
Christina, in divisa da CBGB's: pantaloni di pelle, stivali, piume nere e quello sguardo killer che ha fatto perdere la testa a Jon Spencer in quel famoso concerto dei Jesus & Mary Chain, ormai quasi vent'anni fa. I Boss Hog si presentano con qualche chilo in più, ma con la stessa musica di sempre: garage-rock abrasivo come carta vetrata, spezzato e insieme arricchito con profondi inserti rock-blues à-la Jon Spencer (appunto), un tizio che sembra nato con la Stratocaster in mano.
Nonostante la produzione un po' discontinua (i Boss Hog sono sempre rimasti un progetto minore per Spencer), di cartucce ne hanno parecchie, ed è roba pesante: "Ski Bunny", "Winn Coma", "Gerard" sono delle schegge di follia e rumore con Christina che grida nel microfono quei ritornelli totalmente punk, per poi camminare come una pantera in gabbia da un lato all'altro del palco, accompagnandosi con la sua voce bassa e sexy. La regola è zero pause, e anche se "Get It While You Wait" e "Whiteout" suonano un po' più morbide, i Boss Hog ci stanno violentando i timpani.
E' una musica meravigliosamente reazionaria, americana, primitiva, fuori moda. Pochi effetti agli strumenti e una batterista che è uguale a una mia ex collega che lavora alla Roche (anche questa qui secondo me lavora alla Roche, ma come cavia). Siamo un pubblico adulto, si sbaglia da professionisti, loro sembrano i nostri Creedence, e mentre tutti i ragazzini sono a vedere Andrew Bird che suona il violino (grazie al cielo) ci godiamo uno spettacolo di vera old school del garage, musicisti che pestano, e più pestano più godono, e più godono più si muovono, e più si muovono più sudano, e più sudano più pestano, e via ad andare.
Nonostante la produzione un po' discontinua (i Boss Hog sono sempre rimasti un progetto minore per Spencer), di cartucce ne hanno parecchie, ed è roba pesante: "Ski Bunny", "Winn Coma", "Gerard" sono delle schegge di follia e rumore con Christina che grida nel microfono quei ritornelli totalmente punk, per poi camminare come una pantera in gabbia da un lato all'altro del palco, accompagnandosi con la sua voce bassa e sexy. La regola è zero pause, e anche se "Get It While You Wait" e "Whiteout" suonano un po' più morbide, i Boss Hog ci stanno violentando i timpani.
E' una musica meravigliosamente reazionaria, americana, primitiva, fuori moda. Pochi effetti agli strumenti e una batterista che è uguale a una mia ex collega che lavora alla Roche (anche questa qui secondo me lavora alla Roche, ma come cavia). Siamo un pubblico adulto, si sbaglia da professionisti, loro sembrano i nostri Creedence, e mentre tutti i ragazzini sono a vedere Andrew Bird che suona il violino (grazie al cielo) ci godiamo uno spettacolo di vera old school del garage, musicisti che pestano, e più pestano più godono, e più godono più si muovono, e più si muovono più sudano, e più sudano più pestano, e via ad andare.
Christina ogni tanto ammicca verso gli altri, poi ci guarda dall'alto in basso sorridendo, come a dirci: "Buttatevi nel pozzo", e mentre sento l'impulso di farlo, mi rendo conto che non voglio essere come PJ Harvey (troppo brutta), non voglio essere come Fiona Apple (troppo sfigata), non voglio essere come Joanna Newsom (troppo snob), non voglio essere come Patti Smith (troppo vecchia), non voglio essere come la cantante degli Yeah Yeah Yeahs (troppo fashion), non voglio essere come tutte le pallide figure femminili indiefolkrock degli ultimi 10 anni. Voglio essere come Christina Martinez: con i capelli corvini che si arruffano per il sudore, un filo di trucco, i vestiti che sembrano sciogliersi da un momento all'altro, il braccio intrappolato tra il cavo del microfono, quarant'anni e non sentirli, a urlare: "One. Two. Fuck. You!".
Il rock'n roll freddino delle Micragirls, spalla modesta ma coraggiosa, semplicemente sparisce davanti a questi mostri a stelle e strisce.
Il rock'n roll freddino delle Micragirls, spalla modesta ma coraggiosa, semplicemente sparisce davanti a questi mostri a stelle e strisce.