Parabola insolita, quella dei
Bad Religion. Esordirono nel 1982 con “How Hell Can Be Any Worse?” nel segno dell’
hardcore californiano più incorrotto e incorruttibile, vergando con la rabbia ribelle dei diciott’anni inni anarco-generazionali del calibro di “We’re Only Gonna Die” e “Fuck Armageddon… This Is Hell”. Nulla di quell’esordio di certo acerbo ancorché furibondo lasciava intravedere però la direzione inaspettata che la band avrebbe preso appena l’anno dopo. “Into The Unknown”, più che il salto nell’ignoto del titolo, fu un salto nel proibito: i Descendents che facevano aperitivo coi
Black Flag ascoltando di nascosto il
mainstream rock e gli
Alan Parsons Project, il
punk che ammiccava al
progressive e persino alla fantascienza, nelle fughe a perdifiato di sintetizzatori intergalattici e nei testi ispirati a Kurt Vonnegut. Disco tanto kitsch quanto coraggioso, “Into The Unknown” pugnalava il punk alle spalle, ma nello stesso momento ne esaltava al massimo lo spirito antagonista, esibendo una coerenza filosofica senza eguali: se bisognava mandare al diavolo tutti, bisognava mandare al diavolo innanzitutto se stessi, le proprie convinzioni.
Archiviato, in questo senso, uno dei fallimenti più riusciti del rock, il cantante Greg Graffin e il chitarrista Brett Gurewitz – nucleo originario dei Bad Religion - dovettero perdersi in una bella crisi d’identità, giacché non pubblicarono dischi per ben cinque anni. Solo un Ep, nel 1985, intitolato emblematicamente “Back To Know”, come a dire: “torniamo a quello che ci compete e sappiamo fare meglio”. Ovvero spaccare i culi. Una volta ritrovata la loro strada, i Bad Religion – stabilizzatisi nella formazione a cinque con Greg Hatson alla seconda chitarra, Jay Bentley al basso e Pete Finestone alla batteria - si cimentarono di nuovo col formato album nel 1988, e lo fecero in grande stile. “Suffer” fu il loro primo capolavoro nonché il capostipite di un trittico pazzesco, concluso nel 1990 da “Against The Grain”. I Bad Religion erano una band rinata: l’inarrestabile furia ritmica dell’hardcore aveva ripreso il sopravvento, le asprezze armoniche non erano state bandite del tutto, ma nella loro musica adesso si era insinuato un amore per la melodia senza precedenti in un genere così poco compromissorio. Un minuto, un minuto e mezzo, la durata media dei brani; testi che proponevano analisi sociopolitiche profonde e consapevoli, senza concessioni al facile populismo; crescendo e cori epici che manifestavano la gioia della rivolta. Disobbedire è bello, se lo si fa con cognizione di causa: questo l’unico comandamento della Cattiva Religione.
Della triade dorata dei Bad Religion, “No Control” è forse il titolo migliore. Il capolavoro dei capolavori. Non solo perché, come vogliono i saggi, “la virtù sta nel mezzo” (proverbio invero poco punk e pericolosamente democristiano) ma anche perché suona come una raccolta di inni nazionali per reietti apolidi, un prontuario di preghiere sociali scritte da miscredenti che credono soltanto nella capacità dell’uomo di rispettare i propri simili e vivere con loro in un regime di armonia, solidarietà e giustizia condivise. Una declinazione anarchica del Cristianesimo più autentico; sembra assurdo riferito a una band hardcore in odor di ateismo (in realtà Graffin si è sempre dichiarato un naturalista, una sorta di umanista che crede nelle relazioni e non nelle istituzioni) ma – dal punto di vista contenutistico - “No Control” somiglia proprio a questo.
I cinquantaquattro secondi di furente utopia con cui si apre il disco invocano un cambio di prospettiva: “Change Of Ideas” si appella alla rivoluzione più nobile, quella delle coscienze. Nessuna violenza, se non quella dirompente delle idee (e della musica). Fa venire in mente Pasolini, quando affermava che la vera rivoluzione è vivere come se fosse già stata fatta, la rivoluzione. Lungo le sue quindici canzoni, “No Control” si prefigge di diffondere un verbo: che sia un auspicio di pace universale ( “I Want To Conquer The World”, che leva verso il cielo fendenti chitarristici da orgasmo) o un monito all’uomo inabissatosi nelle sabbie mobili di vanaglorie materialistiche (“The World Won’t Stop”, il rodeo virulento con cui si chiude l’album).
Tra collassi dissonanti (“Sometimes I Feel Like”) e accorati appelli in forma di quasi ballata (“Sanity”), il Vangelo secondo Greg Graffin elargisce precetti etici e insegnamenti di vita. Così se “Henchman” esorta a mantenere la schiena diritta in una società arrivista che ci vorrebbe tutti tirapiedi, “Progress” ammonisce di non abbassare la guardia davanti alle ambigue promesse del progresso, mentre “Automatic Man” ribadisce la centralità della resistenza – resistenza umana ancor prima che politica – in un mondo dove i grandi poteri lavorano alla nostra lenta spersonalizzazione.
È musica che sa toccare le corde dell’animo, quella dei Bad Religion, perché è perentoria e accattivante come solo l’hardcore melodico sa essere, ma va ben oltre la sua forma semplice e diretta: è il pugno che ti sveglia, lo schiaffo che ti costringe a ripensare il rapporto tra soggetto e mondo. E la riflessione che ne consegue assume ancora una volta connotati sorprendentemente cristiani in brani quali “It Must Look Pretty Appealing” e “Anxiety”, che parlano della “malattia” più diffusa nelle moderne società capitalistiche: l’ansia; di vivere, dei sentimenti, di dover assolutamente apparire qualcosa di diverso da quello che siamo (la disperazione di non voler essere se stessi, direbbe un filosofo credente come Kierkegaard).
Senza cadere in interpretazioni “revisionistiche” o, peggio ancora, cedere ad argomentazioni vacuamente provocatorie, inquadrare da una prospettiva del tutto inedita una musica che sembra già rivelata in ogni suo aspetto non è mai un esercizio critico inutile. Applicare questa prassi a “No Control” permette così di cogliere in esso - come già anticipato - affinità dottrinali con alcuni dei valori cardine di cui si era fatta carico anticamente la parola di Cristo, indipendentemente da come il potere ecclesiastico l’abbia poi manipolata nel corso della storia per scopi tutt’altro che spirituali. Tanto, che la musica dei Bad Religion non si ispiri al concetto cristiano di Redenzione, lo confermano paradossalmente proprio i due brani pervasi da istanze “millenariste”: l’arsenale sonico di “Big Bang” e l’urlo corale di “No Control”. La catastrofe è in atto e non ci sarà riscatto spirituale, non ci sarà la misericordia di un Dio a consolarci: l’uomo è destinato a estinguersi per effetto delle forze entropiche congenite alla sua natura. Sentenza spietata, senza appello, emessa citando in controluce il geologo James Hutton ("there's no vestige of a beginning, no prospect of an end”) e la teoria del Big Crunch, che ipotizza, in un lontano futuro, la possibile implosione dell’universo.
Questi ventotto minuti di musica, che fanno emozionare e godere della pura forza belluina del suono, veicolano dunque significati politici, sociali e filosofici molto profondi, per quanto racchiusi in un formato musicale pressoché elementare e ridotto. Niente a che vedere, insomma, con quelli che saranno epigoni come Rancid, Offspring e Green Day, i quali – con tutto il rispetto e l’affetto - dei Bad Religion possono essere, al massimo, solo una pallida parodia per ragazzini annoiati.
16/03/2014