Era la notte dell'ultimo dell'anno, nei sobborghi di Long Island. Erano gli inizi di un nuovo decennio, il decennio che avrebbe fatto di Bruce Springsteen l'icona della rockstar nata negli U.S.A.. Ma in quel 31 dicembre del 1980, nel catino del Nassau Coliseum di Uniondale, New York, c'era spazio solo per un torrenziale, incontenibile rock 'n' roll party: oltre trenta canzoni, quasi quattro ore di musica. Roba da leggenda. Springsteen non aveva ancora mai messo piede in Italia, eppure già si favoleggiava di quel memorabile tour de force, tramandato attraverso il cofanetto di un bootleg consumato dai fan. Chi avrebbe mai immaginato di poter partecipare, un giorno, a qualcosa di simile proprio in Italia?
Che il legame di Springsteen con lo stadio milanese di San Siro fosse qualcosa di molto speciale lo si sapeva praticamente da sempre: è lì che, alle porte dell'estate del 1985, è nato il suo viscerale rapporto con il pubblico italiano. Un rapporto rinnovato sotto il diluvio del 2003, confermato nonostante le imposizioni di orario del 2008. Ma stavolta, per Springsteen, è stato qualcosa di più: uno dei concerti più lunghi di tutta la sua carriera, a un passo da quello storico capodanno del 1981. Chissà se l'aveva già in mente, quando si è affacciato sul palco accompagnato come sempre dalla liturgia delle note di Morricone. O se invece è stato il coro ininterrotto dello stadio di San Siro a trascinarlo oltre. Una cosa sola è certa: per chi era lì, in quella lunga notte del 2012, il sorriso stampato sulla faccia di Bruce sarà qualcosa di difficile da dimenticare.
Un concerto della E Street Band è come una riunione di famiglia: ci si abbraccia con i parenti lontani, ci si racconta come sta andando il mondo, ci si ferma a giocare con i bambini. Ci si guarda negli occhi in silenzio pensando a quelli che non ci sono più. Dov’è Patti? È rimasta a casa con i figli, ma vi saluta tutti. E guarda com'è diventato grande il nipote di Clarence...
Eh sì, sembrava impossibile immaginare un tour della E Street Band senza Clarence Clemons. E invece Bruce, senza fingere di poter rimpiazzare quel vuoto incolmabile, si è inventato una sezione di fiati capace di rinnovare l'anima del gruppo, raccogliendo l'eredità dei vecchi Miami Horns. La musica torna così a colorarsi di tinte soul, nel solco di quel "Jersey Shore sound" tanto caro al giovane Springsteen. Basta sentire come il gospel di "My City Of Ruins" si mescola alla melodia di "People Get Ready" sulle note solenni dell'organo, mentre Bruce dà libero sfogo al suo lato da predicatore: "Questa è una canzone di saluti e arrivederci, delle cose che ci lasciano e delle cose che rimangono per sempre", annuncia nel suo traballante italiano da pontefice del rock 'n' roll. Presenta ad uno ad uno i membri vecchi e nuovi della band, poi incalza la folla con la domanda che tutti hanno nel cuore: "Manca qualcuno?". Sopra l'oceano di teste spunta un cartello: "Danny e Clarence sono qui". "Posso sentirli nelle vostre voci", risponde Springsteen. E l'ovazione che si leva è tutta per loro.
Il predicatore chiama a raccolta l'assemblea, i fiati fanno materializzare dal passato il fantasma di "Spirit In The Night". Lui si siede sui gradini del palco e incomincia a raccontare ancora una volta la storia di Crazy Janey e dei suoi angeli zingari. Una selva di mani si protende verso di lui, chiamandolo ai primi bagni di folla della serata. Non è semplice idolatria da rockstar, è qualcosa che ha più a che vedere con una condivisione a cui tutti sanno di poter partecipare in prima persona. Come quando Springsteen si blocca nel bel mezzo della canzone per prendere dal pubblico un pupazzo gonfiabile con la sua faccia, con cui gioca a fare il ventriloquo: c'è l'istinto innato dell'istrione, certo, ma anche l'affiatamento con una platea capace di assecondare alla perfezione i tempi di ogni smorfia.
Dal passato remoto di "The E Street Shuffle" si passa al presente della crisi ("so che anche qui è stata durissima"), con gli accendini che si uniscono alle luci irreali dei cellulari per una "Jack Of All Trades" dedicata a "tutti quelli che stanno lottando". Tra i brani di "Wrecking Ball", però, è soprattutto la festa amara di "Death To My Hometown" e "Shackled And Drawn" a dare voce alla fatica di ricominciare a sperare. Le immagini di "Johnny 99" suonano allora più vivide e contemporanee che mai, anche quando il pianoforte di Roy Bittan contribuisce a trasformarle in una scorribanda alla Jerry Lee Lewis. Del resto, non è forse lo spirito di Re Elvis in persona quello che Springsteen chiama in causa nei balletti di "Working On The Highway", alla ribalta della scena armato della sua chitarra acustica?
Solita sindrome springsteeniana, starà già pensando chi non c'era. Possibile che quando si parla di un concerto del Boss sia sempre tutto epico? No, nella notte di San Siro non è tutto perfetto: tanto per cominciare, l'acustica dello stadio appiattisce inevitabilmente il suono di una band così affollata. E poi la scaletta riserva meno sorprese del solito ai fedelissimi: in pratica solo i brividi di una solitaria "The Promise" al pianoforte, in risposta ai cartelloni di richieste che come sempre si assiepano nelle prime file.
Ma non è questo il punto. Anche nei momenti più deboli (dal riffone alla Bon Jovi di "Radio Nowhere" al rap insipido di "Rocky Ground"), il legame tra Springsteen e il suo pubblico è capace di trascendere ogni cosa, di dare ad ogni sguardo una prospettiva che va oltre il semplice rituale del concerto rock. Può permettersi persino di sbagliare per ben due volte l'attacco di "No Surrender": non importa a nessuno, quando si è fratelli di sangue. Perché, nel momento in cui grida "San Siro" a pieni polmoni, tutti sanno che sta parlando di un patto suggellato per sempre. Tutti sanno che nelle sue dichiarazioni d'amore ("You are always primo, always the best") non c'è spazio per la retorica.
Così, da "Out In The Street" in poi, le voci diventano un tutt'uno con la musica, in una sorta di inscindibile comunione a cui Springsteen stesso sembra voler consegnare le sue canzoni. Persino i bambini che chiama a cantare come al solito in "Waitin' On A Sunny Day" sembrano sapere a menadito tutte le parole. "Everybody's got a hungry heart", intonano migliaia di voci: ed è proprio il riconoscersi reciproco di questi cuori affamati ad accomunare i ragazzini che saltano nel pit e gli attempati padri di famiglia seduti sugli spalti, facendoli stringere in un unico grido, in un unico desiderio.
La fanfara di "We Are Alive" recupera tutto lo slancio folk delle "Seeger Sessions": una "ghost story", la definisce Springsteen, e le ombre dei ragazzi che ballano ai margini della folla al ritmo di quella danza antica sembrano abbracciare i fantasmi dei lavoratori delle ferrovie, i fantasmi delle vittime innocenti, i fantasmi di tutti quelli che sentono di essere ancora vivi. Tutti pronti a salire sul treno diretto verso la terra della speranza e dei sogni: "Faith will be rewarded", canta Springsteen, ed è impossibile dubitarne quando lo si ascolta dalla sua voce.Non c'è un attimo di pausa nemmeno prima dei bis, alla faccia degli oltre sessant'anni di Springsteen. Con la sua eterna aria da impiegato, Max Weimberg picchia senza sosta sulla batteria, mentre Steve Van Zandt continua a gigioneggiare sornione alla chitarra, unica vera spalla ormai rimasta a Springsteen per i suoi immancabili siparietti.
"One, two, three, four" e tocca già a un'altra canzone. Canzoni facili, si potrebbe obiettare, ma andate a dirlo a chi aspettava da 25 anni di sentire "Cadillac Ranch"... Quando parte "Born In The U.S.A." si vede gente lanciarsi in corsa avvolta nella bandiera a stelle e strisce, poi le luci dello stadio si accendono a giorno come per la finale dei mondiali ed ecco arrivare la cavalcata di "Born To Run". I fan sono capaci di spiazzare persino Springsteen, come la ragazza che su "Dancing In The Dark" chiede di ballare con Jake Clemons invece che con Bruce (salvo alla fine saltargli in braccio con un bacio da far ingelosire Patti...). Non sarà ancora rodato su tutti i numeri della E Street Band, ma per Jake è un gran bel passaggio di testimone. E quando su "Tenth Avenue Freeze-Out" i maxischermi regalano ancora una volta le immagini di Big Man, solo chi ha un cuore di pietra potrebbe rimanere indifferente.
È a quel punto, forse, che qualcosa si accende negli occhi di Springsteen. Magari mentre è sdraiato sul palco, con Little Steven a innaffiarlo d'acqua con una spugna gigante. Il concerto è finito, la E Street Band saluta Milano, gli operai sono già pronti per smontare il palco. Ma lui non riesce a smettere. Incita la folla indemoniato, poi attacca a sorpresa un'incandescente "Glory Days". Ma non basta ancora, ed ecco le note di "Twist And Shout" invadere lo stadio Meazza, proprio come nel 1985. Tutti a mani alzate, mentre i fiati lasciano esplodere la festa. Bruce si apre la camicia, si straccia la maglietta, mostra il petto e riparte inarrestabile fino all'ultimo lancio di chitarra. 3 ore e 40 di show, per la cronaca. Ma si vede benissimo che, se potesse, darebbe di nuovo l'attacco alla band per un'altra canzone... Certe cose sono una missione, non un calcolo. Ancora e sempre, "just a prisoner of rock 'n' roll".
(27/06/2012)