E vuoi sapere la parte peggiore? La nostra intera esistenza qui è basata sulla grande premessa che noi siamo speciali, e superiori a tutto il resto… ma non lo siamo, siamo tali e quali agli altri.
(Sam Mendes, “Revolutionary Road”)
L’illusione di essere speciali, che grande inganno. Quella falsa promessa che ci è stata venduta da adolescenti, con cui ci tocca fare i conti nell’età adulta. Per Will Sheff è inscindibile dalla parabola degli Okkervil River. Il sogno indie e la rivelazione della sua precarietà. È sempre stato impietoso, nel guardarsi allo specchio. E così, al momento di mettere per la prima volta il suo nome su un album solista, il titolo non poteva essere che questo: “Nothing Special”. Ovvero il falò dell’egocentrismo, della presunzione e di tutto il risentimento verso il mondo che ne deriva.
Tutto parte dal dialogo con un’ombra. L’ombra di un vecchio amico, di un compagno di viaggio: Travis Nelsen, il batterista degli Okkervil River nel periodo d’oro del gruppo, scomparso nella primavera del 2020. Le loro strade si erano separate da tempo, ma quello che li aveva legati era rimasto vivo, nascosto da qualche parte. Il brano che dà il titolo al disco è dedicato a lui, e a quello che Sheff ha imparato dal passato. È una favola in punta di arpeggi, raccontata alla maniera di Sufjan Stevens: “It’s once upon a time/ I rode with a friend of mine/ Side by side on the conquerors’ route”. Parla del desiderio che vibra nella giovinezza, parla della sua sconfitta e della sua metamorfosi. Soprattutto, parla della libertà di saper lasciar andare le cose: “It’s time to say it’s done/ I’m not getting what I want/ When I’ve lost it, I’m finally free/ To be nothing special”.
“È stato molto complicato per me affrontare il lutto”, confessa Sheff, “perché era anche il lutto per lo stupido sogno che condividevamo. Era davvero qualcosa di dolce, ingenuo, infantile, splendido e distruttivo. Avevo bisogno che fosse qualcosa a cui non ero più interessato”. Non è un caso che a sostenerlo nel brano ci sia anche la voce di Jonathan Meiburg degli Shearwater, il complice numero uno di Sheff alle origini del vecchio gruppo.
Negli otto episodi di “Nothing Special”, Sheff sembra voler risalire il corso del fiume Okkervil: “The Spiral Season”, con i suoi slanci appassionati e corali, potrebbe appartenere a “The Stage Names” o a “The Silver Gymnasium”; nel piano sognante che culla la melodia di “In The Thick Of It” si sentono gli echi delle ballate di “Black Sheep Boy”, con un andamento coheniano accompagnato dalla voce di Cassandra Jenkins; le astrazioni atmosferiche di brani come “Estrangement Zone” e “Holy Man” portano il segno delle esplorazioni di “Away”.
In fondo, proprio “Away” (con la sua “Okkervil River R.I.P.”) era l’anticipo della scelta solista che “Nothing Special” porta a compimento. Dimenticato il passo falso di “In The Rainbow Rain”, Sheff torna a dare voce alla sua anima più cantautorale, senza risparmiare qualche staffilata alle sue stesse derive (“You give me a dollar/ I’ll do some or all/ Of my perfectly middlebrow blues”, ironizza in “In The Thick Of It”). Accanto a lui c’è un trio fisso di collaboratori (battezzato Dirty Shitty Dirt Boys), che non si limita a fare da backing band, ma firma anche diversi brani del disco insieme a Sheff: Christian Lee Hutson (forse il songwriter della generazione millennial che ha ereditato più di tutti lo spirito degli artisti indie di inizio Duemila), Benjamin Lazar Davis e Will Graefe (entrambi già presenti nell’ultima incarnazione degli Okkervil River).
Nelle atmosfere dell’album c’è il riflesso della California, dove Sheff si è trasferito dopo avere abbandonato New York. Non però la California assolata dei panorami di Instagram, ma una California nostalgica e autunnale, più consona a un figlio del Midwest come Sheff. Che infatti racconta di aver concepito le sue nuove canzoni aggirandosi tra le lapidi dell’Hollywood Forever Cemetery di Los Angeles, come si vede anche nel video di “In The Thick Of It”.
Tra le torsioni abrasive di “Like The Last Time” e i panneggi eterei di “Marathon Girl”, l’epilogo di “Evidence” si distende morbidamente in cerca di una qualche segreta forma di consapevolezza universale: “Anything is full of everything/ No coincidence, enter it in evidence”. Sullo sfondo c’è un riverbero di fiati, mentre il canto si fa ipnotico come una litania. Ogni respiro del mondo rivela la sua unicità, sembra suggerire Sheff con la sua aura più mistica, quando si abbandona la convinzione di essere l’unica cosa speciale al centro della realtà. “The world’s holding you realer and realer/ Realer and realer, you sweet, sweet feeler”.
09/12/2022