Oggi ricordato principalmente per l'hit del 1975, "Make Me Smile (Come Up And See Me)", del resto uno dei capolavori del pop britannico, Steve Harley vanta in realtà un paio di album di pregio assoluto alla guida dei Cockney Rebel.
Dopo una breve parentesi come giornalista musicale, Harley chiama a sé il violinista John Crocker, che ha da poco tentato senza successo di entrare nelle fila dei Trees, formazione folk di un certo rilievo benché sconosciuta al grande pubblico. I due si conoscono da anni e hanno già suonato insieme di tanto in tanto, non gli risulta pertanto difficile constatare una certa alchimia nel mettere in piedi una band. Bastano pochi mesi e, nell'estate del 1972, i Cockney Rebel appaiono per la prima volta dal vivo.
La loro musica sembra convincere tutti nel fervente sottobosco londinese, tanto che dopo appena cinque concerti si ritrovano un contratto per la Emi e un budget mastodontico a disposizione.
Come produttore viene scelto Neil Harrison, giovane talent scout della Emi alla sua prima esperienza in cabina di regia (si distinguerà in seguito per il suo costante sostegno ai Bijelo Dugme, la band di Goran Bregović prima che iniziasse a fare folk balcanico per turisti). Agli arrangiamenti un'altra giovane promessa, Andrew Powell, in seguito collaboratore fisso di Alan Parsons, sia per i suoi dischi, sia per la direzione di album come "Year Of The Cat" di Al Stewart e "Rebel" di John Miles. Geoff Emerick come tecnico del suono è invece un nome di esperienza, il giusto contraltare al facile entusiasmo giovanile, dritto dalle esperienze con Beatles (dal '66 al '69), Zombies ("Odessey And Oracle"), Wallace Connection, Badfinger e altri.
Lo staff è insomma il massimo che si possa chiedere, e dal canto loro i Cockney Rebel sono una band dalla preparazione tecnica ragguardevole e dal suono particolarmente originale, con le chitarre elettriche rimpiazzate dal violino elettrico di Crocker, dalle tastiere di Milton Reame-James (piano elettrico in particolare) e dalle chitarre acustiche.
L'album di debutto, "The Human Menagerie", esce nel novembre del 1973, ma sembra passare inosservato. Un conto sono i locali di Londra e un conto è fare breccia nell'Inghilterra della provincia e della classe lavoratrice. Le spese vengono comunque coperte quando un brano, "Sebastian", ottiene grande successo in Olanda e Belgio, scalando entrambe le classifiche fino al numero 2. Nemo propheta in patria, verrebbe da dire, se non che col successivo album, "The Psychomodo", anche il Regno Unito si sarebbe accorto di loro.
È però "The Human Menagerie" che inventa la formula magica, e la mostra subito matura, senza apparente bisogno di aggiustamenti.
I Cockney Rebel debuttano nell'anno in cui il glam rock sembra aver definitivamente conquistato il paese, e il loro prodotto risente di quell'atmosfera. Steve Harley è un alieno androgino con un occhio rivolto a Bob Dylan e l'altro a Marlene Dietrich. Descrizione applicabile in maniera efficace anche a David Bowie, se non fosse che simili ingredienti permettono una serie di variazioni da non sottovalutare. I Cockney Rebel rimandano molto relativamente a Bowie, sia perché il timbro vocale di Harley è differente, sia per il tono sardonico che lo avvicina semmai a Ray Davies, sia perché la band, pur proponendo un pop rock sofisticato e decadente, vi inserisce una componente celtica inaudita per l'ambito, oltre a strutture elaborate e dilatate che in più brani la portano a un passo dal rock progressivo.
La peculiarità emerge sin dall'iniziale "Hideaway", meno di quattro minuti, ma insospettabilmente densa. Andamento spedito ingrossato da arpeggi acustici e violino folk, instancabili ricami di piano Rhodes in sottofondo, ritornello martellante, voci femminili di guarnizione, con ogni elemento che si muove a metà strada fra la spinta ritmica e il ghirigoro melodico, senza soluzione di continuità e senza prendere mai posizione precisa. La voce di Harley viene lievemente deformata da un filtro, come se non fosse già appariscente di suo.
"Crazy Raver" è ancora più scatenata, col violino a un passo dai Fairport Convention, il pianoforte boogie che picchia instancabile, il sassofono sfiatato, e i cori soul. A sentire la performance di Harley si giurerebbe peraltro che i Blur siano passati da queste parti.
L'atmosfera si rilassa fra le liquidità ballabili di "Loretta's Tale", con mandolino e piano elettrico a rincorrersi delicati, mentre "Muriel The Actor" gioca la carta della contaminazione calypso, confermando come Harley avesse ben studiato le mosse dei Kinks. Non che al brano manchi personalità, anzi l'assurdo andamento controsterzo e la logorrea del cantante la rendono un oggetto amabilmente eccentrico.
Il vero genio emerge però nelle canzoni più lunghe, che sono anche quelle in cui Harley dà il meglio come autore di testi. In chiusura del primo lato ci sono infatti i sette minuti della già citata "Sebastian".
Multiforme, tragica ballata che si snoda fra pianoforte, clavicembalo, muri d'orchestra e cori lirici, impennate ritmiche e infiniti rivoli di melodie, con la voce di Harley filtrata e contorta in una sorta di maschera gotica sull'orlo del collasso nervoso. I versi, imperscrutabili, sono stati sottoposti a ogni sorta di lettura nel corso degli anni, dalla descrizione di un amore finito ("Radiate simply, the candle is burning so low for me. Generate me limply, I can't seem to place your name, cherie. To rearrange all these thoughts in a moment is suicide. Come to a strange place, we'll talk over old times we never spied") all'elogio della diversità, che ha portato non a caso il brano a essere interpretato come manifesto omosessuale dai dudes dell'epoca ("And your view of society screws up my mind like you'll never know. Lead me away, come inside, see my mind in kaleidoscope. Somebody called me Sebastian. Love me sublime, mangle my mind, do it in style, so we all know, oh yeah!").
In apertura del secondo lato si trova "Mirror Freak", col suo passo claudicante e il violino registrato in lontananza, sovrastato da organo e piano elettrico che si fondono in un impasto sonoro dall'atmosfera lounge. Le frasi di Harley mescolano, in un sapiente gioco di contrasti, celebrazione dell'ego ("Oh you're too cute to be a big rock star, but if you're cool you may not push it too far. Oh just believe in yourself and take a tip from the elf") e senso di caducità ("And the new man he appears to be winning. Oh what a shame, such a bore").
Chiudono i quasi dieci minuti di "Death Trip", definitivo camaleonte dal passo solenne, che assorbe e rigetta melodie e riff, gorgoglii d'ottoni e dissonanze d'archi, minuetti e ostinati, scatti sorprendenti e reiterazioni, momenti di vuoto e muri strumentali. Il brano rappresenta un viaggio nell'ignoto. Il prog che smette di essere fiaba e diventa morbosità, la ballata romantica che trascende nella musica cosmica, l'autodistruzione del dandy in un affresco di intensità wagneriana, una forma di teatro rock a sé stante, capace di distaccarsi dal canovaccio dei musical.
Se il tutto dovesse sembrare sopra le righe, si faccia attenzione alle parole di Harley, che ridicolizzano proprio quei cantanti pronti a offrire la ribellione su un piatto d'argento, con slogan grossolani e ideologia a buon mercato: "Someone's trying to fool us, maybe it's your daughters. Can you hear the Walrus offering a sad solution? He's calling out for teenage revolution. And can you think of one good reason to remain?".
Certo, all'epoca una simile stratificazione di suoni e simbologie può aver mandato in confusione più di un addetto ai lavori, basti pensare alla ferocissima stroncatura di Nme, ma il tempo ha pian piano fatto giustizia e regalato all'opera un culto fedele. Se solo fosse un po' più ampio, sarebbe perfetto.
05/06/2016