Stasera ci sentiamo tutti più vecchi. E non solo per l’età media del pubblico che gremisce l’Auditorium. È per il peso storico di questi sessant’anni di canzoni, con i loro ritornelli innocenti da bei tempi andati, per la nostalgia che ci attanaglia inesorabilmente. Ma soprattutto perché il più giovane è il protagonista: un signore di 87 anni che siede al piano di fronte a noi e si chiama Burt Freeman Bacharach. Farà due ore filate di concerto senza perdere un colpo. Provateci voi, alla sua veneranda età.
Al netto dei lifting, il suo viso è solcato dalle rughe, oltre che dalle cicatrici della vita (la più grave, il suicidio della figlia Nikki nel 2007), il corpo è appena un poco incurvato dal tempo, ma il Signore del pop americano è lì, alle 21.10, con la sua giacchetta di lino color carta da zucchero che stride con il look “all black” dell’orchestra. E si infila subito al suo piano, un imponente Ciampi, al centro del palco. Attorno a lui, le luci si accendono sulle tre voci che l’accompagneranno: le due pantere nere - Donna Taylor, dal possente registro soul-gospel, e Josie James, con tonalità più cristalline alla Diana Ross - e John Pagano, crooner dall’ugola robusta che manderà in brodo di giuggiole molte delle signore presenti.
Attaccano con “What The World Needs Now”, e il pensiero corre subito alla meravigliosa interpretazione di Jackie DeShannon di cinquant’anni or sono, che lanciò nel mondo quel prodigio di grazia melodica. È solo la prima delle grandi chanteuse di Bacharach che si materializzeranno idealmente nel corso del concerto, in una galleria di muse che va da Marlene Dietrich a Dionne Warwick, passando per Aretha Franklin e Dusty Springfield.
“Suoneremo tanta musica, molti vecchi brani, ma anche alcuni più recenti - annuncia il Maestro - E ora un medley con alcuni classici, di quelli che ho scritto con Hal David e i primi che abbia mai registrato con Dionne Warwick”. Un medley? Ma come, c’è chi con una sola di queste canzoni ci costruirebbe album, tour, carriere intere, e lui le brucia così, in pochi minuti? Fatto sta che macigni miliari come “Don’t Make Me Over”, “Walk On By” (di cui realizzarono una strepitosa cover gli Stranglers), “I Say A Little Prayer”, “Wishin And Hopin”, “I’ll Never Fall In Love Again” e vari altri scorrono veloci, in una sequenza da musical broadwayano, con le due cantanti nere, in particolare, a salire in cattedra: Donna Taylor è un uragano, con il suo vocione profondo e sensualmente arrochito, Josie James, invece, vola su quelle melodie con levità da usignolo.
Certo, ci sarebbe piaciuto rivedere anche Dionne, magari sulla strada per San Josè (“Do You Know The Way To San Josè”), lei che di quelle canzoni è diventata a pieno titolo co-intestataria (come dimenticare, ad esempio l’album “Dionne Warwick Sings The Bacharach & David Songbook”?). Ma le due interpreti sono pienamente all’altezza, così come Pagano, che si esalta in una vibrante “I Just Don’t Know What To Do With Myself”.
Il Maestro è sempre lì, le dita sul pianoforte, a capo chino sui tasti, canticchia sottovoce qualche brano, occasionalmente rivolge lo sguardo alle cantanti, che a turno chiama a sé e abbraccia. Il suo ensemble è naturalmente impeccabile, sezione fiati inclusa, ed è completato dal giovanissimo figlio Oliver, che lo accompagnerà alla tastiera in alcuni pezzi.
Spesso Bacharach rammenta la genesi dei brani. Come per “Waiting For Charlie To Come Home”: “La scrissi con Bob Hilliard e fu registrata per la prima volta da Etta James”. Poi diverte tutti raccontando di quella unica volta in cui “con esito disastroso” ha cercato di comporre rock’n’roll: “Ci recammo in studio con i Manfred Mann, un gruppo rock britannico dell’epoca, ma loro avevano difficoltà a capire le mie armonie e gli accordi. Fu un flop totale. Tre anni dopo una band del sud della California, Arthur Lee e i Love, ne cambiarono la melodia, cosa che non mi piacque, cambiarono gli accordi, cosa che non mi piacque, e ne fecero un successo... cosa che mi piacque moltissimo! Ora ve la proponiamo con gli accordi giusti”. Risate generali, e via a “Little Red Book”.
Altre volte si fa pensoso, malinconico: “Ascoltate bene il testo di questo brano, racconta il mondo in cui viviamo”. E attacca la ballata “The Windows Of The World”, altra chicca da “Reach Out”, che finì anche nel repertorio dei Pretenders, a conferma di come Bacharach sia sempre stato una miniera universale per artisti di ogni genere e periodo.
Le signore più agée vanno in solluchero con “Magic Moments” (“è stata un grande successo anche in Italia”, ricorda il suo autore) e con l’evergreen “Raindrops Keep Falling On My Head” (poi bissata negli encore), mentre la commozione è in agguato per tutti quando è Burt a prendere il microfono in mano per accennare la sempiterna “The Look Of Love”: la Cavea ora è un cuore aperto, tutto per lui.
La fase finale del concerto è dedicata soprattutto ai suoi classici temi da film e musical. Come “What’s New Pussycat” (il primo film sceneggiato da Woody Allen), o il “Love Theme” dal western “Butch Cassidy and The Sundance Kid”, o quella “Arthur’s Theme” che mandò in gloria il carneade Christopher Cross, ma c’è spazio anche per un brano più recente, “Hush”, composto per il musical “Sun Lovers”, andato in scena a San Diego.
Poi Bacharach si prende tutta la scena: è solo lui e il suo pianoforte, sulle note morbide di “Alfie” e “A House Is Not A Home”. La sua voce è ormai un velo ruvido, ma ha conservato quel feeling di chi sa come vivere i brani, con le pause giuste, il pathos. Il pubblico si emoziona: standing ovation, bis. E lui lì a invitare tutti a cantare con lui con un “prego!”. In un attimo siamo tutti sotto il palco.
Ormai non conta neanche più quali siano i bis (per la cronaca, chiuderà con l’ode all’amicizia di “That’s What Friends Are For”, passata per le mani di Rod Stewart prima e della compagnia Dionne Warwick + Gladys Knight, Elton John e Stevie Wonder poi). Conta solo stare lì, a tributare riconoscenza a quell’omino canuto e alla sua valigia di canzoni da sogno, leggere solo nell’eleganza satinata della veste, in realtà sempre malinconiche, illusorie, a volte persino inquietanti.
Non è stanco, quasi quasi gli verrebbe voglia di continuare ancora, lui che il suo never ending tour (A House Is Not A Home Tour) lo sta portando avanti da un pezzo, con tappa finanche nel santuario rock di Glastonbury. Ma due ore di concerto possono bastare. Alla fine si mette perfino a stringere le mani al pubblico e a firmare autografi. C’è chi piange: “È valsa la pena venire”, grida in lacrime una ragazza, a conferma che, no, non erano tutti vecchi sugli spalti. E uscendo incontriamo un’altra ragazza che aspetta fuori dal camerino di Bacharach come fosse alla sua prima audizione. È un’emozionatissima Chiara Civello, venuta a omaggiare il maestro che dieci anni fa scrisse insieme a lei un brano (“Trouble”), lanciandola nel firmamento americano. È la storia che si ripete.