"Feast Of Wire" è il terzo capitolo della saga dei Calexico (quarto, se contiamo l'esordio a nome Spoke). Smaltita la sbornia tex-mex di fine Novanta, tramontata la stagione d'oro di post-pock e dintorni, la band di Tucson (Arizona) si ritrova a meditare sul suo sound nel tentativo di rigenerarlo. La via maestra è allora la vena psichedelica già emersa soprattutto in "Hot Rail". Una psichedelia assai poco narcotica, perché come spiegava lo stesso Burns qualche tempo fa, "in Arizona non c'è bisogno di droga per essere su di giri, la psichedelia è nell'aria, nel sole, nel cielo. Per quanto mi riguarda, mi bastano la tequila e del buon vino messicano".
"Feast Of Wire" è una festa di cavi intricati, conduttori di gioia e malinconia, di storie minimali e di film immaginari, di struggimenti d'amore e malinconie crepuscolari. È un nuovo viaggio nel cuore del deserto, nell'America profonda della Frontiera. Un "road movie" che si consuma tra la sabbia infuocata dell'Arizona e le suggestioni delle "fieste" messicane. Ma è anche il jazz a farsi largo: trombe e tromboni surriscaldano un cocktail di rock e mariachi, folk e country, ballate in odor di Neil Young e paesaggi sonori alla Ennio Morricone. Affiorano anche alcune novità assolute per i Calexico: da un certo esotismo lounge negli arrangiamenti a qualche sprazzo di elettronica.
L'album contiene sedici tracce, di cui nove strumentali, per quarantasette minuti di musica che si collocano a metà strada tra i due dischi precedenti: più vario di "Hot Rail", meno brillante del loro capolavoro "Black Light", "Feast Of Wire" dimostra soprattutto che l'affiatamento raggiunto dai Calexico è ormai al culmine. La comune militanza nei Giant Sands, le collaborazioni con Lisa Germano e Shannon Wright ne hanno affinato l'eclettismo: è soprattutto Joe Burns a imperversare tra corde, tasti, fiati, archi, voci, pelli, mentre John Convertino dà corpo e ritmo al suono.
L'iniziale "Sunken Waltz" è un valzer country caldo e suadente che unisce Neil Young e gli Eagles. I sapori caraibici di "Quattro (World Drifts In)" evocano bevute di tequila e caldi pomeriggi assolati nel deserto. "Stucco" è un breve intermezzo strumentale che traghetta nelle atmosfere noir di "Black heart", perfetta miscela di melodia e rumore, archi e chitarre distorte, che sembra proprio provenire dai recessi più oscuri dei Black Heart Procession. Ma a brillare sono anche la lentezza studiata e cerebrale di "Pepita", le atmosfere notturne di "Not Even Stevie Nicks", ovvero Neil Young che sposa i Mercury Rev in una ballata lieve e finemente psichedelica, la cavalcata nel west di "Close Behind", che strizza l'occhio al Morricone spaghetti-western della trilogia di Sergio Leone.
La seconda parte del disco è più marcatamente sperimentale. "The Book And The Canal", introdotta da soffici accordi di piano e dal suono magico di un violino in lontananza, è un piccolo gioiello d'austerità classica di 1'45'', "Attack el Robot! Attack!" un delizioso pastiche che mescola trombe, leggere dissonanze, rumori e un'elettronica minimale. A rinnovare l'ebbrezza tex-mex è "Across The Wire", con le sue cadenze da festa mariachi, mentre "Guero Canelo" indugia su sonorità latine un po' abusate. Se "Whipping The Horse's Eyes" è un'inaspettata digressione ambient, "Crumble" conduce in un terreno apertamente jazz, con un'orchestra mariachi in acido che accorda gli ottoni nella stessa tonalità di "Hot Rail". "No Doze", infine, chiude il disco all'insegna di un post-rock impastato di polvere e sabbia.
Variegato ed eclettico, al punto da smarrire talvolta il suo filo conduttore, "Feast Of Wire" è un altro saggio di bravura da parte di questo peculiare "ensemble da camera del deserto". Mancano forse i brani da ko immediato di "The Black Light", ma i Calexico confermano di possedere un armamentario di suoni e suggestioni non comune nel panorama attuale.
26/10/2006