Abbiamo dovuto attendere quasi un quindicennio, ma alla fine Rick Froberg e John Reis ce l’hanno fatta: la reunion dei formidabili Hot Snakes, avviata nel 2011 con sporadiche apparizioni live, si completa oggi con l’uscita di un nuovo disco, il quarto, registrato lo scorso anno tra Philadelphia e San Diego assieme al produttore di fiducia, Ben Moore. Per l’occasione, i ragazzacci californiani hanno deciso di fare le cose in grande estendendo l’invito a tutti i titolari di ieri – il bassista Gar Wood ed entrambi i batteristi storici, Mario Rubalcaba (Black Heart Procession, Rocket From The Crypt) e Jason Kourkounis, per la prima volta insieme – e uscendo non più sull’etichetta di Reis, la Swami, bensì su Sub Pop, che ha parallelamente curato la ristampa in vinile di tutto il catalogo precedente.
“Jericho Sirens” parte con il degno assalto alla baionetta di “I Need A Doctor”, tanto per prendere di petto il rientro e sgombrare subito il campo da eventuali titubanze. La ruggine è tutta confinata nella sporcizia di un suono comunque fragoroso e compatto, mentre l’atteggiamento si conferma quello incendiario dei bei tempi. Incalzanti, affilati, con le chitarre di Reis come grattugie e tutti gli spigoli al posto giusto, gli Hot Snakes risfoderano il verbo post-hardcore delle origini con la necessaria marzialità, ritmiche arrembanti e la cattiveria che Froberg non sembra aver perduto per strada, nemmeno nella più appagata routine del progetto Obits. Più emocore che garage-punk, quindi, per ribadire che i Drive Like Jehu non vanno intesi come un lontano ricordo.
Rispetto ai precedenti lavori con la presente ragione sociale, che erano a detta di John “tensione e rilascio”, in “Jericho Sirens” ci sarebbe “solo tensione”. Una convalida per tutte, i frangenti tipo “Why Don’t It Sink In?” in cui la band si fa ancora più belluina, lurida e caotica e affonda come una lama rovinatissima direttamente nel burro fuso. Episodi più aperti a una ruvida contemplazione, come quello che presta il titolo alla raccolta, rallentano appena i giri per quanto il tono resti accigliato, il grugno ostile, ossessivo e mordace il piglio, sovraesposta la grana. Il risultato rivela un che di catartico e ottiene il massimo della suggestione dall’aggressività messa in campo: la centrifuga elettrica non viene mai messa in pausa e lo stesso vale per il latrare rauco e luciferino di un capobanda in forma smagliante, che in “Psychoactive” sembra persino concedersi una rivisitazione burrascosa di certi cliché cari ai primi Blonde Redhead.
Al di là della croccantezza del sound o delle occasionali puntate acide (tipo la lamiera bollente del congedo, “Death Of A Sportsman”), qua e là il gruppo pare piuttosto far affidamento su una maggior prevedibilità di scrittura, avvicinando bestie grunge come i Mudhoney della maturità senza per questo inficiare la propria acuminata purezza e senza lesinare sul sudore (“Six Wave Hold-Down”, la cavalcata muscolare di “Death Camp Fantasy”).
La seconda facciata, in particolare, non insiste sulla carta viscerale dell’istintualità per proporre un’ipotesi più solida e paziente di martellamento, il mirabile stillicidio di un fuoco incrociato (e ininterrotto) che incombe sull’ascoltatore e non lo risparmia, con una brutalità che mai indulge al sadismo.
Dimenticavamo l’ulteriore buona notizia: altri due dischi sarebbero già bell’e pronti, e la scelta di questo lavoro in fondo più accessibile servirebbe appunto a trovare un nuovo seguito di aficionados per l’imminente futuro. Valeva proprio la pena di attendere così a lungo, insomma...
04/04/2018