Lo ammetto con candore: questa recensione mi ha messo in difficoltà. Poche volte ho impiegato così tanto tempo a capire se un disco mi fosse piaciuto o meno e, soprattutto, se fosse effettivamente un prodotto valido o solo un oggetto ben impacchettato. Ma andiamo con ordine: qualche mese fa gli Okkervil River si riaffacciano sulle nostre vite a due anni dall'eccellente "Away", ambiziosa raccolta in cui la compagine texana riacciuffa la propria cifra più consona, dopo una fase di divagazioni ed esperimenti. Al contrario, il titolo di questa nuova fatica promette mirabolanti capriole in technicolor: basta questo a incuriosirmi. Il biglietto da visita è un singolo davvero niente male, "Don't Move Back To LA", calda ballatona southern ricca di richiami/ricami country e soul, con tanto di chitarre allmaniane e sensuali cori femminili. Certo, la confezione non ha esattamente la fragranza di un biscotto sfornato dai FAME Studios, così gonfia e tirata a lucido, con quel rullante pesante una tonnellata e quei phaser sguscianti un po' alla Billy Corgan, ma mi sta bene: una specie di Aor aggiornato all'epoca dei compressori plugin, perché no. L'artwork, dal canto suo, sembra vivere una schizofrenia simile: sul fronte colori freddi che associo d'istinto a un disco synth-pop, sul retro un tenue pastello molto seventies. Anche qui, ben vengano le contaminazioni: si sono guadagnati la mia attenzione.
Le perplessità iniziano ad addensarsi con il secondo, enfatico estratto: "Pulled Up The Ribbon". Il brano in sé è solo banale e un po' bruttino, ma la produzione fatico a non definirla insopportabile, così schiacciata, turgida, ululante: la canzone meno riuscita dei Grizzly Bear con i suoni pompati allo spasimo dei War On Drugs, ecco l'immagine che mi attraversa la mente. Lo sciagurato arredatore è Shawn Everett, e sfogliando il suo pedigree (non) mi sorprendo a intravedere tra i suoi ultimi clienti proprio i gruppi appena citati, come pure altri due nomi che avevo scorto in trasparenza: Killers e Broken Social Scene. Tutte band epiche, che gridano le loro ansie al cielo dalla cima di un pendio nebbioso, tra rulli di tamburi e squilli di trombe. Intendiamoci: certi toni non sono certo materia estranea alle narrazioni dense e ai crescendo impetuosi degli Okkervil River, ma qua si parla di pura magniloquenza, la volgarità reazionaria di una parata militare più che il melodrammatico istrionismo dell'Opera. Sarà questo, dunque, il vero volto del disco? Aspettiamo un altro segnale di fumo.
Va decisamente meglio con il terzo e ultimo antipasto, la deliziosa "Famous Tracheotomies", accompagnata da un video altrettanto efficace: una storia tra le più bizzarre e commoventi mai intavolate dal Nostro, che esorcizza il traumatico intervento a cui fu sottoposto da bambino creando un pindarico parallelismo con altre "famose tracheotomie" dalle molteplici conseguenze, emozionanti storie di declino (Gary Coleman), solidarietà (Mary Wells), morte (Dylan Thomas) e creazione artistica (Ray Davies, furbescamente tirato in ballo nella coda che rielabora "Waterloo Sunset"), il tutto su un tappeto sincopato occhieggiante al compianto Prince. Un esercizio letterario e musicale di alto livello, una vera lezione di stile, in cui i suoni ancora una volta sopra le righe non disturbano perché attecchiscono su uno scheletro abbastanza robusto da sostenerli. Gli elementi, a questo punto, sono molti e contraddittori: sento che dovrò dedicarmici a questo disco, se vorrò davvero inquadrarlo.
Cos'è, dunque, "In The Rainbow Rain"? La sensazione è che Will Sheff l'abbia pensato come l'opera definitiva della sua creatura, una roboante summa dell'intera carriera, funerale scatenato per marcare l'altra faccia di quella "Okkervil River RIP" che apriva il disco precedente, rinnegandosi per superarsi. Cerca di farlo non con l'ennesimo concept, ma con una semplice raccolta di canzoni, pop a tutto tondo nei presupposti e nella messa in atto, una versione intellettualmente consapevole di certe gomme da masticare usa e getta. Ahinoi, questa spasmodica smania di grandeur finisce col soffocare le sue senz'altro buone intenzioni, paludando delle composizioni nel complesso degne con massicci paramenti sintetici, ottimi da ascoltare in palestra durante una sessione di addominali, un po' meno per consolidare la sua riconosciuta statura di autore sui generis.
Ogni brano, masterizzato a volumi da lite condominiale, trabocca di strumenti, timbri, effetti, in una torta così stratificata e zuccherina da stomacare dopo due bocconi. Siamo lontani come non mai dal folk-rock appassionato che ha fatto innamorare molti: la lancetta è inchiodata sugli anni 80, dirottando certo macho-pop statunitense (sì, proprio quello dei Toto o dei Boston) dentro la più soffice polverina glitter britannica (Supertramp, Prefab Sprout, Simple Minds) e un asso pigliatutto come i Fleetwood Mac a tenere la palla al centro.
Tra un inno heartland con tanto di ruggente sax springsteeniano ("The Dream And The Light") e un raga paisley messo in bocca agli Arcade Fire ("How It Is"), il leader tenta comunque di non scontentare i fan della prima ora, ma l'esito odora di paraculata cerchiobottista e finisce con l'irritare ancora di più. I risultati migliorano quando le carte vengono disposte in modo meno ruffiano, costeggiando il modernariato dolciastro di Mac DeMarco ("Family Song"), filtrando i My Morning Jacket attraverso i Beach House ("Shelter Song") o facendo reinterpretare Kevin Ayers ai Magnetic Fields ("External Actor"). Gli Spandau Ballet-via-Coldplay di "Love Somebody", in ogni caso, sono un motivo sufficiente per avercela con lui pressoché in eterno. Prima delle ultime battute, "Human Being Song" prova a giocarsi la carta del sogno ad occhi aperti snocciolando certi cliché dal ricettario di "Abbey Road", ma la verità è che c'è ben poca magia in lavoro così meticolosamente calcolato e chiuderlo dichiarando di "credere nell'amore" non sposta l'asticella della credibilità.
Dal canto loro i testi, trasudanti fatalismo, rimpianti e paure, risultano per lo più opachi, con pochi guizzi, dominati dalla stanchezza forse autoironica che vorrebbero comunicare. A convincere (quasi) sempre è invece la voce, che dismette le abituali pose da Robert Smith asmatico per avvolgersi in un vellutato falsetto che, in diverse dosi, fu di Elvis Costello, Mark Hollis e addirittura Antony, ma con una pigrizia e una fragilità tali da creare un contrasto quasi patetico con il testosterone scalpitante delle basi strumentali, come se il cantante fosse il primo a sentirsi a disagio lì in mezzo: l'impressione di un'autoparodia nemmeno troppo ben orchestrata si fa spesso così insistente da imbarazzare.
In conclusione: per quale ragione, al netto dell'indubbia qualità di molte melodie, il buon Will ha scelto di capitolare in maniera così arrendevole ai più beceri dogmi del pop di consumo, rovinando spunti spesso più che pregevoli? Verrebbe da chiosare, con non poca cattiveria, un goffo tentativo di scalare il carro dei vincitori, salendo di gran carriera sul revival synth-black-trash che non stenta a mollare la cresta dell'onda, ma fatichiamo ad attribuirgli tanta spregiudicatezza.
Quale verdetto è più appropriato? 8 per chi vorrà concentrarsi sulla fattura senz'altro di livello, 4 per chi avrà da obiettare sul cattivo gusto e la piattezza: di media fa 6, teniamola per buona. Forse la scelta più azzeccata è goderci queste dieci canzoni senza lambiccarci troppo, magari sparandole in cuffia per darci lo sprint durante una corsa e ricanticchiandole sotto la doccia per distenderci, ma si ripresenta un interrogativo ormai sistematico in situazioni simili: perché ascoltare degli indie-rocker che scimmiottano le arena-star quando possiamo comodamente fare riferimento alle fonti originali, di certo non esaltanti ma quantomeno più oneste?
23/06/2018