Adorava New York. La idolatrava smisuratamente... No, è meglio la mitizzava smisuratamente, ecco. Per lui, in qualunque stagione, questa era ancora una città che esisteva in bianco e nero e pulsava dei grandi motivi di George Gershwin.
Nell'immaginario di chi, come me, non è mai stato a New York, convivono rappresentazioni molteplici della Grande Mela. La città "più europea d'America", oasi di mondana e frenetica normalità all'estremo di un continente alieno, costellato di foreste, praterie, fucili e drive-in; la terra dei sogni dell'imprenditoria, della finanza e della stampa, con gli Empire State Building, i Chrysler Building e i Rockefeller Center a sovrastarne la scacchiera di vie numerate immortalandola in una cartolina anni Trenta; il tempio della musica pop di chi la musica la sa leggere e scrivere, casa di Gershwin e Cole Porter, di Broadway, di Tin Pan Alley e del Brill Building. Oppure la New York agiata e stressata, quella del jogging a Central Park e dei
pop-up store, dell'attivismo radical chic e dei quartieri gentrificati, dei
loft di chi
ce l'ha fatta o vuole farlo sembrare, delle parcelle degli psichiatri esperti di esaurimenti e matrimoni scoppiati. O ancora, la metropoli per eccellenza, fatta di emarginazioni e contrasti, viottoli e gang, intellettuali avanguardisti che sono superati in avanguardismo dal turbinio dei rumori di strada: la patria di Andy Warhol, dei
Velvet Underground e del
Cbgb, di
Patti Smith, dei
Talking Heads; di Basquiat e Haring, del
ghettoblaster e della
street culture.
Quale di questi è il vero volto di New York? Senz'altro nessuno: si tratta in tutti e tre i casi di profili caricaturali, il cui mix mediato da immagini, storie e suoni è andato nel tempo a costruire il collage che ha fatto della città - o meglio della sua idealizzazione - un'icona per tutti familiare.
"The Stranger", quinto album del newyorkese Billy Joel, è quanto di più prossimo a un
concept-album su New York. Gran parte delle sue canzoni è un tentativo di trasporre per pianoforte, voce e
rock band le vite del microcosmo newyorkese del suo tempo, attraverso uno stile che deve ai grandi autori newyorkesi jazz e
music hall del primo Novecento almeno quanto ai
Beatles, a
Elton John o al rock'n'roll. Il disco rappresenta, a ben vedere, proprio lo sposalizio tra l'immagine nostalgica, quasi signorile della città - rappresentata dagli stili musicali pre-rock della New York dei tempi d'oro - e la sua vita odierna, fatta di storie agrodolci e piccole, sogni infranti e maschere quotidiane. Manca del tutto nelle sue
suite e
ballad, invece, l'anima "sporca" e conflittuale di NYC: niente Bronx, niente strade e niente
blackness, insomma; ma anche niente punk o controcultura, e per essere un disco del 1977, il fatto non è banale. Risiederà forse anche in questo fascino d'altri tempi la ragione della peculiare aura sprigionata dall'album: nel loro cercare di essere vere, sanguigne e contemporanee, le canzoni e la loro classe allestiscono un palcoscenico ricercato ed esclusivo, creando quell'ineffabile distacco o gioco di specchi che si cela forse dietro ogni Classico con la C maiuscola.
Non che "The Stranger" viva in una bolla di passatismo e supremazia culturale bianca. Pezzi come l'iniziale, scattante "Movin' Out" o l'impetuosa
title track devono agli insopprimibili elementi di matrice nera gran parte della loro carica ritmica. Differentemente dall'atteggiamento timido, caricaturale o imitativo con cui altri bianchi si sono approcciati alla materia nera, tuttavia, quello che Joel adotta in questi e in ogni altro brano del disco è un approccio onnivoro, capace di inglobare influenze e stilemi compositivi senza rinunciare alla forte impronta personale e alle solide basi "bianche" della propria musica.
Il piglio brioso e zigzagante della strofa di "Movin' Out" è dunque un espediente compositivo al servizio del tema centrale del pezzo: la mentalità da "scalatore sociale" con cui molti immigrati europei affrontano la vita nella Grande Mela, i suoi costi, le sue contraddizioni. Nel contrasto tra il passo spigliato della strofa e l'incedere paludoso del
pre-chorus sta tutto il conflitto fra la frenesia e la tenacia piena di ambizione con cui gli "Anthony" e gli "O'Leary" (simbolo, rispettivamente, degli immigrati italiani e irlandesi) lavorano da mattina a sera, accumulando debiti e risparmi per comprarsi la "bella vita", e le speranze spezzate con le quali in breve tempo finiscono per trovarsi. È una New York spietata, quella di "The Stranger", che illude e vuole per sé ogni sforzo, ma poi tradisce lasciando il malcapitato newyorkese (di adozione, in questo caso) con una vita vuota e insoddisfacente. Piuttosto che affannarsi per "salire" ("movin' up"), meglio allora andarsene: "movin' out", come da verso conclusivo del ritornello e scoppiettante
refrain di sax.
Anche la traccia che segue, e che dà il titolo all'album, gioca su doppiezze e contrasti. Questa volta, al centro sono le maschere personali che ciascuno sfoggia per celare le parti di sé che non si vuol mostrare a nessuno: quello sfuggente "straniero" che è simboleggiato musicalmente dal fischiettio notturno e solitario che apre e chiude il pezzo avvolto da una soffusa atmosfera jazz. Lo stacco che segue la suadente esposizione pianoforte-fischio dell'indimenticabile tema melodico rende però conto della dirompente importanza di questo "straniero" nella vita di chi lo ospita e di chi gli sta attorno. Batteria energica, chitarra in
vamping e basso funky formano - insieme all'onnipresente pianoforte - l'ossatura ritmica di un poderoso jazz-rock su cui Joel inanella versi affilati e autocritici: "Once I used to believe/ I was such a great romancer/ Then I came home to a woman/ That I could not recognize/ When I pressed her for a reason/ She refused to even answer/ It was then I felt the stranger/ Kick me right between the eyes". Se i taglientissimi doppi
riff chitarristici che separano i versi non fanno che enfatizzare il cinismo finora esposto, il cambio d'atmosfera del ritornello offre - almeno finché dura - uno spiraglio di serenità: "Don't be afraid to try again/ Everyone goes south/ Every now and then/ You've done it why can't someone else?/ You should know by now/ You've been there yourself". Le parole, adagiate su un tappeto di tintinnii latineggianti, paiono provenire da un secondo interlocutore, quasi una voce fuori campo o un coro teatrale: è uno dei tanti elementi melodrammatici che caratterizzano i brani del disco, e che ne rendono il
songwriting tanto vicino alla tradizione del musical (e non per nulla un musical nascerà, dalle canzoni di Billy Joel: si chiamerà "Movin' Out", e debutterà a Broadway nel 2002).
Se il musical pareva lo sbocco più naturale per la
title track, coi sette minuti e mezzo di "Scenes From An Italian Restaurant" la teatralità si fa ancora più pronunciata, e arriva ad assumere i contorni inconfondibili di una suite
prog. Prog
sui generis, senza dubbio: lontanissimo dal taglio fanta-pastorale che ha contraddistinto tanto le origini britanniche del genere quanto le sue successive declinazioni o imitazioni in giro per mezzo mondo. Quello di Billy Joel, nel pezzo più funambolico della sua carriera, è un rock tanto magniloquente, istrionico e fondato sul pianoforte quanto sarcastico, cittadino e radicato nei fondamentali della
pop music "colta" di matrice bianca: Broadway e i Beatles. È stato lo stesso Joel ad affermare, in ripetute occasioni, che l'idea di "Scenes From An Italian Restaurant" era quella di assemblare alcuni brandelli di canzoni mai completate sfruttando lo stesso "trucco" adottato dai Beatles per il secondo lato di "
Abbey Road": lavorando di improvvisazione e lima, e affidandosi al magico clima dello studio di registrazione.
Questo
tour de force per eccellenza del rock pianistico poggia sulla medesima struttura parentetica della
title track, con un'
intro e un
outro speculari che fanno da sipario e impostano la scenografia del pezzo: una cena tra ex-amanti a un ristorante italiano, sulla cui esatta collocazione nella geografia di NYC i fan ancora si azzuffano. Tra le due quinte - cartoline
jazzy con pianoforte, sax e fisarmonica, perfette e stereotipate - scorrono scene di vita: forse frammenti di conversazione sui vecchi tempi, senz'altro spezzoni di quelle "canzoni incomplete" da cui la composizione ha preso forma. Prima i convenevoli, gli "io tutto bene e tu" a tentare di dissimulare il vuoto lasciato dall'altro, poi i primi ricordi del passato, che man mano montano in una girandola di immagini sempre più vive, festanti e dettagliate, che riportano in vita attimi che non ci sono più e mai torneranno. Anche la musica cresce e si fa più incalzante: di nuovo jazz-rock, che parte a mille ma a ogni battuta accumula ulteriore energia e, seguendo la progressione delle immagini di giovinezza e sogno americano evocate, si tuffa nel passato e aggiunge al suo impeto memorie
Dixieland, vaudeville, ragtime.
È una cavalcata di rara capacità elettrizzante, un fiume in piena di parole e invenzioni musicali che trova forse come unico parallelo nell'America settantiana - nonostante le notevoli differenze stilistiche - la strabordante "American Pie" di Don McLean, anche lei d'altra parte alle prese con una tanto turbinante quanto nostalgica rievocazione degli anni d'oro del Dopoguerra americano.
Non sarebbe Billy Joel e non sarebbe "The Stranger", tuttavia, se nostalgia e bei ricordi fossero l'unico volto delle rievocazioni al Ristorante Italiano. Il cinema della memoria dei due amanti Brenda ed Eddie non fa tempo ad accendersi di tutti i suoi colori che già fanno capolino le prime ombre: il loro matrimonio precipitoso e opulento esplode appena i soldi iniziano a scarseggiare, il divorzio è la conseguenza logica dei fatti, gli amici se ne vanno e ciascuno dei due si ritrova a condurre una vita spenta e priva di soddisfazioni. Così come si è creata, la bolla dei ricordi svanisce, lasciando solo il clima artificiosamente sereno della serata al ristorante.
Più sconfitte che lieti fini dunque, più delusioni che speranze. I "ritratti americani" di Billy Joel formano nel loro complesso un affresco disilluso della mentalità newyorkese, tanto affannata per l'ossessione di "arrivare" (al successo, al matrimonio, all'appartamento
in) da bruciarsi gli anni migliori senza poterli poi riavere indietro. Il diverso registro di "Vienna", tuttavia, getta una luce differente su quello che potrebbe altrimenti apparire un puro esercizio di cinismo. Intervistato tempo dopo averla scritta dopo un viaggio in Europa, l'autore avrebbe affermato che - sebbene allora non se ne fosse reso conto - la canzone tratta del complesso rapporto col padre, che quando Billy Joel era ancora bambino abbandonò la famiglia per trasferirsi in Austria e costruirsi una nuova vita. "Slow down you crazy child/ You're so ambitious for a juvenile/ But then if you're so smart tell me/ Why are you still so afraid? Where's the fire, what's the hurry about?/ You better cool it off before you burn it out/ You got so much to do and only/ So many hours in a day". Quest'elogio della lentezza, glorificata dalla calma asburgica della capitale austriaca, è la chiave che permette di superare il disincanto degli altri pezzi. Per i giovani aver fretta è normale, ed è normale sbagliare, dover tornare indietro e ripartire da capo. Fortunatamente, a patto di aver conservato almeno un po' di energia, c'è sempre tempo di ricostruire: come insegna la vicenda del padre, la seconda parte della vita esiste proprio per trovare la pace che è mancata in quella precedente.
"Vienna" è un lento: una delle quattro
ballad che in "The Stranger" fanno da contraltare alla robustezza ritmica dei pezzi più dinamici. Delle altre, spicca in particolar modo "Just The Way You Are". Abilmente giocato su quel feeling di ostentata sincerità che il pubblico è abituato a chiamare "romanticismo", il brano rappresenta un innegabile classico della canzone d'amore: su una confortevole e parzialmente edulcorata base di derivazione
bossa e condita di ovattati
backing vocals in
multitracking in stile "I'm Not In Love", l'autore invita l'amante a restare la persona che è, senza cambiare se stessa per rendersi più piacevole. Sfoggiando la sua miglior faccia di bronzo da cantante confidenziale, Joel firma il suo primo singolo capace di entrare nella Top Ten statunitense.
Anche in altri episodi Joel abbandona la visuale "a volo d'uccello" sulla Città per vestire panni più personali. Nella beffarda "Only The Good Die Young", messa al bando dalle radio per i toni scabrosi, si prende gioco con disappunto di una giovane fan che, dopo averlo avvicinato al termine di un concerto con fare maliardo, non ha voluto concedersi per via della propria educazione cattolica. Se il testo è sprezzante e pruriginoso ("They built you a temple and locked you away/ But they never told you the price that you pay/ For things that you might have done.../ Only the good die young"), musicalmente la canzone è vivace e orecchiabile: un rockabilly dal gusto leggero e
retró, i cui tentativi di esclusione dalle
playlist radiofoniche non hanno fatto altro che promuovere le vendite del disco. Nonostante gli accenti promiscui, tuttavia, la canzone condivide col resto dell'album il tema fondamentale dell'inutile affanno della giovinezza e dell'inevitabilità del fallimento: per quanto la lingua del narratore sia sferzante e politicamente scorretta, il succo della vicenda è ancora quello dell'ennesimo
nulla di fatto.
Attribuire tutto il fascino del disco alla classe compositiva e alla penna salace di Billy Joel sarebbe tuttavia sminuire il contributo della band - la Billy Joel Band, formata da Doug Stegmeyer al basso, Liberty DeVitto alla batteria, Richie Cannata ai fiati e il combo Steve Khan/Hiram Bullock alle chitarre - e del produttore Phil Ramone. Fin dal precedente album "Turnstiles", il cuore della band aveva seguito il cantante nei live e affinato la tecnica della rifinitura in studio delle composizioni: diversi album di Joel sono nati attorno a un nucleo di pochissime canzoni portate in studio "fatte e finite" e molti spunti e spezzoni che hanno preso la forma di composizioni complete soltanto grazie alle
session in studio e la successiva revisione dell'autore. Proprio per "The Stranger", Joel puntava a un'adozione massiccia di questa modalità compositiva, e memore del lavoro svolto da
George Martin coi Beatles ai tempi di "Abbey Road", aveva tentato di realizzare il "colpaccio" ottenendo la collaborazione del leggendario produttore. La scarsa convinzione di Martin nei confronti dei musicisti della band di Joel - fondamentali, invece, per il cantautore e il suo metodo di lavoro - spinsero però ad accantonare il progetto; Joel si rivolse allora a Phil Ramone, che avrebbe poi collaborato con lui per molti album (sentito poi il risultato finito di "The Stranger", Martin scrisse a Joel manifestando pentimento per la fallita collaborazione).
Nessun brano mostra l'importanza degli artisti a "contorno" dell'autore quanto "Get It Right For The First Time", il penultimo episodio dell'album. Sorta di samba dai robusti contorni
jazz/disco/rock, il pezzo è un'eccellente prova di coesione e versatilità da parte della band, nonché evidenza dell'abilità del produttore nel dare il giusto peso al suono di ciascuno strumento senza togliere alla voce la sua centralità pop. Proprio in merito al brano, il batterista Liberty DeVitto avrebbe ricordato che - in perfetta sintonia col titolo - proprio questo pezzo fu il più difficile da incidere in maniera soddisfacente, a causa della difficoltà di mantenere la giusta armonia esecutiva tra complessità musicale e "facilità" pop.
Ed è forse proprio lo speciale bilanciamento tra ambizione e immediatezza che rende l'album unico e inconfondibile. Sposando equilibrismi jazz-rock e sfacciataggine da star, ritrattismo sincero ma distaccato con false romanticherie in prima persona, Joel riesce nell'impresa di confezionare un disco pop al tempo stesso adulto e dinamico, diretto e stratificato. Molti critici lo snobberanno, chiamando la sua musica "soft-rock", quasi a denunciarne la presunta mancanza di autenticità e attualità. Ad anni di distanza siamo qui a celebrarlo perché Joel, col suo stile cinico, artefatto e fuori dal tempo, ci aveva visto lungo: la sua carriera sarebbe proseguita ancora per decenni a differenza di quelle dei tanti più "onesti" artisti coevi. Giusto così: d'altra parte, "Only the good die young", e la via per una vita appagante è - come ricorda "Vienna" e in fin dei conti l'intero disco - la lunghezza di orizzonti e la mancanza di foga.
18/12/2016