stato un pioniere semi-clandestino della prima stagione disco-pop italiana (italo-disco), capace di passare dalle esperienze nella Rai con Serena Dandini nella trasmisione degli anni 80 "Obladì Obladà", alle più smaccate sonorità disco - spesso al confine tra ironia e trash - fino a svariate collaborazioni che comprendono l'avanguardia e la musica cosmica. Dopo alcuni anni di assenza, nel 2017 è tornato con "The Sunny Side Of The Dark Side", album che rievoca i primi anni della sua carriera, con la collaborazione cosmica insieme al maestro italiano dei synth Riccardo Sinigaglia ("Nature spontanee"), e infine col recentissimo "Post Human Folk Music". Di questo e altro abbiamo parlato in questa intervista.
La tua carriera di musicista inizia negli anni 80 con la tua principale creatura, la Monofonic Orchestra. Allora eri un giovane musicista che spaziava tra avanguardia e italo-disco, quali erano le tue vere ambizioni?
Può sembrare strano dirlo oggi, in un tempo in cui la notorietà si misura in quantità di follower e il cosiddetto mondo dello spettacolo è costellato di personaggi che prima ancora di essere artisti sono famosi solo per esser famosi, ma nel mio caso non fu mai l’ambizione il fattore scatenante, semmai l’urgenza insopprimibile di voler esprimere la mia personale prospettiva musicale ritenendo che essa fosse importante al pari delle numerose altre. L’immaginazione sonora è sempre stata per me il “sacro fuoco” che mi spingeva, e che continua tuttora a spingermi a fare ciò che faccio, come a immergermi nei progetti nei quali scelgo di calarmi. E’ allo stesso tempo punto d’origine e destinazione finale, al di là dei riscontri più o meno oggettivi. La musica per la musica, l’arte per l’arte. Certo, se le mie cose piacciono, ne sono felice e anche molto, ma non ho mai spostato né mai sposterò una virgola, solo per avere quel briciolo di consenso in più o per compiacere chicchessia… Parafrasando gli Area: il mio mitra è il sintetizzatore che ti spara sulla faccia ciò che penso della vita. Oggi come allora e forse anche di più.
Sei stato sempre affascinato dalla tecnologia come strumento utile per realizzare le proprie idee artistiche ed espandere le proprie possibilità. Inutile dire quanto sia cambiato il mondo dai tuoi esordi ad oggi; pensi davvero che oggi il musicista sia più libero di esprimersi rispetto a 40 anni fa?
In fondo, non è poi così cambiato. La libertà d’espressione è anzitutto un fatto mentale, spirituale e fisico e gli strumenti erano, sono e restano (appunto) strumenti, in grado di consentire il livello di libertà che decidi di avere o che meriti di avere. Si può rimanere conservatori, anche in musica, pur avendo a disposizione gli ultimissimi apparati tecnologici, come diventare innovativi utilizzando gli strumenti tradizionali in modo inconsueto. Un coltello puoi usarlo per tagliare un pezzo di pane o per potare una rosa, come cacciavite o arma da difesa o peggio da aggressione. I nuovi moduli eurorack consentono un’infinità di connessioni moltiplicabili per un’infinità di opzioni. Libertà che anche in questo caso significa soprattutto libertà di scelta. Scegliere o non scegliere di andare oltre la propria comfort zone e i propri cliché? Si potrebbe anche decidere di spegnere la macchina e iniziare a fischiettare come un fringuello in anfetamina e poi scoprire che, in quel determinato momento, fosse proprio quella la cosa più giusta da farsi.
Hai registrato una quantità di album esorbitante, ho letto nella tua intervista a Solchi Sperimentali Italia di una quarantina di album sotto pseudonimi diversi, spesso introvabili. Non ti sembra contraddittoria questa prolificità accostata anche a una sorta di mimetismo sotto nomi diversi ?
Il vero oggetto del mio lavoro e della mia ricerca, con e sulla musica, riguarda proprio la frammentazione della sua interezza (a partire dall’ideazione fino a finalizzazione, riproduzione, supporti etc.). Frammentazione come capacità ricombinatoria e non come forza disgregatrice. Frammentazione della sostanza e della forma e anche degli elementi più marginali e periferici che attengono alla forma (nomi, titoli, formati, promo video, cover art, locandine etc.), trattati come frammenti interconnessi e autonomi per essere poi ricomposti, ricombinati, risuonati, riregistrati, rigenerati. Per me la frammentazione non è frutto di un’eccentrica omnivaghezza, ma è una ragion d’essere precisa, figlia di un pensiero artistico/musicale organico. E’ la convergenza del molteplice. E noi tutti, oggi più che mai, siamo moltitudine, facciamocene una ragione.
Negli ultimi anni sei tornato con la raccolta di vecchi brani di "The Sunny Side Of The Dark Side" (2017) che sintetizza il meglio della tua vecchia produzione anni 80 e, sempre nello stesso anno, un lavoro legato alla musica cosmica con uno dei pionieri italiani del genere Riccardo Sinigaglia ("Nature spontanee"). Due Lp completamente diversi tra loro che rappresentano due facce della tua personalità?
Esatto, due facce della stessa personalità. Ma quale facce, di quale me? Chi siamo io?
"Post Human Folk Music" è il tuo recentissimo album che contiene “Sticky Metal Tiles”, un ambizioso brano di ben 45 minuti, un lungo collage ricco di influenze. Cosa vuole dirci Maurizio Marsico oggi, dopo più di 40 anni di carriera?
Se avessi saputo dirtelo, l’avrei senz’altro detto, o magari scritto in un libro. Un disco di musica totalmente (o quasi) strumentale è, purtroppo o per fortuna, “indicibile” per definizione. Quello che però posso assolutamente e sinceramente dirti è che mi è piaciuto davvero molto pensarlo, suonarlo, registrarlo e che spero davvero che il medesimo entusiasmo possa arrivare, e con meno filtri possibile, anche alle vostre orecchie, insieme a ciò che di mio potrete cogliere e a ciò che di vostro potrà far riemergere.
Gli altri due brani citano il maestro del minimalismo Terry Riley; cosa ha rappresentato per te Riley e in generale la scuola del minimalismo americano?
La ripetizione come modo di cambiare, soprattutto l’approccio uditivo alla musica. L’utilizzo di pattern melodico-ritmici sovrapposti, che come insinuanti mantra demolivano l’ascolto (occidentale) convenzionale in favore di una modalità percettiva (orientale) trascendente. Una rivoluzione gentile di cui Terry Riley (compositore eccezionale ed essere umano adorabile) fu tra i principali fautori.
Parli spesso di tecnologia, cosa pensi delle nuove generazioni nate con gli iPhone, pensi siano più fortunate? E’ possibile pensare a una correlazione proporzionale oppure inversa tra tecnologia e creatività?
Le nuove generazioni hanno una consuetudine quotidiana agli upgrade tecnologici. Per la nostra il walkman o il videoregistratore furono invenzioni sconvolgenti che contribuirono anche al cambiamento del modo di vivere, ma mai così tanto come gli smartphone o le auto elettriche o in generale lo sharing. Per i millennials il rapporto con la tecnologia è più profondo e più articolato, per noi in fondo erano soltanto cose o semplice televisione: elettrodomestici, comunque niente che ci potesse impedire lo stesso di uscire fuori casa. E’ l’incontro, il confronto e a volte lo scontro il sale vero della creatività. Che tu l’abbia via Skype o al Deux Magots di Parigi, in fondo è uguale.
L’ironia credo sia stata un elemento importante della tua discografia. Questo fa parte del tuo carattere o c’è anche una critica alla musica eccessivamente accademica?
In effetti, un po’ tutte e due le cose. Se non mi sentissi così felicemente incatalogabile, potrei riconoscermi anche nel più “accademico” dei rocker o nel più rock degli accademici. Oppure tout-court: alternativo all’alternative. Scherzi a parte, l’Accademia con la maiuscola è soprattutto uno stato mentale che riguarda non solo i baronati istituzionali. Si può coglierne la puzza sia sopra che sotto la catterdra.
Cosa pensi della scena musicale contemporanea, ci sono scene che segui con maggiore interesse?
Mi piace molto il genere Hauntology e tutta la produzione Ghost Box, in particolare The Belbury Poly, The Advisory Circle, The Focus Group, penso anche che alcuni dei miei primi dischi (in particolare Music Design, Friends Portraits e Invito a Cena) possano definirsi a tutti gli effetti, ma inconsapevolmente, precursori del genere. C’è poi un musicista che apprezzo e stimo in particolar modo, sia per il talento che per i guizzi geniali, e con cui mi piacerebbe quanto prima mettere in cantiere un lavoro a quattro mani: si chiama Stefano di Trapani alias System Hardware Abnormal alias Demented Burrocacao. In lui ho riconosciuto le stigmate di un’irrequietezza artistica di sostanza con cui dialogare di suoni e di note.
Negli anni 60 e per una parte degli anni 70 si pensava che la musica potesse contribuire a cambiare il mondo. Dopo le cose sono cambiate, ma una parte dei musicisti ha ancora un approccio critico della società contemporanea (ho da poco visto il bellissimo concerto di Roger Waters). Tu pensi che la musica debba portare con sé dei messaggi o pensi - come John Cage che diceva che la musica è solo suono - sia necessario scindere le due cose?
In un mondo sempre più umanamente meschino, sebbene in perpetuo cambiamento, sempre più disegualmente governato, sebbene tecnologicamente progredito, sempre più regolato dal profitto, sebbene naturalmente agonizzante, la meravigliosa inutilità della musica è al tempo stesso il suo valore più inestimabile, come l’ultimo sorriso dell’ultimo rinoceronte bianco.