08-11/11/2018

Le Guess Who?

Multiple locations, Utrecht (Olanda)


di Cristina Caon e redazione

Le Guess Who? è un paese per adulti. Certo nulla è precluso ai millennials, ma se ne vedono pochi. Sarà per la proposta che tutto sommato rimane colta e forse richiede qualche ascolto alle spalle, se non altro per apprezzarne la varietà. Sarà per la logistica, sarà per i costi, ma volendo ipotizzare l'età media dei partecipanti al Festival si potrebbe attestarla oltre i 30. Se si volesse invece dare un'idea generale della proposta musicale di Le Guess Who? si potrebbe parlare di un diffuso abbattimento del muro del suono: una specie di apertura dei tetti della piccola Utrecht verso le già citate mille sfere del cosmo, sulle quali in qualche modo ci si arriva per vie psichedeliche, improvvisazioni jazz, rock, hip-hop, world ed elettroniche, il tutto spesso preceduto dal prefisso “alt-”. I guest curator di quest'anno, ovvero coloro che mettono assieme buona parte del cartellone, sono il musicista Devendra Banhart, l’artista sperimentale Moor Mother, il jazzista inglese Shabaka Hutchings e, udite udite, la regista/attrice Asia Argento. Inizialmente non risulta facile la scelta tra i tanti live previsti, soprattutto per le mefistofeliche sovrapposizioni di orari, ma è davvero difficile cadere male, quindi ogni rinuncia ha un suo premio.

Giovedì 8 Novembre

Il giovedì, i 34 elementi dell'Orchestre de Nouvelles Créations, Expérimentations et Improvisations Musicales’ danno il “la” con una pièce della compositrice francese Éliane Radigue, innalzando eterei drones strumentali verso l'alto delle navate del duomo di Utrecht, il Domkerk. Poco dopo, nella vicina chiesa di Janskerk il sax solista di Colin Stetson leva un inno più fragoroso, con uno dei microfoni direttamente attaccato alla gola per amplificare il poderoso respiro circolare e uno spettro di sonorità che pare infinito: una one-man-band dove il corpo è tutt'uno con lo strumento, davanti a un pubblico religiosamente estatico. Quello degli Art Ensemble of Chicago, nella Grote Zaal del Tivoli, è il concerto totale. Roscoe Mitchell e i suoi tengono fede allo spirito del primo Art Ensemble, un'entità in divenire che dagli anni Sessanta non ha perso la forza propulsiva esplorando l'improvvisazione, la creazione collettiva e il caos per poi raccogliersi uno a uno nello spazio dell'assolo, restituire le virtù rubate allo strumento e rimarcare la dimensione individuale di ogni musicista, in un via vai che non può essere del tutto contenuto né nel termine “jazz”, né in nessun altro. Molti sono gli artisti che in questa edizione di Le Guess Who? si esibiscono in formazioni insolite o allargate. Nell'evocativo palco della chiesa di Janskerk c’è l'attesissima Jerusalem in My Heart Orchestra, una collaborazione dell’omonimo duo audiovisivo di Montréal formato da Radwan Ghazi Moumneh, musicista originario del Libano, e Charles-Andrè Coderre, film-maker canadese, con un'orchestra di 15 elementi di Beirut coinvolta per l'esecuzione del classico egiziano “Ya Garat Al Wadi” del compositore Mohammad Abdel Wahab, che occupa il primo lato del recente album del duo “Daqa’iq Tudaiq” (2018, Constellation). È un passaggio che porta avanti l'incontro e la contaminazione tra sacro e pagano, tra sperimentazione elettronica occidentale e tradizione musicale mediorientale. La stratificazione di elementi elettronici e analogici si fa più sottile: a volte ci si perde tra le corde del buzuk, a volte si rimane appesi a una voce melismatica o ai drones. Dietro alla corposa formazione disposta a U sull'altare scorre la materia pastosa delle immagini della pellicola 16 millimetri che ri-fotografa e ri-lavora in colori vivi i ritratti dei fotografi libanesi Hashem El Madani e Akram Zaatari.

Venerdì 9 Novembre

La seconda giornata inizia dolcemente con il folk poliglotta del compositore e polistrumentista brasiliano Rodrigo Amarante, parte del programma curato da Banhart, che impregna la saudade della sua voce con tropicália, bolero e pop e restituisce un set morbido, nostalgico e accogliente in parte condotto alla chitarra insieme alla band e in parte all’organo in solo. A seguire un altro solo, tra i live migliori del Festival, quello del sudafricano Sibusile Xaba. Il musicista è seduto nel mezzo del palco e con chitarra e voce crea un concerto intensissimo. Senza soluzione di continuità, i brani procedono intrecciati l’uno nell’altro, a loro volta dilatandosi in una catena ipnotica che lega inizio e fine. Tra le scelte curate da Asia Argento arriva uno dei grandi nomi del cartellone: The Breeders, un potente cadeau per i nostalgici indie che vede una band decisamente in forma. La Grote Zaal, la sala principale del Tivoli, ospita la formazione ricomposta per il venticinquennale del loro album più acclamato, "The Last Splash” (4AD, 1993), un’occasione che ha creato le condizioni per la realizzazione di "All Nerve” (4AD, 2018), il primo album della band in dieci anni. Le sorelle Deal, insieme a Josephine Wiggs e Jim MacPherson, oltre ai brani più recenti danno una vigorosa rispolverata a vari “oldies” che, nonostante emergano dagli anni Novanta, non sembrano per niente datati. Si passa poi all’esaltante e tirato alt-hip-hop di Kojey Radical e JPEGMAFIA, mentre la chiusura della serata - almeno per i più attempati alt-rocker - è affidata ai giapponesi Bo Ningen. La performance è un complesso e potente mix di psichedelia, noise, punk e melodia che fa onore alle passate collaborazioni con Damo Suzuki e i Faust, ma con il giusto tocco glam futurista che solo quattro capelloni giapponesi possono dare.

Sabato 10 Novembre

Il sabato inizia vigoroso con il super-gruppo formato dal cantautore e chitarrista Ryley Walker e i giapponesi psych rocker Kikagaku Moyo, prosegue con il songwriting intimista del californiano Cass McCombs e, per il programma curato da Moor Mother, con lo spoken word show “Unanimous Goldmine” di Saul Williams, accompagnato dal Dj e produttore King Britt. Nel bel mezzo di una serata dai toni afro-futuristi, il live eccellente (e politico) degli inglesi Sons of Kemet XL di Hutchings impone una delle realtà più interessanti del panorama jazz internazionale con lo splendido “Your Queen is a Reptile” (Impulse!, 2018), album dedicato alla leadership femminile. Gli ottoni guidano una narrazione articolata e sorretta da una sezione ritmica a doppia batteria, robusta e intrigante: il loro trascinante live diventa un rituale collettivo, frutto di un brillante avant-garde jazz senza tempo. Su tutta la giornata si adagia il live etereo e raffinatissimo di Neneh Cherry incentrato sui brani di “Broken Politics” (2018; Smalltown Supersound), in cui la songwriter svedese è accompagnata sul palco da una formazione allargata alla famiglia, col figlio alle basi e la figlia alle percussioni. Indubbiamente la Cherry, artista e performer dal carisma immenso, oltre ad aver realizzato uno dei migliori dischi dell’anno inscrive il suo live tra i più incantevoli e intensi di questa edizione del Festival.

Domenica 11 Novembre

Ultimo giorno al via con il punk rock (fin troppo) muscolare degli Hot Snakes, seguito da un altrettanto poderoso set dei Mudhoney (sempre per la serie “oldies but goldies”), in cui volumi e distorsioni vengono lanciati alle stelle. Nella Grote Zaal apre un'altra formazione di eccezione formata per l'esecuzione di “Reaching for Indigo: Gaia Infinitus” di Haley Fohr aka Circuit des Yeux, in cui la songwriter del Midwest è accompagnata sul palco da 8 elementi della Netherlands Chamber Orchestra. Archi, batteria e percussioni dilatano le composizioni di un album, “Reaching for Indigo” (2017, Drag City), dalla scrittura articolatissima e polifonica su cui si appoggiano e si avviluppano la voce baritonale e la chitarra della performer. Senz’altro - e pur tra molti - è uno dei picchi più alti del festival. Altra formazione pressoché inedita è Quadrinity, ultimo progetto del batterista e polistrumentista newyorkese Greg Fox, dove a sax, violoncello e chitarra acustica del progetto originale si aggiungono flauto traverso e voce. Gli strumenti al di fuori della batteria accompagnano e fanno da audace contrappunto al magmatico mulinare delle bacchette di Fox, con accelerazioni devastanti e infinite variazioni. Il costante cesellare di suoni e ritmiche compone un post-free jazz con un’anima metal dai cambi imprevisti e dalle possibilità espanse dall’elettronica, calibrate sul range dello strumento. Per alcuni la grande chiusura di domenica sera è il live della band The Comet Is Coming, altro progetto del prolifico Hutchings, che trasforma la Grote Zaal in un dance floor apocalittico sotto l'egida dello spirito cosmico di Sun Ra. L’incontro esplosivo tra elettronica, jazz e afrobeat crea un poderoso exploit che mette decisamente in crisi le casse e diffonde onde di euforia e vigore nel pubblico. Concludiamo davvero con l'elegante modern soul di Swamp Dogg, al secolo Jerry Williams, Jr., noto per essere finito nella famigerata lista dei nemici di Nixon per i suoi testi radicali e sovversivi. Swamp Dogg ha 76 anni, è ancora in pista e interessato ad evolvere il suo suono: con l'ultimo album "Love, Loss, and AutoTune" (2018, Joyful Noise Recordings) decide di mettere alla prova il suo soul blueseggiante con le innovazioni della produzione elettronica, a cominciare dal famigerato AutoTune che, lungi dall'essere un artificio che semplifica la vita dei cantanti, si presta a un uso espressivo e ironico.