19/11/2023

Will Sheff

Teatro Magnani, Fidenza (Parma)


“The heart wants to feel. The heart wants to hold”. Le parole sono ancora quelle, il resto sembra tutto diverso. Il tempo ci ha cambiati, eppure siamo gli stessi: il cuore vuole sempre sentire, il cuore vuole sempre stringere.
Sono passati quindici anni dall'ultima volta in cui Will Sheff ha messo piede in Italia. La sfrontatezza di una volta ha lasciato il posto a un’aura quasi da anacoreta americano: i capelli lunghi, la barba, gli occhiali alla John Lennon. Il gruppo che lo accompagna non porta più nemmeno il nome di Okkervil River, è semplicemente la sua backing band di turno. “Rest in peace, Okkervil River”. Ma le canzoni no, quelle non muoiono. E continuano a parlarci in una lingua che non si arrende al passare delle stagioni.

Teatro MagnaniAd accogliere Sheff, stavolta, è l’incanto neoclassico di un piccolo teatro dell’opera, il Teatro Girolamo Magnani di Fidenza. Scenario ideale per l’anima più intima della musica del songwriter americano, che in questo angolo di Emilia (con il supporto del Barezzi Festival) sembra trovarsi più che mai a casa.
Il prologo è affidato al country-jazz per voce e chitarra di Claudia Buzzetti, bergamasca con l’America nel sangue, che alterna con uno spirito al tempo stesso vulnerabile e giocoso i brani del suo Ep d’esordio (“7 Years Crying”) e un assaggio del nuovo disco previsto per l’anno prossimo.
Chitarra acustica a tracolla e tastiere di fronte, Sheff entra in scena riallacciando i fili della memoria con quella “Plus Ones” che nel 2008 aveva già aperto il suo concerto milanese. Dopo un tuffo nell’ultimo disco solista con l’andatura bowieana di “Estrangement Zone”, tocca subito a “Okkervil River R.I.P.” mettere in chiaro che la vita è fatta di cose che finiscono e di cose che cominciano: un lento e inesorabile crescendo emotivo, che va a sfumare in un sussurro carico di nostalgia per la musica stessa, e per il modo in cui ci ha plasmati (“Two guitars, a drummer/ A chick singer with a Kurzweil/ On a keyboard stand/ And I said, ‘Play that cover’/ I said, ‘Play that cover song again’”).

Will SheffSheff si spinge verso il proscenio stringendo il microfono e sugli arpeggi della chitarra tutta la platea trattiene il respiro: “Black” rinasce completamente scarnificata, abbandonando la furia di “Black Sheep Boy” per abbracciare un’amarezza che scava ancora più nel profondo. È una chiave di lettura nuova a illuminare tutti i brani del vecchio repertorio che si riaffacciano nel corso della serata (pur senza poter contare sull’alchimia di una band consolidata, visto che il gruppo che lo accompagna non è quello con cui ha registrato l’ultimo disco): la cavalcata di “Down Down The Deep River” si fa più secca e martellante con il basso di Julian Cubillos, “So Come Back, I Am Waiting” va a infrangersi in una tempesta elettrica guidata dalla chitarra di Matt LeMay.
Il momento più vibrante, però, è nel climax di “The War Criminal Rises And Speaks”, che oggi più che mai, di fronte alla portata incommensurabile delle tragedie che ci scorrono davanti agli occhi, spazza via tutti i nostri tentativi di autoassoluzione. Quando il criminale di guerra inizia la sua arringa, non abbiamo più scampo: il male è soltanto banale, non imperscrutabile, e abita prima di tutto dentro il nostro cuore.

Anche alla prova del palco, i brani di “Nothing Special” confermano la loro efficacia, dalla luminosità di “The Spiral Season” a una tagliente “Like The Last Time”. Al momento di introdurre la title track, Sheff ricorda che è proprio da una conversazione con il chitarrista Matt LeMay che è nata l’idea del brano; come ha raccontato in un’intervista, “Matt mi ha detto che da tutto il dolore e da tutto il sentirsi spezzati e impossibili da aggiustare c’è una cosa da trattenere: niente di tutto questo ti rende speciale”. “It’s time to say it’s done/ I’m not getting what I want”, mormora Sheff cullato da una melodia circolare, lasciandosi alle spalle la tossica illusione di poter avere il controllo della propria vita, di essere artefici della propria unicità. “When I’ve lost it, I’m finally free/ To be nothing special”.

Will SheffAl ritorno in scena per i bis, un beat pulsante e un tappeto di tastiere introducono una versione al rallentatore di “For Real”, in cui il riff originale si riduce a un ricamo di chitarra, prima dell’esplosione finale.
Poi, la gestualità teatrale e la voce arrembante di Sheff abbandonano gli ormeggi e si lanciano tra le braccia di “John Allyn Smith Sails”, con quel liberatorio (e altrettanto drammatico) “I wanna go home” preso in prestito da “Sloop John B”, subito seguita da una travolgente “No Key, No Plan”. La foga, per un attimo, sembra la stessa della prima volta in cui gli Okkervil River sono sbarcati in Italia. “There’s only now and there isn’t then, so just breathe it in”, è l’ultimo grido di Sheff. Forse il segreto per far tornare i conti con il passato sta tutto qui: prendere un respiro e buttarsi nel presente, senza fermarsi a guardare indietro.