Ritroviamo Chiara Civello, ormai una habitué di OndaRock, in occasione del suo nuovo mini-tour, in cui presenta il suo ultimo singolo “Sono come sono” (uscito in un disco a tiratura limitata insieme a tre remix), oltre a un repertorio ormai collaudato di brani che rappresentano altrettante tappe del suo percorso cosmopolita: dagli esordi a New York alle collaborazioni brasiliane, dai classici italiani alle riletture di canzoni del mondo, a partire da quelle francesi racchiuse nel suo ultimo album “Chansons”. Un tour che la vedrà, al solito, in veste di cantante, autrice e polistrumentista (8 marzo Roma - Auditorium Parco della Musica, 10-11 marzo Milano - Blue Note, 18 Palermo - Teatro Santa Cecilia).
Ben ritrovata Chiara, stavolta c’è da raccontare una tua nuova esperienza live. Che tipo di concerti proponi?
Un concerto diverso ogni sera. Si spazia da Michel Legrand a Ennio Morricone, dalle mie canzoni con Dimartino e Francesco Bianconi al ricordo di Burt Bacharach e a “Pour Toi”. E non mancheranno anche omaggi ad alcuni autori della musica italiana.
È il secondo anno consecutivo che sei all'Auditorium l'8 marzo: coincidenza?
Solo in parte, perché mi piace comunque vivere questa occasione della Festa della donna ricordando la delicatezza e la particolarità della realtà femminile, spesso penalizzata nel mondo del lavoro. Insomma, è una piccola occasione per celebrare anche l'essere donna nella musica.
Ho voluto riprendere una canzone brasiliana sul meticciato. Nella musica italiana se ne era parlato poco, forse con la tammurriata nera. Noi abbiamo voluto allargare il discorso oltre il razzismo, verso altre forme di discriminazione
È un significato politico inequivocabile, invece, quello del tuo nuovo singolo “Sono come sono (Sararà Crioulo)”, che hai scritto assieme al cantautore Kaballà adattando in italiano il testo di “Olhos Coloridos”, la hit di Sandra de Sásu che in Brasile è diventata ormai un inno della lotta al razzismo.
La canzone fu scritta da Macau, un compositore che viveva nelle favelas e che venne anche ingiustamente incarcerato. “Sararà”, nella lingua tupi delle tribù indigene dell’Amazzonia, vuol dire “misto”, nero con occhi chiari, una ibridazione che in fondo è anche alla base della musica che mi ha sempre mosso nel mondo, il jazz. E così il ritornello “Sararà Crioulo”, per assonanza, è diventato “Sono come sono”. A questo proposito mi ha molto emozionato una intervista recente di Keith Jarrett, dopo la paralisi, in cui sosteneva come nella musica ognuno abbia l’obbligo di essere se stesso e che nel suo caso la strada maestra è sempre stata accogliere la pluralità, le sensibilità di tutti i musicisti che ha incontrato nel mondo.
Credi nella musica come portatrice di messaggi politici o sociali?
Per me lo è sempre, anche senza dover lanciare slogan o fare propaganda. Già solo il suonare insieme davanti al pubblico è un gesto di aggregazione. La musica è fatta per abbattere tutti gli steccati che nascono dalle differenze culturali e dalle diverse provenienze. Quattro persone che trovano un dialogo sul palco rappresentano un gesto di civiltà, un segno di convivenza e superamento delle differenze.
Il brano originale, “Olhos Coloridos”, porta anche alla luce un paradosso brasiliano, ovvero il fatto che la stessa persona che è razzista spesso ha sangue creolo, quindi ibrido.
È un inno al meticciato, all'idea di accettazione e integrazione dell'altro. Nella musica italiana, il tema del meticciato era stato in parte toccato con la tamurriata nera, ma non è molto sentito, anche perché siamo un paese piccolo, con una situazione diversa rispetto al Brasile. Così con Kaballà ci siamo posti il problema di come adattare questo pezzo. E abbiamo deciso di allargarne la portata trattando, oltre al razzismo, altre piaghe della nostra quotidianità, come bullismo, bodyshaming e omotransfobia, dichiarando il nostro chiaro no a ogni forma di discriminazione, che non è altro che un attacco alle nostre libertà.
Bolsonaro ha fatto delle cose orribili. Ora in Brasile si respira un senso di rinascita, lo leggi negli occhi delle persone. Con Lula hanno ritrovato ascolto voci che erano state dimenticate. Come quelle dell'Amazzonia. E come anche quelle degli artisti
A proposito di Brasile, sei stata in tour lì di recente: come l’hai trovato dopo il traumatico – ma salvifico – passaggio da Bolsonaro a Lula e dopo le devastazioni del Covid?
Un paese certamente indebolito, che ha vissuto anni difficili ma che ora sembra aver ritrovato la speranza. Il Covid è stato una catastrofe e Bolsonaro ha fatto cose orribili. Ma ora nel paese si respira un clima di rinascita. Lo vedi negli occhi della gente, che si sente più ascoltata e capita. Lula è entrato in carica consapevole di alcuni errori che ha compiuto e che ha anche ammesso, ma ora ha una grande chance per riportare in avanti il paese. Sicuramente ora hanno ritrovato ascolto alcune voci che in Brasile erano state dimenticate, come quelle dell'Amazzonia, e anche quelle degli artisti.
Ti senti sempre a casa da quelle parti?
Eh sì... Ho appena fatto quattro date: Rio de Janeiro, San Paolo, Porto Alegre e Florianopolis. Ed è stato entusiasmante. Mi sento sempre ben accolta lì, il pubblico capisce e apprezza. Spesso canta con me anche in italiano, conosce i versi delle mie canzoni…
Del resto, musicalmente c'è sempre stato un feeling tra Italia e Brasile...
Certo, c'è sempre stata una grande reciprocità tra i due paesi. Penso a Mina con la Banda, a Ornella Vanoni con Erasmo Carlos in “L'appuntamento” o con Vinicius de Moraes e Toquinho in “La voglia la pazzia l'incoscienza l'allegria”, a Lucio Dalla e Chico Buarque de Hollanda che si sono scambiati “4 marzo 1943”, a Sergio Endrigo assieme a Roberto Carlos. Ma non solo: in Brasile “E poi che fa” di Pino Daniele è diventata una grande hit di Marisa Monte, mentre Ana Carolina ha ottenuto un grande successo con la sua versione in portoghese di “La mia storia tra le dita” di Grignani e Marina Lima ha avuto un successo planetario con una canzone di Polacci del 1947 che si chiama “Veleno”. E si potrebbe andare avanti ancora...
A proposito di Dalla, e di Battisti, siamo reduci da tanti ricordi e commemorazioni per gli 80 anni dalla loro nascita. Cosa hanno rappresentato per te nella musica italiana?
Due grandissimi idoli. Straordinari cantautori e musicisti, ma anche anime inquiete, sempre alla ricerca di nuove contaminazioni nella loro musica. Penso a tutti i viaggi sonori di Battisti, dalla psichedelia a Pasquale Panella per il tramite di Enzo Carella, ma anche a Dalla e alle sue incursioni jazzistiche. Due artisti che non si sono mai accontentati, che hanno sempre cercato nuovi stimoli. Modernissimi oggi come lo erano allora.
Tempo fa mi avevi parlato di un progetto con Yuka Honda delle Cibo Matto. Che fine ha fatto?
Sta ancora nel cassetto, ma è praticamente pronto. Devo capire se sarà il prossimo a uscire o se devo aspettare ancora, perché nel frattempo sono arrivate anche altre collaborazioni e possibili progetti.
Ci puoi anticipare qualcosa?
Dovrei fare delle collaborazioni in Brasile e qualcosa che ha a che fare con l'Inghilterra. Sto raccogliendo materiale. Ma è ancora presto per dare altri dettagli.
Dopo l'esperienza del 2012 non sei più tornata a Sanremo. Ti attirerebbe? E ti pare cambiato da allora?
Non ho visto l'ultima edizione, comunque ho sempre rispettato Sanremo per la sua tradizione e mi piace anche l'idea che ultimamente si sia un po' più aperto ad altre forme musicali, oltre al fatto di ricordare grandi voci del passato. Ma non sarò mai una che aspetta Sanremo per fare qualcosa. Se però si dovesse presentare l'opportunità, con una canzone giusta, per esempio, perché no?
Bacharach è stato uno dei più grandi compositori di sempre. Ha portato la sofisticatezza nel pop, ne ha spostato il baricentro. Scrivere una canzone con lui è stato il mio battesimo: mi sono sentita portata per mano da un luminare
Sappiamo del legame speciale che ti univa a Burt Bacharach, il tuo mentore americano. Che ricordo puoi darci di lui?
È stato uno dei più grandi compositori di sempre. Aveva elementi di modernità e contemporaneità musicale unici, ha portato la sofisticatezza nel pop, ne ha spostato il baricentro, facendo una strofa di una canzone in sette battute, accordi sorprendenti. Riusciva a comporre scomponendo i canoni della popular music. Un po' come è stato Jobim, ad esempio, che è riuscito a unire la gestualità del samba con la classicità europea di Villalobos.
Per quanto riguarda la persona, mi ricordo la sua grande eleganza, ma anche la sua immediatezza e semplicità. Lui andava direttamente in musica, senza sovrastrutture. Scrivere un brano con lui (“Trouble”, ndr) è stato il mio battesimo. Non avevo mai scritto una canzone con qualcuno, e farlo con lui è stata un'esperienza eccezionale: quella di essere portata mano nella mano da un luminare nella stesura di un brano originale. Io avevo solo una piccola idea melodica e l'abbiamo sviluppata insieme. Una cosa che mi porterò dentro in ogni canzone che scrivo.
C'è stata una scintilla o un momento particolare che ti ha fatto capire che saresti diventata una musicista?
Non c'è stata un'epifania, è successo tutto gradualmente. Ho cominciato a prendere lezioni, poi la cosa ha preso sempre più spazio e mi emozionava sempre più, anche se non pensavo che sarebbe diventata il mio lavoro. Forse l'incoscienza dell'adolescenza mi ha aiutato a fare qualche passo, ad esempio andare in America con quella borsa di studio. E da lì è stata una successione di eventi, un progetto, una collaborazione... Non ho mai pensato di essere una enfant prodige, ma solo di aver avuto la sensibilità giusta nel momento giusto per voler provare a creare una vita nella musica. E anche oggi è una scelta che continuo a fare giorno dopo giorno.
Allora aspettiamo i tuoi prossimi dischi. Il primo quando arriverà?
Spero entro l'anno, ma non ne sono sicura.
Mi incuriosisce la collaborazione inglese... ci puoi dire qualcosa di più?
Posso solo dire per ora che ha a che vedere con l'idea di portare avanti una missione spirituale attraverso la musica. Mi piacerebbe approfondire qualcosa di meditativo, in cui la musica e la voce si mettono al servizio di questa ricerca. Per calmare le nostre menti! Del resto, c'è anche nel jazz una tradizione in questo senso, penso a John Coltrane, Sun Ra... E comunque mi piace sempre l'idea di disattendere le attese del pubblico.
Carmen Consoli mi ha raccontato che era proprio questo l'unico insegnamento che le aveva dato Battiato...
Visto? E se lo diceva un maestro come lui... Bisogna sempre spostare il proprio baricentro più in là, non restare mai fermi. Ogni respiro è diverso, il punto poetico si sposta: non è come il punto di cottura della pasta: per fortuna siamo vivi!
(08/03/2023)
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Chansons e altre storie Abbiamo lasciato Chiara Civello prigioniera nella sua casa/studio di Rio de Janeiro in piena pandemia, alle prese con qualche esibizione domestica in streaming per esorcizzare l’angoscia del lockdown. Proprio in quell’occasione, la più cosmopolita delle cantautrici italiane ci parlò del suo progetto di “Chansons”, una raccolta di classici francesi divenuti ormai standard internazionali e cantati in tante lingue del mondo. Ora che il disco è finalmente uscito, ne approfittiamo per una nuova chiacchierata con lei, che spazia dal rafforzato sodalizio con il produttore Marc Collin (Nouvelle Vague) al gusto vintage per le sonorità cinematiche degli anni 60 e 70, dal cameo nella fiction Rai “Imma Tataranni” alla collaborazione con lo scrittore Emanuele Trevi (fresco di Premio Strega) per l’inedita “Perdiamoci”, dalla musica nell’era post-pandemia all’attuale scena italiana. Ben ritrovata Chiara, siamo felici che finalmente sia uscito “Chansons”, il disco di cui ci avevi parlato nella nostra precedente intervista. Ci puoi dire con quale criterio hai scelto i brani? Immagino sia sta dura selezionarli all’interno dello sterminato patrimonio della canzone francese. Il criterio della scelta è stato totalmente empirico. È un progetto che mi è stato proposto dal mio produttore, Marc Collin dei Nouvelle Vague, il quale ha anche una grande esperienza con le cover, anche se è un termine che non amo moltissimo, parlerei più di reinterpretazioni, di riletture. Dopo l’esperienza positiva di “Eclipse”, ho deciso di affidarmi concettualmente alla sua visione, perché ci siamo trovati sempre in grande empatia. Lui è un produttore molto speciale, un creatore di atmosfere, ha questa visione pittorica della musica: disegna luci, ombre… E questa cosa mi ha sempre incantato. Così abbiamo iniziato insieme un ping-pong di idee, sempre nutrito dall’entusiasmo: lui aveva in mente un omaggio a quei grandi standard internazionali che non molti sanno essere stati scritti da penne francesi. È questo il concetto di base, che ci ha anche aiutato a restringere un po’ il campo. Il caso più eloquente è quello di “My Way”… Sì, nessuno sa che non è un brano di Paul Anka o di Frank Sinatra, ma nasce da “Comme d’habitude” dei francesi Claude François e Jacques Revaux. E peraltro nessuno sa neanche che un primo tentativo di una versione in inglese era stato fatto da David Bowie! Molto spesso queste canzoni negli anni diventano un ricettacolo di voci, di talenti, di personalità artistiche che ruotano attorno a una bella melodia. In ogni caso, hai deciso di cantare questi brani non solo in francese, ma anche in inglese e in italiano. Sì, la cosa più interessante per me è stata proprio la scelta della lingua in cui cantare. Le prime bozze le ho fatte un po’ in inglese, un po’ in italiano, però poi sono andata sempre più a concentrarmi su cosa risuonava meglio nel mio cuore, allora ho deciso ad esempio di fare “Col tempo “ (di Léo Ferré, ndr), che ascoltavo sempre da piccola, quando d’estate con mio padre attraversavamo da soli in macchina tutta l’Italia per andare in Sicilia, nella nostra Modica. O per esempio “Ne me quitte pas”, sempre nella versione di Gino Paoli o in quella cantata da Patty Pravo (“Non andare via”, ndr). E ancora “Un uomo, una donna”, che mi sono divertita molto a cantare in italiano con queste parole così eteree e cinematiche, nello stile di Francis Lai. Invece “La Vie En Rose” è una canzone degli anni 50 molto angelica, molto “rosea”, per l’appunto, che abbiamo voluto stravolgere con un mood completamente diverso, in cui l’unica “leggera”, che svolazza sulle note, sono io, mentre gli altri sono tutti ancorati a un ritmo incalzante. Ti abbiamo anche vista in tv, in un cameo nella fiction Rai “Imma Tataranni”. Com'è nata l’idea? È stato molto suggestivo entrare in una fiction come me stessa, un po’ come Dorothy del Mago di Oz. È stata una bellissima esperienza, perché ho cantato anche la prima canzone composta da Emanuele Trevi, che ha appena vinto il Premio Strega e che considero uno dei migliori scrittori del panorama italiano attuale. In un momento oscuro, dell’Italia e del mondo, durante il lockdown, è nata l’idea di questa canzone, “Perdiamoci”, con la quale si poteva entrare nel magico mondo di Imma. Un’ottima fiction che ha avuto un meritato successo, basti pensare che per quella puntata ha ottenuto il 25% di share. Quasi meglio di andare a Sanremo… A proposito, sei tentata di riprovarci? In questo momento non ci penso proprio, sono troppo concentrata sulle mie Chansons e sulla mia tournée. Ecco, parliamo del tour di “Chansons”… Partirà da Rovereto l’11 dicembre. Sarò anche a Milano al Blue Note (17 e 18 dicembre) e all’Auditorium di Roma, l’8 marzo per un concerto speciale nel giorno della Festa delle donne. In scaletta ci sarà anche “Perdiamoci” più altre chicche dal mio repertorio, oltre naturalmente ai brani di “Chansons”. Mi è piaciuta molto la tua versione di “Hier Encore” di Charles Aznavour, tradotta nella funkeggiante “Yesterday When I Was Young”. È un modo gioioso di ridare vita a un pezzo molto malinconico del passato. C’è anche una componente di improvvisazione, perché gran parte del disco è nata in studio con i musicisti. Poi in fase di post-produzione io e Marc abbiamo lavorato sui dettagli. A sentirti parlare si percepisce come tu abbia ormai un controllo completo della tua musica, hai maturato quasi un’esperienza da produttrice? Sono molto appassionata anche dei suoni, della cornice sonora, non riesco soltanto a mettere la voce su un pezzo. Devo sentire il battito recondito della canzone, quello che smuove l’animo, quindi a volte devo entrare nei meandri dei brani, nelle atmosfere. E mi piace moltissimo abbandonarmi alla visione di un produttore artistico, come avvenuto con Marc. Lui è un perfezionista, attento a ogni tipo di eco della voce e di ritorno dei suoni, ai riverberi, ai fruscii, suggestioni che vanno quasi al di là della musica. Una delle “Chansons” è “I Will Wait For You (Les parapluies de Cherbourg)” di Michel Legrand, il compositore che ti ha cambiato la vita. La vuoi raccontare la storia? Sì, lui è uno dei miei idoli, mi tocca davvero nel profondo. “I Will Wait For You” (dal film “Les parapluies de Cherbourg”) è un tema di una dolcissima malinconia, come quasi tutta la sua musica. E non dimenticherò mai la canzone di Legrand che mi ha cambiato la vita, dal titolo anche profetico: “What Are You Doing The Rest Of Your Life”. Dopo averla cantata in un’audizione per una borsa di studio del Berklee College of Music, a soli 16 anni, l’ho vinta e, finito il liceo, sono partita… per il resto della mia vita. Ti avevamo lasciata in Brasile, alle prese con concerti domestici in streaming. All’epoca ci raccontavi che non c’era ancora un vero lockdown, poi sappiamo com’è andata a finire, il Brasile è stato uno dei paesi più flagellati dalla pandemia. In Brasile purtroppo è stata un’ecatombe. Io sono rimasta lì altri 4-5 mesi, sono tornata a giugno del 2021 in Italia. Ero al sicuro ma anche molto preoccupata, perché eravamo isolati, avevano totalmente interrotto i voli. C’erano solo voli sporadici dell’ambasciata, ma bisognava arrivare a San Paolo e lì bisognava prendere un volo interno dove le attenzioni non c’erano. Insomma, una situazione molto difficile. Ho fatto bene a ritirarmi e a rimanere isolata dove ero. Al di là delle restrizioni, secondo te la pandemia ha cambiato anche la musica? Forse tra qualche anno quando ascolteremo le produzioni di questo periodo ci tornerà alla memoria qualcosa, ma sono cose che si percepiscono più a distanza di tempo. Molte cose sono cambiate dentro di noi, al di là delle nostre scelte esistenziali o creative. Una pausa così non può non provocare dei traumi, dei cambiamenti interni in ogni persona. La vita prima o poi ci mette davanti a dei limiti, bisogna cercare di prenderla anche come una esperienza da cui imparare qualcosa. In quell’occasione mi avevi parlato anche di un altro tuo progetto in cantiere, il disco con Yuka Honda delle Cibo Matto e Jim Campilongo. A che punto è? Il disco è praticamente fatto, non so se sarà il mio prossimo o quello ancora successivo, però sono molto soddisfatta delle mie collaborazioni con musicisti che ritengo davvero interessanti come Yuka e Jim. Come nasce questa tua passione per le sonorità vintage – e anche un po’ cinematiche – degli anni 60 e 70? Sono molto appassionata di un modo di vivere la musica all’insegna della libertà. Se pensiamo alla produzione di compositori come Ennio Morricone, Piero Piccioni, Piero Umiliani, Luis Bacalov, avevano tutti una grande libertà e fluidità, non si ponevano limiti di generi o di stili, mettevano la musica al servizio delle immagini e quindi se ne appropriavano. Era la suggestione delle immagini a ispirare le loro sonorità. Questa fluidità musicale è la cosa che mi appassiona di più, il bello di poter fare di una canzone tutto quello che vuoi. All’epoca uno stesso brano lo poteva cantava Elvis, così come Mina, Dalida o Ornella Vanoni… le canzoni giravano tra più voci. Oggi che i cantanti sono in genere autori di sé stessi raramente si scambiano i brani. È la stessa fluidità che ha permesso a certe canzoni di diventare gigantesche, di farne dei classici internazionali. Il che non toglie ovviamente la possibilità di scriverne di nuove, io cerco di fare entrambe le cose. Viene da pensare che forse se fossi nata in quell'epoca saresti stata più compresa. Oggi, specie in Italia, viviamo tempi di sovranismo, di autarchia musicale, con classifiche dominate da dischi italiani (e brutti, il più delle volte). È più dura per chi, come te, si propone di essere internazional-popolare, secondo la definizione che abbiamo coniato insieme qualche intervista fa? Mah, sinceramente non me ne preoccupo di questo aspetto, non posso lasciarmi condizionare dalle questioni del mercato, io mi devo soltanto preoccupare delle emozioni e dei suoni, se dovessi prestare davvero attenzione a queste questioni di marketing, sarebbe un freno, più che un incentivo, alle mie produzioni. Io poi ho vissuto a lungo all’estero, ma non perché in Italia non avessi modo di lavorare, semplicemente vivevo lì e facevo uscire lì la mia musica. Non a caso, imbattendosi nei tuoi video su YouTube, capita di verificare che buona parte dei commenti vengono dal Brasile … Vero, però il Brasile è un paese gigantesco, sarà quaranta volte l’Italia. Si tratta di tanti milioni di persone, è anche logico che sia così. Io comunque sono molto orgogliosa del mio pubblico italiano, che sta crescendo in questi ultimi anni. Oggi che cosa ascolti? Ascolto molti giovani, come LNDFK, cantautrice e produttrice, che ha dentro di sé una parte tunisina e una napoletana, suonerà presto anche con me, oppure Emma Nolde, che mi piace moltissimo. Poi la scena napoletana, band come i New Genea. Amo Olivia Trummer, una pianista tedesca eccezionale che ormai è stata adottata dall’Italia. Da noi stanno emergendo tanti artisti interessanti, non necessariamente sotto i radar, perché i radar italiani sono un po’ corrotti… E ti credo, sono occupati tutti dai Maneskin... (Ride) Eh già. Nel mio piccolo sto cercando di dare spazio a nuovi talenti attraverso due progetti che mi hanno affidato, la direzione artistica di Ambiente Sud e del Centro servizi culturali di Trento, Santa Chiara, dove ho la possibilità di dare spazio agli altri, di sostenere la cultura musicale del nostro paese. Ormai sei quasi una mediatrice culturale internazionale. Beh, è quello che ho sempre voluto fare: l’ambasciatrice internazionale della musica. (05/12/2021) |
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Dal Brasile con passione |
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Eclipse retrofuturista "La mia missione è allargare i confini della canzone italiana. Voglio essere internazional-popolare". Chiara di nome e di fatto, l'ambizione della ragazza per la quale si scomodò Burt Bacharach (scrivendo per lei "Trouble") e che Tony Bennett definì "la miglior cantante jazz della sua generazione". Dopo tanto girovagare tra Stati Uniti e Brasile, miss Civello ha rimesso radici in Italia. E le vuole consolidare con il nuovo album "Eclipse", in cui le sue tipiche inflessioni jazzy, pop e bossa nova si incontrano felicemente con l'elettronica retrofuturista del produttore Marc Collin (Nouvelle Vague). Di questo e altro parliamo in una piacevole chiacchierata, in cui si riaffacciano, inevitabilmente, i temi più cari alla cantante romana di origini sicule (Modica): dal Brasile al jazz, dal rapporto con Bacharach al cinema e alla stagione dei grandi compositori italiani di colonne sonore. Chiara, che disco è "Eclipse"? Si può definire una sintesi di tutte le tue esperienze precedenti? In un certo sì, è un disco che riassume tutte le mie passioni e la mia vita di girovaga: l'America, il jazz, la bossa nova, il pop, le colonne sonore degli anni 60-70. Il precedente "Canzoni" era nato dall'esigenza di omaggiare i classici italiani dopo tanto peregrinare in giro per il mondo. Qui ho cercato di avvicinarmi ancora di più al mio paese, cercando le voci più originali della scena di oggi: Francesco Bianconi (Baustelle), Cristina Donà, Dimartino, Diego Mancino, Diana Tejera... Con loro ho cercato una sintesi tra tutte le anime della mia musica. Il tutto, però, rielaborato in veste elettronica dalla produzione di Marc Collin. Come l'hai conosciuto? Sì, ed è la prima volta che mi cimento con suoni elettronici. Ho conosciuto Marc a Parigi nell'estate del 2015, quando aprivo il concerto di Gilberto Gil e Caetano Veloso, ed è stato amore a prima vista. Dopo aver ascoltato le mie nuove canzoni, Marc mi ha proposto una lettura nuova, che preservava il mio stile ma lo accostava a suoni elettronici. Così non me lo sono fatta ripetere due volte: sono partita per Parigi, ho preso una casa a Marais e ci siamo subito immersi in un magico mondo di organi elettrici anni 70, synth e drum machine. Nel disco si respira in effetti un clima molto vintage. O meglio "retrofuturista". L'idea è proprio quella. Collin è riuscito a modernizzare canzoni dalla struttura molto classica, con un gusto che è insieme postmoderno e vintage. Gli organi elettrici danno quel tocco retrò che riporta indietro alle colonne sonore degli anni 60-70, ma ci sono anche suoni più moderni, tipicamente sintetici, dalla batteria elettronica stile-Grace Jones al basso-synth. Il risultato è molto raffinato. Forse anche troppo per le classifiche italiane? Non credo, anche "Canzoni", che era sempre un disco molto raffinato, ma più suonato, più jazz, si è piazzato sempre bene. Del resto, per me l'importante è continuare a fare cose di qualità: non vorrei mai diventare una di quelle cantanti che cambiano qualche virgola solo per fare audience. Ogni volta che scrivo non penso mai a fare il singolone, ma qualcosa di forte per me e in cui il pubblico si possa identificare. Senti di aver superato il paradosso di essere una delle poche nostre cantanti di livello internazionale conosciuta però più all'estero che in patria? Sì, in questi anni ho cercato di riavvicinarmi alla nostra musica, ma il mio scopo resta quello di espandere i confini della canzone italiana, anche a costo di diventare impopolare. Per fortuna, comunque, non è così: vedo feedback positivi, giro i teatri e c'è una crescita costante del mio pubblico. Sono anche convinta che fare un lavoro inequivocabilmente fuori dai trend, che non ammicca alle mode, possa pagare, se alla fine porta a dischi fatti con l'anima come "Eclipse". In ogni caso, ho scelto una vita di musica internazionale, di concerti all'estero, di collaborazioni, cose che ti fanno sentire viva nel mondo, non solo nel mio paese. Su "Eclipse" ci sono molte cover ispirate dal cinema. Qual è il tuo rapporto con il grande schermo? "Eclipse" ha realizzato il mio desiderio di fare un album "visuale", pittorico, di "canzoni cinematiche", canzoni in pellicola. Sono una grande appassionata di cinema, anche contemporaneo. Ma per mantenerci fedeli alle sonorità scelte con Marc, abbiamo puntato sui decenni 60 e 70, in cui la musica italiana ha raggiunto uno dei suoi picchi più alti, grazie a una generazione di artisti straordinari e a un sincretismo pazzesco: classica, jazz, bossa nova, funk... Quei compositori non si ponevano il problema di andare ad attingere a una musica che non era necessariamente endemica italiana, però riuscivano a interiorizzarla, a farla diventare immediatamente "nostra", mettendola al servizio delle immagini del cinema italiano e aggiungendo nostre strumentazioni, come gli organici elettrici di cui si parlava. Poi mi piaceva l'idea degli incontri tra musicisti, attori e registi, per questo ho scelto "Eclisse Twist", scritta da Michelangelo Antonioni con Giovanni Fusco, o "Quello che conta", composta da Ennio Morricone con il regista Luciano Salce per il film "La cuccagna", e "Amore, amore, amore", firmata da Piero Piccioni insieme ad Alberto Sordi. E anche "Parole parole" è stata composta da un maestro delle colonne sonore come Gianni Ferrio. Manca oggi, al cinema italiano, il contributo di quei compositori? Sì, ma è stata una stagione irripetibile... Compositori di una cultura folle, ma perfettamente dentro la mischia della musica suonata. Non era solo una semplice partitura orchestrale, era l'idea di mettersi a suonare e creare dei groove, delle atmosfere, fissando quegli attimi in canzoni. A proposito di retrofuturismo, mi viene in mente anche solo il nome di Piero Umiliani. Un gigante. Spesso vado a fare delle ricerche su YouTube e mi riascolto gli incontri tra Umiliani e Helen Merrill: era magia pura. Il jazz e la musica brasiliana sono le grandi matrici della mia musica perché sono musiche sincretiche, tra l'Africa e la musica occidentale più classica: samba e bossa nova sono un po' l'unione di Africa e Villalobos. Ma il sincretismo si avverte tantissimo anche in quelle colonne sonore, dove c'era il coraggio di mischiare gli stili più disparati. E il risultato spesso era... pop! Esatto, in quel periodo nacquero tante melodie memorabili. Se in Italia il pop oggi tende a essere molto omologato, nella nostra storia ci portiamo un pop che è invece molto raffinato e che è quello che mi interessa di più. Penso ad artisti che fanno crossover: Tony Bennett, Norah Jones, Diana Krall, Melody Gardot... anche quello è pop, ma su un altro livello. Non poteva mancare, poi, il tuo amato Brasile, in cui peraltro resti popolarissima: con la precedente intervista abbiamo avuto tantissimi like e commenti da quelle parti. Sì, con il Brasile è stato un colpo di fulmine fin da ragazzina, quando a Boston frequentavo il Berklee College of Music, una scuola che mi aveva dato una borsa di studio. E continuo ad avere un legame speciale con quel paese. Su "Eclipse" ci sono in particolare due brani registrati a Rio. "Sambarilove" è nata dalla collaborazione con Rubinho Jacobina, un musicista geniale che avevo conosciuto con l'Orchestra Imperial, alla Festa degli Innamorati, che in Brasile è il 12 giugno: è una canzone che vuole un po' essere un'onomatopea storta di "Somebody To Love", e gioca anche con la parola "Bari", la città dove ho fatto parte del disco; abbiamo preso questo ritmo ballereccio, il sambalanco, tipico di una certa epoca, un po' geghegè, e Marc l'ha stravolto con la sua ironia, mettendoci batteria elettronica, bassi synth e le percussioni vere di Mauro Refosco. Invece "Um Dia" è una specie di trasposizione disco di Sergio Mendes, firmata insieme a Pedro Sà, un ottimo chitarrista che ha lavorato con Caetano Veloso e con l'Orchestra Imperial: io e Pedro siamo entrambi dei Gemelli e allora abbiamo scherzato sulle contraddizioni del nostro segno zodiacale: "Un giorno vuoi fuggire di casa, un giorno dici che tutto cambierà, un giorno che tutto tornerà"... Porterai il disco in tour? Sì, dai primi di maggio. Partirò da Roma, il 4 maggio all'Auditorium, poi sarò il 5 a Napoli (San Giovanni Maggiore), il 10 a Bari (Teatro Palazzo) e il 12 a Milano (Unicredit Pavilion). Il tour proseguirà anche in estate, poi andrò in Brasile a fare quattro-cinque concerti e faremo uscire il disco anche in Francia. Senti ancora Burt Bacharach? Che cosa ti ha lasciato l'incontro con lui? Sì, ci sentiamo ancora, gli mando sempre le cose che faccio e lui inserisce spesso "Trouble" nelle sue compilation. Bacharach rimane in tutto ciò che scrivo, l'esperienza con lui me la porterò dentro per sempre. Mi ha insegnato soprattutto come gestire la composizione, come sparigliare, cercando sempre, anche nelle canzoni più strutturate, quel vento, quelle correnti d'aria in grado di movimentarle, magari solo togliendo una battuta, aggiungendo un accordo o un beat. Insomma, è l'idea di non omologarsi mai e di estendere i confini delle canzoni attraverso l'associazione di elementi diversi e imprevedibili. Tornerai a Sanremo o ritieni quell'esperienza una pagina chiusa nella tua carriera? Non ci penso. Sono molto concentrata sul presente e se guardo al futuro, sogno altre cose, ad esempio di attingere a tanti altri suoni del mondo che mi incuriosiscono. Però, chi lo sa, un giorno potrei tornarci. Hai duettato con tanti interpreti meravigliosi, da Al Jarreau a Gilberto Gil e Chico Buarque. Con chi ti piacerebbe cantare in futuro? In questo disco ho preferito fare "duetti compositivi", però mi intriga sempre l'idea di due voci che si uniscono. Mi piacciono, ad esempio, interpreti femminili come Concha Buika e Hindi Zahra. Ma il sogno sarebbe Paolo Conte. In effetti, un duetto con Conte sarebbe il massimo. Glielo proporrai? Grazie, ma no, non me la sento... (14/04/2017 - Versione estesa di un'intervista pubblicata su "Leggo") |
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Te lo do io il Brasile C'è una cantante italiana che ha già scritto canzoni con Burt Bacharach e duettato con giganti come Chico Buarque, Gilberto Gil e Al Jarreau. Ha la metà degli anni di Ornella Vanoni e non è Fiorella Mannoia... Si chiama Chiara Civello, romana di nascita ma cosmopolita di fatto, con un filo rosso di 7.752 chilometri a separare le sue città del cuore: New York, dove ha vissuto a lungo, e Rio de Janeiro, ormai sua patria d'adozione. Ora, però, ha voglia di mettere alla prova la sua voce di velluto con le "Canzoni" italiane. Chiara, come mai un album di cover italiane? "Canzoni" è un disco nato da un mio bisogno personale. Dopo quattro album da cantautrice, sentivo l'esigenza di riversare tutto il mondo che ho vissuto in questi anni, tra New York e Brasile, in un tributo alla canzone italiana. È il mio primo disco da interprete, con influenze stilistiche che spaziano dal jazz al soul alla bossa nova, che sono un po' i mondi che ho vissuto in questi anni. Un disco pieno di collaborazioni, che vede la partecipazione di ospiti internazionali come Gilberto Gil, Chico Buarque, Esperanza Spalding e Ana Carolina, mentre le architetture sonore sono state arrangiate da Eumir Deodato e suonate dall'Orchestra Sinfonica di Praga... Sì, volevo proprio sancire questo discorso del tributo all'Italia attraverso le collaborazioni internazionali. Il produttore è Nicola Conte, che è un musicista e un dj che rispetto molto, un vero esteta. E con lui abbiamo ideato questa antologia italiana che spazia da Umbero Bindi a Vasco Rossi... Non volevamo che fosse una operazione nostalgica, ma solo un tributo sotto un ombrello stilistico di coerenza, che flirta un po' con tutti questi stili. In effetti c'era il rischio di produrre un calderone un po' confuso. Invece tutto è tenuto insieme da questo denominatore comune dello stile... Sì, perché poi volevamo essere anche molto vari, unendo artisti di oggi e di ieri, si va da Vasco Rossi a Vinicio Capossela, da Paolo Conte ai Subsonica, da Sergio Endrigo a Pino Donaggio. C'è persino una canzone di Rita Pavone, che fu arrangiata da Bacalov su testo di Lina Wertmuller ("Fortissimo"). E abbiamo voluto anche fare un piccolo omaggio al cinema, inserendo "Metti una sera a cena", una canzone meravigliosa di Ennio Morricone, tratta dal film di Giuseppe Patroni Griffi. Come nasce, invece, la tua grande passione per il Brasile? È stato un colpo di fulmine. A diciotto anni mi sono trasferita in America per fare il Berklee College of Music, una scuola che mi aveva dato una borsa di studio. Così ho conosciuto tanti musicisti di vari paesi, tra cui alcuni brasiliani che mi hanno introdotto al mondo di Antonio Carlos Jobim, il re della bossa nova, Caetano Veloso, Milton Nascimento, il tropicalismo. Ed è stato un colpo di fulmine violento, perché la musica brasiliana sa unire in modo sublime ritmo, melodia, armonia. Al di là della disfatta sportiva, il Mondiale in Brasile, tutto sommato, è stato ben gestito. Come vedi questo paese, dove hai anche lavorato a lungo? La situazione non è semplice in Brasile, ci sono ancora tante contraddizioni. Ma il Mondiale è stata una meritata opportunità per un paese che ha fatto passi da gigante, dimostrando grandi risorse e capacità di progresso. Spero che possa farne tesoro. New York, invece, cosa ti ha lasciato? Oltre ai 7.752 chilometri che la separano da Rio de Janeiro (ridiamo) Sì, quello dei 7.752 chilometri era un disco nato proprio dalla voglia di unire le mie due città del cuore... In realtà New York mi ha lasciato tante cose, non solo dal punto di vista musicale, ed è una città con cui cerco di convivere ancora. Vivere lì per me è stata un'esperienza fondamentale. Forse pochi sanno che all'estero hai una reputazione straordinaria. Cito solo un mostro sacro americano come Tony Bennett, che ti ha definito "la miglior cantante jazz della sua generazione"... In Italia, invece, sembra tutto più difficile. Come vivi questo contrasto, ti senti incompresa? La vedo solo come una questione di tempo. Il tempo cho ho speso fuori dall'Italia e ho dedicato a Brasile e Stati Uniti è stato superiore a quello che ho dedicato all'Italia. Sono partita giovanissima senza avere altro che tanti sogni. È iniziato il mio percorso musicale lì, e paradossalmente sono stata presentata agli italiani dagli americani. Però adesso che ho un po' più tempo per stare qui, voglio farlo bene, anche tramite quest'ultimo disco. E qual è la musica italiana che preferisci? Noi siamo i sovrani del senso melodico, anche nella tradizione più classica, basti pensare all'opera, alle arie... La musica italiana che ascolto è legata soprattutto alla melodia, ma non mi pongo limiti, ascolto un po' di tutto, canzoni di oggi e di ieri. Sempre a proposito di canzone italiana, nel 2012 sei stata a Sanremo nella categoria Big con il brano "Al posto del mondo". Com'è stata quell'esperienza? Ti piacerebbe ripeterla? È stata un'esperienza molto intensa, soprattutto la scalinata da scendere... (ridiamo) forse quella è stata la cosa più impegnativa, la vera sfida! Comunque non ci sto pensando, a un mio ritorno lì, ma non lo escludo. A me piace fare molte esperienze e non mi precludo nulla... si impara sempre qualcosa. Hai in programma un tour? Sì, a luglio sarò in giro per l'Italia, ma farò concerti anche nei mesi di agosto e settembre. Le date sono tutte sulla mia pagina Facebook. Pochi sanno anche che hai scritto una canzone con una leggenda come Burt Bacharach. Com'è nato quell'incontro, che poi ha fruttato un brano per il tuo disco d'esordio? È nato grazie a Russ Titelman, il produttore del mio primo disco ("Last Quarter Moon", ndr). Lui è piuttosto famoso in America perché ha prodotto Randy Newman, Chaka Khan, George Benson, James Taylor, Paul Simon... E lui ebbe l'intuizione di farmi fare una collaborazione importante, pensava che avessi bisogno del battesimo di qualcuno che potesse darmi una consacrazione... E chi meglio di Bacharach... Eh già! Russ gli fece ascoltare la mia prima canzone e Bacharach accettò subito. Quindi io e lui siamo andati a Santa Monica, dove siamo stati tre giorni: lavoravamo dalle 14 alle 17.20 spaccate, Bacharach aveva già una certa età, oltre a molte altre cose da fare... E così abbiamo scritto una canzone, "Trouble", alla quale sono molto legata: ogni volta che scrivo penso un po' a Bacharach. Hai mai pensato di fare un disco interpretando proprio le canzoni di Bacharach? La tua voce sembrerebbe piuttosto adatta... Sì, c'ho pensato, ma il problema è che l'hanno fatto in tanti e con delle voci spettacolari. È difficile competere con Dionne Warwick, per dire... Poi lui già si auto-arrangia con questo suono che flirta con il soul e la bossa nova, quindi un conto è fare un disco come "Canzoni", in cui quasi non si riconoscono i brani rispetto alle versioni originali, un altro è tentare di imitare uno stile che è già molto vicino al mio. Si potrebbe provare a fare unplugged, con la chitarra... ma non ne sono molto convinta. Un altro artista straordinario che è stato al tuo fianco è Chico Buarque, presente anche in "Canzoni", in uno splendido duetto su "Io che amo solo te". Che cosa rappresenta per te? È un poeta, una persona di una cultura incredibile, che riversa anche nei libri che scrive, oltre alle canzoni. Una persona vitale, molto importante per il Brasile. Scrive testi meravigliosi e ha anche molto a che vedere con l'Italia. Ha vissuto qui, parla bene l'italiano ed è stato molto vicino a Sergio Bardotti. Conosceva anche Sergio Endrigo, un altro grande cantautore italiano. Cantare con Chico è stata un'emozione unica, qualcosa di veramente toccante. Lui ha quel tocco di lieve fragilità, quel tremolio che è come se fosse lo specchio del suo animo sensibile. Ed è anche il modo di cantare che sento più vicino a me... Quale modo di cantare non ti piace, invece? Mah, in generale quello standard urlato che va tanto di moda oggi, con gli stessi riff uguali per tutti. In Italia se ne abusa parecchio, in effetti. Sì, cantano un po' tutte così, ed è anche quello che si vede sempre nei talent show. Sembra che si possa cantare solo in quel modo... A proposito, che ne pensi dei talent musicali? Io non mi oppongo a un fenomeno che ha successo, dico solo che quel format è un invito alla pigrizia: all'ascoltatore entrano in casa persone che simulano una performance dal vivo, per questo si chiama anche "reality". Però è un'illusione ottica, tu non sei seduto in sala con loro, non senti i rumori e i fruscii del momento, che fanno parte a tutti gli effetti di una esibizione dal vivo. E allo stesso modo per chi canta il talent non può essere l'unico trampolino. Se non hai un bagaglio di esperienze, come puoi riuscire a mantenere quel livello di contenuti? È pericoloso avere successo prima della conferma "epidermica" del pubblico, che puoi testare solo dal vivo. In altri paesi c'è una quotidianità diversa con la musica. Negli Usa trovi tremila locali con tremila band emergenti che suonano, tra jazz, rock e complessini vari, idem in Brasile dove trovi anche il tassista che possiede l'ultimo disco di samba di nicchia... Qui in Italia è più complicato. Pensi quindi che per una cantante italiana emergente sia opportuno tentare l'esperienza che hai fatto tu: andare via, all'estero, in paesi musicalmente più ricettivi, e mettersi alla prova? Dipende dal tipo di musica che le interessa. Se è più improntata verso il soul, la musica black o il jazz, ovviamente farsi un'esperienza dove questa musica è nata è fondamentale. Un po' come per un attore che deve avvicinarsi a una parte: serve una conoscenza diretta. La cosa dell'Italia che trovo pesante e controproducente è questo sistema burocratico e anti-democratico che, invece di fluidificare le idee, le blocca, imponendo tutta una serie di passaggi obbligati che frenano la creatività. In Nordamerica è diverso: fai e realizzi. Senza troppe complicazioni. Ora ti sei trasferita stabilmente in Italia o ti dividi ancora con gli Usa e il Brasile? Io mi divido sempre... adesso resterò un po' per promuovere il disco, ma poi continuerò a muovermi tra Italia, Stati Uniti e Brasile. (27/07/2014 - Versione estesa di un'intervista pubblicata su "Leggo") |
Last Quarter Moon(Verve, 2005) | |
The Space Between(Emarcy, 2007) | |
7752 (Universal, 2010 - ristampato nel 2011 in edizione deluxe) | |
Al posto del mondo(Intersuoni, 2012) | |
Canzoni(Sony, 2014) | |
Eclipse (Sony, 2017) | |
Chansons - International French Standards (Kwaidan Records, 2021) |
Resta (duetto con Ana Carolina) (videoclip da 7752, 2010) | |
Al posto del mondo (videoclip, da Al posto del mondo, 2012) | |
Io che amo solo te (duetto con Chico Buarque) | |
Cuore in tasca | |
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