“Torno a suonare dopo la peste nera”, ci fa sapere Angelo Branduardi. E noi devotamente accorriamo, imbavagliati – per gli ultimi residui della suddetta peste - ma felici di poter assistere al nuovo viaggio nel tempo messo in scena dall'inveterato menestrello d'Italia. L'unico che possa fregiarsi davvero di questo titolo. Perché Branduardi, anche fisicamente, incarna da sempre uno spirito musicante di un'altra era. Totalmente sganciato dalla realtà nel senso più nobile del termine, fin da quel suo look ascetico, fatto di casacche nere, pantaloni larghi ed espadrillas: essenziale e puro come la sua musica, griffata dalla sua folta chioma – ormai completamente canuta – e dal suo inseparabile violino.
È un set bifronte, quello che attende gli spettatori che gremiscono (finalmente) la splendida Sala Sinopoli dell'Auditorium. Il prologo è tutto riservato a “Il cammino dell'anima”, l'ultimo album del compositore lombardo, ispirato dalla vita e dalle opere di Hildegard von Bingen, monaca reclusa secondo la regola di San Benedetto fin dall’età di 8 anni e poi badessa di Bingen, ma anche mistica, poetessa, musicista, filologa ed erborista, nonché “femminista ante litteram”, come ricorderà Branduardi. Nella seconda parte invece – ci ammonisce divertito - “niente vi sarà risparmiato”. Che è il suo modo per preannunciare una ricca carrellata di successi, chicche e classici tratti dal suo cinquantennale repertorio.
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C'era del sano timore – ammettiamolo – per la mastodontica suite sulla badessa tedesca del XII secolo. Forse anche per via di una colpevole disattenzione da parte di chi scrive alla recente produzione branduardiana. Perché ciò che ci troviamo ad ascoltare, invece, è ancora una volta un illuminante saggio dell'ancestrale folk a tinte mistiche del cantautore di Cuggiono. Emoziona in particolare il trittico della
title track, con la splendida ninnananna della prima parte a più voci (nel disco c’è anche quella di
Cristiano De André), che riproduce il lento incedere dei fedeli in processione, “il cammino dell’anima” della giovane Hildegard; a seguire una seconda parte in cui è la voce cavernosa e filtrata del Maligno tentatore a spargere veleno e lusinghe simboleggiate dalla “brama del serpente”; mentre il terzo episodio, introdotto dal coro di voci celestiali, si apre in una radiosa melodia suggellata dal flauto (qui sintetico) e dall’apporto corale della band a glorificare l’estasi mistica di Hildegard che trionfa sulle tentazioni della carne (“la superbia del drago nell’abisso sprofonderà e la donna la brama del serpente sconfiggerà”). Dopo il trascinante strumentale “Gerusalemme” per violino e percussioni, “L’estasi, la donna” e “L’estasi, il figlio” chiudono enfaticamente il ciclo della vita della santa, che si fa emblema della grandezza di tutte le donne trovando riscatto anche per Eva, colei che al “respiro del serpente” non seppe resistere.
Forse neanche Branduardi si aspetta l’ovazione che accoglie la conclusione della suite, al punto da commentare divertito “lo sapevo che se l’avessi portata a
Sanremo, avrei spaccato tutto!”. È in forma, il menestrello d’oltre Po, che come al solito si diletta a ironizzare su di sé: “Sono un musicista anomalo, così hanno scritto di me su un giornale. Hanno ragione!”. Ad assecondarlo una band potente, che sembra divertirsi molto a seguirlo lungo i sentieri impervi del suo violino - Fabio Valdemarin (tastiere, chitarra, cori), Antonello D’Urso (chitarre, cori), Stefano Olivato (basso elettrico, contrabbasso elettrico, chitarra, armonica, cori) e Davide Ragazzoni (batteria e percussioni). L’impianto scenico è essenziale: tagli di luce teatrali e un tetto di lampadine dai toni caldi. Nessun orpello tecnologico, solo una tenda trasparente e nuvole bianche di fumo a far da cornice ai suoni.
Non ci sono solo hit, nella seconda parte del set. Trovano posto infatti anche la canzone scritta durante la pandemia – “Kyrie (Signore abbi pietà)”, nata dalla citazione del Kyrie della Missa Luba di tradizione congolese – e l’elegia di “Lord Franklin” (da “Il rovo e la rosa - Ballate d'amore e di morte” del 2013), ballata inglese del periodo elisabettiano introdotta con lunga dissertazione su quella spedizione a Nord-Ovest tragicamente fallita tra i ghiacci artici e sul ritrovamento recente della nave a causa dello scioglimento del Polo Nord (“clamorosamente intatta, come se fosse rimasta ibernata per quasi due secoli, ho controllato con la lente le immagini”, ci racconta appassionato).
Un breve capitolo viene riservato anche a “L'infinitamente piccolo”, l’album dedicato a San Francesco d'Assisi in occasione del Giubileo del 2000: “Vennero questi francescani a casa mia, io ero sospettoso, non amo le canzoni devozionali, questa roba da Radio Maria che senti anche quando accendi il gas… canzoncine pop! Poi però mi hanno spiegato che volevano fare una operazione filologica, e allora ho cambiato idea”, spiega, ricordando anche come alla sua obiezione “ma io, come tutti gli artisti, sono un peccatore”, i frati gli risposero “Dio sceglie i peggiori” (e se la ride…). Segue una trascinante esecuzione della festosa fanfara di “Il sultano di Babilonia e la prostituta”, la canzone sull'incontro avvenuto nel 1219 a Damietta assediata dai Crociati tra Francesco d'Assisi e il sultano al-Malik al-Kāmil, nella cui versione discografica coinvolse anche l’amico
Franco Battiato, ricordato con la giusta sobrietà, suscitando un lungo applauso del pubblico in sala.
Ma certo non possono mancare i grandi classici: l’incalzante “Si può fare”; la non meno contagiosa “Gulliver”, ispirata alla ballata bretone del Quattrocento “Son ar Christr” (“Venite tutti/ che strana meraviglia il mare ci portò… è Gulliver il grande che il mare ci portò… è una nera montagna che ci toglie il sole”); “
Alla fiera dell’Est”, con il pubblico a scandire l’immortale filastrocca riadattata dal poema ebraico "Chad Gadyà"; "La predica della perfetta letizia" con tanto di danza con i piatti; la struggente ode celtica "Il dono del cervo", con il flauto a scandire la sua riflessione metaforica sulla ciclicità della vita; “La serie dei numeri” (dal canto bretone "Ar Rannoù") che, tra figure medievali e simboli superstiziosi, chiosa sinistra: "E unica è la morte, da sempre signora del dolore"; e naturalmente – per restare in tema – quell’altro capolavoro di “Ballo In Fa Diesis Minore” da lui stesso definito “puro rock gotico branduardiano”: “Sono io la morte e porto corona/ Io son di tutti voi signora e padrona”, con tanto di gigantesco gong a rimbombare cupissimo. Sono motivi talmente familiari e universali da sembrare inscritti da sempre nel nostro codice genetico.
Chiude il set l’apoteosi folk di “La pulce d’acqua”, con il torrenziale solo di violino finale di Branduardi sottolineato dalla standing ovation del pubblico.
Al rientro c’è spazio per un solo bis e per un altro ricordo, quello di Luigi Magni, che gli commissionò la colonna sonora del film “State buoni se potete” dedicato alla vita di san Filippo Neri, in cui lo stesso Branduardi recitava nella parte di Spiridione, un personaggio di fantasia. “Sono immodesto ma non vanesio”, si congeda l’ineffabile menestrello, prima di declamare le strofe di “Vanità di vanità” con cui chiude il concerto. Quasi due ore e mezzo di spettacolo in cui non ci si è annoiati neanche per un minuto. Solo un piccolo rammarico per l’esclusione di “Cogli la prima mela” (una delle preferite del sottoscritto) ma poi lo vedi fare il saltello da giullare medievale abbandonando il palco e non puoi non pensare solo ad amarlo incondizionatamente.