Guardo sempre con molta curiosità ai periodi di attesa.
Lo spazio che intercorre tra l'uscita di due dischi di una band si popola di creature strane, pur inquadrabili sotto vari filoni.
C'è chi inizia a preparare commenti coccodrillo ("dopo il disco precedente la band è morta"; "è difficile ripetersi dopo il disco precedente" etc.), chi si culla in mausolei di fede incrollabile ("è sempre stata una grande band e il prossimo disco lo sottolineerà ancora una volta"; "qualunque cosa farà la band sarà sempre grande" etc.), chi, semplicemente, fa finta di sbattersene ("ormai sono ben dieci anni che la band è attiva, mi son rotto i coglioni - ndr: ormai possiamo usare il termine, dato il recente sdoganamento - il prossimo non lo sentirò nemmeno"), salvo poi essere fra i primi a sentirsi il disco ("ha vinto la curiosità").
Il quadro, già molto comico di per sé, viene puntualmente tenuto a livello di circo dai musicisti stessi ("il disco sarà un ritorno alle radici"; "il disco è il migliore che abbiamo mai scritto"; "nel disco c'è un pezzo con la cornamusa filibustiera" etc.).
Ormai anche i Calexico sono riusciti a crearsi un seguito molto popoloso (meritatissimo).
La band è stata sempre e comunque monotematica, e già "Feast of Wire" era stato accolto da critiche contrastanti.
L'uscita di un Ep con Iron&Wine ("In The Reins") lo scorso anno e le dichiarazioni di Burns e Convertino ("faremo un disco fortemente orecchiabile, pop") avevano quindi permesso la creazione delle suddette condizioni climatiche "da grande band".
Bene, finalmente "Garden Ruin" è uscito e possiamo dirlo: una volta tanto, è stata detta la verità. L'album rappresenta una nettissima svolta e nella composizione e nel suono: undici canzoni, e non canzoni-Calexico (tranne un paio), ma canzoni in senso classico, molto country, molto pop, molto folk, niente bozzetti strumentali, niente o quasi "spazzolate desertiche".
Basta la traccia iniziale, "Cruel", per stabilire le coordinate e la misura di quanto possa dirsi riuscito il primo atto del nuovo corso (sarà così?) della band. Il pezzo è aperto da arpeggi cupi che si stemperano in un melodismo estremamente romantico, "aperto" nel suo dipanarsi sin troppo scolastico.
L'incedere melodico è un po' zoppicante: indeciso sul versante da prendere, si divide equamente fra gli afflati, senza approfondirne nessuno. I fiati nel finale servono solo ad agitare le acque e confondere ulteriormente le idee.
Lo spettro trattato si allarga man mano che procede il disco: "Yours And Mine" tenta la carta del tenero abbozzo folk-pop, troppo classico e di maniera per convincere; "Bisbee Blue" invece si butta sul country-pop, anch'esso con gli stessi difetti e ancora meno riuscito essendo, anche come standard, senza arte né parte.
"Panic Open String" prova a convogliare quanto sin ora emerso in unico brano, sussurro carezzevole e levigato, flauti a profondere quiete: il risultato è ancor più anonimo, e pure soporifero se ascoltato nel contesto.
La materia trattata sembra lontanissima dalla sensibilità di Burns e Convertino che non riescono a mettere l'anima nei pezzi, lasciandoli scorrere senza emozioni di sorta.
Una parziale smossa riesce a darla "Letter to Bowie Knife", inattesissimo rock (ma non c'è nulla di previdibile in questo disco), che, nonostante continui a lasciare l'impronta di una band fuori luogo, piazza due convincenti sberle a quanto sentito sinora e si lancia in aperture da anthem.
E' il momento migliore e a profittarne arriva un mezzo tuffo nel passato con "Roka", che porta con sé la notte, la voce si fa bassa (e fa apprezzare i miglioramenti del canto di Burns), tex-mex ammiccante, suadente danza de la muerte in duetto con voce femminile.
"Lucky Dime" punta invece addirittura ai Beatles adulti, col suo incedere di tastiere da pop di classe.
Da qui in poi accade poco altro, con il, presuntissimo, crescendo emozionale di "Smash", con il banalissimo (e quasi irritante) rockettino base di "Deep Down" e con "Nom de Plume", diversivo fumoso in sobborghi francesi che in questo disco pare chissà quale genialata, mostrando palesemente la cifra qualitativa di "Garden Ruin".
Si fa notare, in pratica, solo il colpo di coda, "All Systems Red", che indovina arpeggi realmente toccanti, dilatandosi su binari post-rock, guaendo, ferita, fino alla morte.
In generale, una delle poche cose buone.
I Calexico hanno mostrato grandissimi imbarazzi in questo, tutto sommato maldestro, tentativo pop.
Una correzione giusta potrebbe appunto essere quella di virare, restando sulle canzoni, su territori più rock o di fare un disco di pezzi alla "Roka".
Se decideranno di insistere su questa via, invece, hanno tutto il mio incoraggiamento e, spero, anche quello di tutti voi: ce n'è davvero bisogno.
11/04/2006