Il 23 gennaio 2009, solo per qualche ora, l’Estragon di via Stalingrado 83, ha confinato con Tucson, Arizona. Il gelo che attanagliava il folto pubblico all’esterno della struttura è stato spazzato via in meno che non si dica da una ventata di calorose note e divertimento. Tutti erano qui per vedere i Calexico di Joey Burns e John Convertino, ogni fan sa bene che un assistere a un loro concerto è l’equivalente di una (breve, purtroppo) crociera sull’oceano, o di un viaggio in macchina (rigorosamente una Thunderbird con la capotta abbassata) per le strade assolate e semideserte del Messico.
L’opening act è affidato all’attuale chitarra solista della band, il giovane Jairo Zavala (aka Depedro), che ci sa fare, ed è una via di mezzo tra l’eclettismo dei Calexico e la tradizione rock di Los Lobos e Ry Cooder. Ma questo piccolo spettacolo diventa, di fatto, un vero e proprio prologo al concerto vero e proprio, perché di canzone in canzone si alternano sul palco Burns, Convertino e Paul Niehaus (pedal steel) e gli altri componenti del gruppo. Uno stacco di pochi minuti non cancella il coinvolgimento, i Calexico sono di nuovo sul palco, e regalano un’esibizione appassionata e memorabile che è anche (così come il loro ultimo lavoro, il sottovalutato "Carried To Dust") un compendio di oltre dieci anni di attività.
Nel corso delle quasi due ore di musica non stop si ripercorrono i passi di una carriera più che onorevole, in cui Convertino, Burns e compagnia bella non hanno mai smesso di tentare nuove strade e stupire i loro fan. Con "Minas de Cobre (For Better Metal)" e "El Gatillo (Trigger Revisited)" si è catapultati in uno spaghetti western musicato da Morricone, ma i Calexico non sono gli Ween, non c’è ironia nella loro musica, ma solo sincera passione nei confronti dei loro numi tutelari, e indubbia professionalità.
C’è spazio per momenti più delicati e romantici, come la sognante "Sunken Waltz", così come per canzoni di denuncia, come la tirata "Deep Down", scritta nel corso di una manifestazione contro la presidenza Bush. Larga presenza, ovviamente, di brani dai loro ultimi album (tra cui "Garden Ruin", indigesto a molti loro appassionati), a discapito, purtroppo, di capolavori come "The Black Light".
Tra le cose più riuscite si ricorda il folk sommesso di "House of Valparaiso", in cui non si nota nemmeno tanto l’assenza del collega/amico Sam Beam (ovvero Iron & Wine), "Inspiracìon", scritta e interpretata dal talentuoso trombettista Amparo Sanchez, dove si torna alla tradizione mariachi, mentre il bellissimo pop di "Two Silver Trees", che su disco riusciva così elegantemente a fondere suoni latini e asiatici, perde un poco della sua forza in versione live (lo stesso dicasi di "Not Even Stevie Nicks…", abbozzata e irrisolta nel finale, peccato).
La chiusura è affidata al ritornello solare e da stadio di "Victor Jara’s Hands" (il pubblico si scatena urlando "olè olè") e ai ritmi latini e festosi della nota "Guero Canelo", che si trasforma in una lunga jam che cattura la partecipazione di tutti gli spettatori.